Nel 2019 la Cina ha importato semiconduttori per 304 miliardi di dollari: più del petrolio e dell’import complessivo dall’Unione Europea, suo maggior partner commerciale[1]. L’industria cinese dei circuiti integrati è forte e in rapida crescita, trainata dal primato nazionale nella fabbricazione di prodotti elettronici, dall’enorme mercato interno e dal costante sostegno statale, ma resta indietro ai leader mondiali del settore in tutti i segmenti della filiera produttiva. Inoltre, solo il 15,7% dei semiconduttori utilizzati in Cina nel 2019 era stato prodotto nel paese[2]. Il mercato più grande al mondo dei semiconduttori e dei circuiti integrati dipende dai fornitori stranieri non solo per i processori finiti e per altri circuiti, ma anche per forniture e software essenziali in ogni fase della filiera, dalla progettazione alla produzione, fino all’imballaggio.
L’interdipendenza è stata a lungo vantaggiosa per la Cina, alimentando la rapida crescita della sua industria microelettronica. Huawei, attraverso la sua sussidiaria HiSilicon, ha potuto progettare e realizzare circuiti per smartphone di ultima generazione e impianti 5G in virtù del libero accesso alla filiera di approvvigionamento globale.
Quest’età dell’oro potrebbe essere gli sgoccioli. Con Trump gli Stati Uniti hanno identificato nei semiconduttori una grande vulnerabilità della Cina e ne hanno sfruttato la dipendenza dalla tecnologia straniera. In particolare, hanno limitato il loro export di microelettronica a fini militari, prendendo di mira i destinatari della stessa. Negli ultimi due anni l’industria dei semiconduttori è divenuta così uno dei principali terreni di scontro tra USA e Cina. Le restrizioni all’export statunitense, inizialmente concentrate su Huawei e sui suoi più stretti affiliati, si sono gradualmente allargate ad altri fruitori cinesi della microelettronica d’importazione, compresa la stessa industria dei semiconduttori. I primi indizi suggeriscono che Biden proseguirà nel solco tracciato dal suo predecessore, ribadendo e magari inasprendo ulteriormente l’approccio restrittivo.
Tutto ciò ha messo in allarme Pechino. Prima dell’offensiva di Trump, la Cina aveva fissato obiettivi ambiziosi (forse troppo) per la sua industria dei semiconduttori. Il piano “Made in China 2025”, formulato nel 2015, mirava a produrre in patria il 40% dei semiconduttori usati dal paese entro il 2020 e il 70% entro il 2025. Ora questi obiettivi di autosufficienza sono stati ulteriormente alzati: il quinto plenum del diciannovesimo Comitato centrale – il principale organismo decisionale del paese, che ha approvato le linee del piano quinquennale 2021-2026 e gli obiettivi strategici nazionali per il 2035 – ha decretato che “l’autonomia scientifica e tecnologica è il pilastro della strategia di sviluppo cinese”[3].
Ma affinché la strategia cinese di “sviluppo guidato dall’innovazione” possa avere successo, recuperare terreno nel campo dei semiconduttori è essenziale. Quella dei semiconduttori è un’industria chiave che merita particolare attenzione da parte dei governi impegnati nella competizione tecnologica, perché è il motore della rivoluzione attualmente in corso nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). I semiconduttori sono centrali in tutti i settori industriali dove la Cina punta a diventare un leader globale, da quello militare all’economia digitale legata al 5G: intelligenza artificiale, cloud computing e Internet delle Cose. Se il paese resterà vulnerabile ai controlli sul trasferimento di tecnologia straniera verso la sua industria dei semiconduttori, vedrà allontanarsi gli obiettivi enunciati da Xi Jinping al xix Congresso nazionale del Partito comunista cinese (PCC) del 2017: rendere entro il 2050 la Cina una potenza globale, tecnologicamente innovativa e con un esercito di prim’ordine[4].
Oggi nessun’altra industria cinese mostra un divario maggiore tra obiettivi e stato dell’arte. I semiconduttori sono la miglior dimostrazione di quanto affermato da Xi Jinping nel 2016 sul fatto che “la dipendenza da tecnologie chiave è il maggior pericolo occulto per noi”[5]. Il problema cinese dei semiconduttori può essere paragonato solo alle persistenti difficoltà che il paese incontra nel progettare e fabbricare da sé motori per la propria industria aeronautica, civile e militare. Ciò contrasta fortemente con gli spettacolari progressi compiuti in molti altri settori ad alta intensità tecnologica, come il programma spaziale, l’energia nucleare o l’alta velocità ferroviaria.
LA SUPPLY CHAIN GLOBALE: INTERDIPENDENZA E COLLI DI BOTTIGLIA. Il termine “semiconduttore” indica un materiale le cui proprietà di conduzione elettrica sono alla base dell’elettronica. È usato per designare circuiti integrati realizzati assemblando transistor stampati su wafer di silicio, germanio o arseniuro di gallio. Dal primo circuito integrato della Texas Instruments, nel 1958, l’industria dei semiconduttori è divenuta globale, concentrata, specializzata, interdipendente e trainata da colossali investimenti in ricerca e sviluppo. I suoi attuali fulcri sono gli Stati Uniti, la Cina, la Corea del Sud, Taiwan, il Giappone e l’Europa occidentale; la sua struttura si articola in complesse catene del valore che collegano numerosi soggetti ai rispettivi subappaltatori. Il settore produce due tipi principali di circuiti integrati: processori (logici e analogici, come le unità d’elaborazione grafiche e dei computer) e memorie.
Per comprendere gli sforzi cinesi occorre illustrare il processo produttivo[6], suddiviso in tre fasi principali: progettazione, produzione e assemblaggio, test e imballaggio. Solo pochi giganti del settore, i cosiddetti produttori integrati, realizzano al loro interno tutte e tre le fasi. Si tratta di realtà come Intel, Samsung, sk Hynix e Micron Technology. L’Europa conta tre produttori tra i primi venti: Infineon, nxp e STMicroelectronics.
Il processo comincia con la progettazione, detta in gergo “fabless”: cioè, la progettazione da parte di aziende che mancano (less) di una fabbrica (fab) fisica, in quanto la produzione è realizzata altrove. (È anche un gioco di parole sull’inglese fabulous – favoloso.) Il fabless vale circa il 38,5% del volume globale di vendite dei circuiti integrati. Questo modello spiega perché gli Stati Uniti dominino il segmento a più alto valore aggiunto dell’industria dei semiconduttori con il 47% del valore, sebbene nessuno stabilimento americano sia oggi in grado di produrre circuiti di ultima generazione[7].
Il primato statunitense è accentuato dal fatto che nel concepire nuovi circuiti, le aziende fabless dipendono da quattro imprese di software avanzati: tre americane (Cadence, Synopsis, Ansys) e una tedesca (Siemens eda, già Mentor Graphics, acquistata da Siemens nel 2017 ma la cui proprietà intellettuale resta essenzialmente statunitense). Questi giganti dominano il 90% del mercato globale dei software per la progettazione e produzione dei circuiti integrati, la cui realizzazione diventa sempre più complessa e tecnologicamente avanzata.
Una volta progettati i semiconduttori, la loro fabbricazione è appaltata alle fonderie. Quelle più avanzate sono ad alta intensità di capitale, il che spiega l’elevata concentrazione del segmento a livello globale. Le fonderie pure-play (prive cioè di capacità di progettazione) e i produttori integrati condividono un mercato dominato dal gigante Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (tsmc), pioniere del modello fabless-fonderia. Il suo solo concorrente di pari taglia è la sudcoreana Samsung. La fascia alta del settore, insomma, è un duopolio e questo ha notevoli implicazioni per l’economia digitale, che fa affidamento molto più di altri comparti sulla progressiva miniaturizzazione dei circuiti integrati.
Le fonderie richiedono inoltre apparecchiature altamente specializzate, la cui industria è dominata da tre aziende americane – Applied Materials, Lam Research e Kla-Tencor – e una europea, l’olandese asml. Quest’ultima ha il monopolio della litografia ultravioletta estrema, necessaria a stampare i nodi dai 7 nanometri in giù e dunque essenziale per raggiungere l’obiettivo dei 2-3 nanometri, che rappresenta la frontiera attuale[8]. Un singolo macchinario di asml costa circa 250 milioni di dollari e gli unici a usarli oggi sono Samsung e tsmc.
L’ultima parte del processo vede coinvolte le aziende di assemblaggio, test e imballaggio, che generano circa il 6% del valore aggiunto del comparto. Quest’industria da 30 miliardi di dollari è dominata da imprese taiwanesi (ase, spil, Powertech) e cinesi (jcet Group, Tongfu Microelectronics, Tianshui Huatian Technology) e da un gruppo americano, Amkor Technology. È un segmento a minore intensità di tecnologia e capitali rispetto ai precedenti, il che spiega perché sia stato il primo a essere delocalizzato in Estremo Oriente già negli anni Sessanta. Tale passaggio è stato decisivo per l’emergere di un’industria dei semiconduttori a Taiwan, ma anche per lo sviluppo del settore in Cina[9].
Questa descrizione schematica evidenzia la complessa e intricata interdipendenza che caratterizza la catena del valore nell’industria dei circuiti integrati, il cui successo si deve soprattutto alla divisione del lavoro e alla specializzazione, che hanno consentito di aumentare molto la qualità dei prodotti a costi sempre minori. La creazione di un nuovo processore implica uno scambio continuo tra ideatori, progettisti di software, fabbricanti di macchinari e fonderie, in un complesso iter d’innovazione che riposa sulla forza di tutti i soggetti coinvolti. La corsa alla miniaturizzazione dei processori, infatti, è anche una corsa ad aggiornare i software e i macchinari che ne consentono la fabbricazione. Ne consegue che la catena del valore è anche una catena di fiducia: le aziende che si occupano di testare i prodotti, ad esempio, hanno pieno accesso alla proprietà intellettuale di uno specifico circuito integrato, il che crea tra l’altro nicchie specifiche per forme ottimali di assemblaggio, test e imballaggio.
La tecnologia di punta dei circuiti integrati ha applicazioni puramente digitali nei computer, nell’elettronica portatile e nelle telecomunicazioni. Nei prossimi cinque anni nodi da cinque, tre e due nanometri integreranno i processori di nuova generazione, i centri dati del cloud computing (comprese le applicazioni che fanno uso dell’intelligenza artificiale), i server e gli smartphone di fascia alta. Questo è di gran lunga il segmento di mercato a più alto valore aggiunto, in quanto il costo di produzione dei relativi processori cresce in misura proporzionale alle prestazioni e ai requisiti di dissipazione energetica. Ecco perché Intel, pur non avendo fonderie in grado di fabbricare nodi inferiori ai 7 nanometri, domina il mercato dei server. Insomma: l’industria che produce l’hardware dell’ICT è un potente volano di modernizzazione dei circuiti integrati. Oltre ai computer e agli smartphone, infatti, server, fornitori di servizi cloud e “fabbricanti” di criptovalute alimentano la domanda di processori grafici e computazionali. In prospettiva lo sviluppo del 5G, dei supercomputer, dell’intelligenza artificiale e del connesso machine learning (l’apprendimento autonomo delle macchine), oltre ai continui sviluppi del settore automobilistico (elettrificazione, guida autonoma), manterranno i semiconduttori al centro della competizione economica globale, dunque della rivalità tra potenze.
tsmc e Samsung hanno tutti i requisiti per trarre il massimo vantaggio dalla nuova rivoluzione digitale in corso, perché l’economia digitale globale dipende dalle loro fonderie avanzate. In pratica, però, il mondo dipende da tsmc molto più che da Samsung, perché quest’ultima – in quanto conglomerato industriale che sforna prodotti finiti – assorbe il grosso della propria offerta di circuiti integrati.
Le passate generazioni di semiconduttori continuano a trovare numerose applicazioni. L’industria automobilistica è due o tre generazioni di semiconduttori indietro rispetto alle applicazioni puramente digitali, soprattutto per questioni di affidabilità, dunque di sicurezza.
Le applicazioni militari sono relativamente marginali per l’industria dei semiconduttori in termini di profitti (circa l’1% del totale nel 2003 secondo un rapporto della National Defense University a Washington, l’1,1% nel 2019 secondo Deloitte)[10]. Ma le quote di mercato non rendono l’idea di quanto strategico sia il comparto per gli equilibri militari. Oggi nei sistemi di comando e controllo non rileva tanto la miniaturizzazione estrema, quanto l’affidabilità e il disegno specifico dei circuiti. I progressi nella tecnologia dei semiconduttori alimentano ovviamente la competizione militare tra Stati: l’elettronica a uso bellico fa ormai la differenza nelle operazioni di controllo, comando e intelligence. Ma presenta specifiche vulnerabilità, come l’effetto paralizzante di un attacco elettromagnetico o l’inserimento, già in fabbrica, di software “pirata” che alterino a comando il funzionamento dei processori. Il sabotaggio di un sistema d’artiglieria o delle comunicazioni militari è uno scenario realistico. Ciò crea opzioni offensive e sfide difensive per le industrie avanzate degli armamenti.
L’attuale industria bellica, pertanto, non dipende dalle generazioni più avanzate di circuiti integrati. Questi, tuttavia, potrebbero cambiare il futuro di operazioni militari che fanno crescente affidamento sulle nuove tecnologie digitali. È in tale prospettiva che l’amministrazione Trump ha lavorato duro per convincere (a suon di sussidi) tsmc a costruire uno stabilimento in Arizona. L’economia digitale statunitense necessita di un accesso sicuro ai circuiti integrati con nodi da cinque nanometri e la produzione taiwanese non basta a soddisfare la domanda futura[11]. L’economia puramente digitale dovrebbe assorbire il grosso della nuova produzione, ma anche l’industria bellica statunitense beneficerà della fabbricazione sul suolo americano di processori adatti ai suoi bisogni, vedendo tra l’altro ridotto il rischio di sabotaggio.
GRANDI AMBIZIONI E INVESTIMENTI, MA NON ANCORA L’AUTOSUFFICIENZA. La Cina, come visto, è uno dei sei poli mondiali dell’industria dei semiconduttori. Nel 2019 il comparto nazionale ha fatturato 29,4 miliardi di dollari, pari al 5,9% del totale mondiale[12]. L’autosufficienza ambita dalla Cina abbraccia l’intera filiera, dalla progettazione all’imballaggio. Tuttavia, sebbene il paese vanti aziende tra le prime venti al mondo che insieme coprono l’intero processo produttivo, la strada verso l’autonomia strategica resta lunga. Se infatti, com’è probabile, dovessero permanere stringenti controlli all’export di componentistica, l’autosufficienza rimarrebbe fuori portata per molti anni ancora. Questo non toglie che la Cina abbia compiuto progressi notevoli, ma i successi degli ultimi vent’anni riposano su un’interdipendenza globale nell’industria microelettronica cui l’attuale competizione geopolitico-strategica ha assestato un duro colpo. Delocalizzazioni e accesso alla tecnologia statunitense hanno consentito all’industria cinese di sviluppare capacità impressionanti nella progettazione, nel test e nell’assemblaggio. Cinesi sono, inoltre, la quinta e la sesta fonderia al mondo per volume di vendite nel 2019: rispettivamente, smic e Hua Hong Group.
Pur coprendo l’intera filiera produttiva, le aziende cinesi dipendono ancora (e fortemente) da tecnologie, macchinari e brevetti stranieri per i processi più avanzati. Data l’esposizione dell’industria microelettronica nazionale alle sanzioni statunitensi, dal 2019 si registra una spinta maggiore di aziende e governo cinesi a sviluppare fornitori interni di componenti, chimica e software necessari al comparto. Yangtze Memory, ad esempio, si è prefissa di acquistare il 70% della componentistica da fornitori locali, rispetto al 30% del 2019.
Ma le debolezze cinesi restano facilmente sfruttabili. Come sottolineato da un ricercatore dell’Accademia cinese delle scienze, “il principale limite allo sviluppo tecnologico ed economico cinese è che la tecnologia chiave non è nelle nostre mani e l’approvvigionamento è ostacolato da stretti colli di bottiglia. Anche se beneficiamo dalla divisione internazionale del lavoro grazie ai nostri vantaggi comparati, dobbiamo ancora giungere a controllare pienamente le tecnologie di punta. È un fatto che nella dura competizione internazionale, queste tecnologie non possono essere ottenute attraverso normali scambi di mercato”[13].
I suddetti colli di bottiglia sono stati accentuati dagli embarghi selettivi dell’amministrazione Trump, miranti a ostacolare l’ascesa della Cina a potenza tecnologica. Sotto Trump gli Stati Uniti hanno infatti gradualmente individuato nell’industria dei semiconduttori una leva potente nella competizione con la Cina. È stato un processo quasi empirico, frutto dell’intensificata campagna americana contro le infrastrutture per il 5G che Huawei offre in giro per il mondo. Inizialmente l’offensiva di Washington si è configurata come una campagna diplomatica volta a evidenziare i rischi per la sicurezza insiti nella scelta di Huawei. Solo in un secondo tempo gli usa hanno creato un cordone sanitario che impedisce a Huawei e alle sue sussidiarie (in particolare HiSilicon) di accedere alla tecnologia straniera dei semiconduttori. La campagna ha avuto un forte impatto, mettendo in forse la capacità del colosso cinese di costruire e manutenere infrastrutture per il 5G, ma anche la sua offerta di smartphone. Verso la fine del mandato di Trump l’azione statunitense si è estesa alle aziende di semiconduttori che producono per il comparto militare, nell’ambito di uno sforzo volto a bloccare il trasferimento tecnologico che sta contribuendo alla modernizzazione dell’Esercito nazionale di liberazione. La contemporanea revisione delle norme che regolano l’export e l’investimento estero concorre a limitare ulteriormente l’accesso della Cina alle tecnologie statunitensi dei semiconduttori e ai circuiti integrati fabbricati in paesi terzi nell’ambito di filiere produttive che fanno capo agli Stati Uniti.
Quest’offensiva è anche una reazione all’inveterato furto di proprietà intellettuale praticato dai cinesi ai danni di aziende statunitensi, come Qualcomm e Micron, che operano nel comparto dei semiconduttori. L’azione americana obbliga dunque la Cina ad accelerare la corsa all’autosufficienza. Il paese ha capitali, mercato interno, eccellenze tecnologiche e un ecosistema industriale diversificato, ma il modello d’investimento verticistico a guida statale che domina la sua industria dei circuiti integrati ha tre grandi punti deboli: un meccanismo non ottimale di allocazione delle risorse che implica notevoli sprechi, ostacoli esterni nella forma di nuove barriere al trasferimento tecnologico, una carenza di risorse umane non colmabile in tempi brevi. È probabile che la combinazione di questi fattori impedisca alla Cina di centrare i suoi obiettivi, spingendola a usare tutte le risorse disponibili per aggirare l’embargo tecnologico: dagli sforzi d’innovazione interni all’acquisizione di know-how straniero, quando possibile.
Pechino ha identificato quello dei semiconduttori come un settore strategico già nel 1956 e da allora ha elaborato molti piani nazionali in materia. Il primo piano decennale per lo sviluppo tecnologico e scientifico portò all’istituzione di programmi universitari e ai primi impianti industriali. Negli anni Sessanta la tecnologia cinese di settore non aveva nulla da invidiare a quelle giapponese, sudcoreana e taiwanese.[14] Il divario tecnologico comparve e si ampliò negli anni Settanta e Ottanta, quando nell’Asia non comunista cominciarono a intensificarsi le delocalizzazioni dall’Occidente, cui si sommarono politiche nazionali a sostegno dell’industria microelettronica. Gli anni Novanta videro uno sforzo governativo per acquisire tecnologie straniere attraverso collaborazioni industriali volte a spostare la produzione in Cina: una politica che attrasse aziende come Philips, nec e Lucent. L’iniziativa più ambiziosa, il Progetto 909, mirava allo sviluppo di memorie da parte della Shanghai Hua Hong nec Electronics, una joint venture tra la cinese Hua Long e la giapponese nec. Quest’ultima, tuttavia, era particolarmente attenta a impedire trasferimenti forzati di tecnologia[15]. La produzione avanzata di tecnologie dell’informazione e della comunicazione figurava tra le priorità del Piano di sviluppo a medio e lungo termine di scienza e tecnologia che abbracciava il quindicennio 2006-2020. A tal fine, il documento individuava sedici settori industriali prioritari, tra cui quelli coinvolti nella produzione di componenti elettroniche chiave (come i processori)[16].
L’obiettivo della leadership globale nel settore è stato formulato in seguito. Compare per la prima volta nelle “Linee guida per lo sviluppo di un’industria nazionale dei circuiti integrati” licenziate dal Consiglio di Stato nel 2014[17]. Questa riformulazione delle ambizioni nazionali con un accento sul primato e sull’innovazione è in linea con le priorità politiche di Xi Jinping.
“Made in China 2025” è il più noto tra i piani nazionali. Esso ha spinto Europa, Stati Uniti e Giappone a esprimere timori per le ambizioni tecnologiche di un capitalismo di Stato che non esita a usare metodi predatori per mettere le mani su tecnologie straniere[18]. Varato nel 2015, il piano è soprattutto una dichiarazione d’intenti sul raggiungimento del primato mondiale in dieci settori ad alto valore aggiunto tra cui tecnologie dell’informazione, robotica, aerospazio, materiali avanzati e cantieristica navale. Tutti ambiti che ormai richiedono l’uso dei semiconduttori. Come visto sopra, il documento fissa l’obiettivo di produrre in patria il 40% dei semiconduttori usati dal paese entro il 2020 e il 70% entro il 2025[19]. Nel quinto plenum del xix Comitato centrale, progettazione e fabbricazione dei semiconduttori sono ribadite come prioritarie[20] al fine di “rafforzare la posizione nazionale in ambito scientifico e tecnologico”[21].
L’attuale sforzo cinese per passare dalla rincorsa alla leadership e alla semi-indipendenza nei processi più avanzati di stampa e fusione è sostenuto da una politica industriale lautamente finanziata che include fondi statali per ricerca e sviluppo, sussidi diretti, regimi fiscali e sulla proprietà intellettuale accomodanti.
Per il 2020 molte stime indicano in 150 miliardi di dollari le sovvenzioni pubbliche erogate all’industria cinese dei semiconduttori, a livello nazionale e provinciale. Malgrado le cifre astronomiche necessarie a costruire gli stabilimenti più avanzati, i soldi non sono il maggior problema della Cina.
Anche il mercato dei capitali, infatti, è altamente competitivo: l’offensiva di Washington ha generato una patriottica corsa speculativa all’industria dei circuiti integrati statunitense. Nel luglio 2019 la borsa di Shanghai ha inaugurato la Piattaforma d’innovazione scientifica e tecnologica (il cosiddetto mercato Star), nella speranza di creare un’equivalente del nasdaq e facilitare la quotazione dei giganti tecnologici cinesi. A un anno dalla sua istituzione, lo Star conta 123 aziende quotate, incluse dodici di semiconduttori. Risposta al decoupling (sganciamento) di America e Cina nel settore dell’alta tecnologia, la nuova borsa tecnologica cinese offre un’altra piazza alle aziende nazionali che incontrano problemi nel quotarsi a New York, ma anche un’alternativa a Hong Kong per quelle (sono circa un centinaio) già presenti nei listini americani e in cerca di una seconda quotazione. smic è un caso emblematico: dopo aver lasciato il nasdaq nel 2019 per le scarse transazioni dei propri titoli, a luglio 2020 la principale fonderia cinese è sbarcata a Shanghai rastrellando 6,6 miliardi di dollari solo nel giorno della quotazione[22].
La Cina, tuttavia, sconta problemi di allocazione non ottimale delle risorse pubbliche, come ammesso a ottobre 2020 dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme in un comunicato inusitatamente duro. Il portavoce della commissione, Meng Wei, ha attaccato molte aziende del settore per aver “intrapreso progetti alla cieca” al solo scopo di attrarre fondi governativi, malgrado la totale mancanza di esperienza, know-how e finanche personale qualificato, con conseguente spreco di risorse pubbliche[23].
Di certo c’è che l’aggressivo sostegno pubblico cinese all’industria dei semiconduttori ha causato gravi sprechi e una cattiva distribuzione delle risorse. Vi è pertanto un’incongruenza tra le richieste del mercato e l’effettivo panorama industriale, ma anche un’assenza di sinergie che impedisce alla Cina di sfruttare appieno le economie di scala del suo vasto mercato[24]. È questa una persistente debolezza del capitalismo di Stato cinese. Lo sperpero in alcuni progetti, però, non implica che anche gli altri siano destinati a fallire. I vincitori emergono malgrado lo spreco, dunque le sovvenzioni pubbliche colgono in parte nel segno.
Il connubio tra capitale abbondante e bisogni tecnologici ha generato una strategia di acquisizioni estere a fini di trasferimento tecnologico. È stato questo uno degli obiettivi del Fondo Big Tech, ma anche lo Tsinghua Unigroup e altri fondi si sono attivati sui mercati internazionali per sostenere le acquisizioni. Il quadro generale delle acquisizioni cinesi all’estero nel campo dei semiconduttori presenta finora il seguente bilancio: tentativi falliti di acquisire giganti nel comparto della progettazione e della fabbricazione; alcuni successi nel ramo della componentistica; una serie di episodi legati all’uso di componenti con possibili applicazioni militari.
In aggiunta alla tecnologia straniera come sostituto dell’innovazione nazionale, le aziende cinesi devono risolvere un problema enorme: la scarsità di risorse umane. Un Libro bianco redatto nel 2018 dal ministero dell’Industria e della tecnologia dell’informazione stimava in 200.000-300.000 unità l’ulteriore personale qualificato di cui l’industria nazionale abbisogna per colmare il divario con le realtà estere più avanzate e conseguire l’autosufficienza. Negli ultimi anni campagne di reclutamento in Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti, Europa e a Taiwan hanno fatto notizia.
PROSPETTIVE E INTERESSI EUROPEI. Gli sforzi cinesi sono impressionanti, ma difficilmente basteranno a centrare gli obiettivi fissati dal partito per l’industria nazionale dei semiconduttori. Tre le maggiori, persistenti debolezze figurano gli ostacoli esterni al reperimento di tecnologia, la scarsità di risorse umane, un sistema che non consente l’allocazione ottimale delle risorse e il pieno sfruttamento delle economie di scala. La prima vulnerabilità è quella su cui le politiche cinesi possono di meno perché l’importazione di tecnologia estera, pur dipendendo in certa misura dall’influenza di Pechino, è in ultima analisi funzione delle politiche di Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e dei paesi europei leader nell’industria dei semiconduttori, specie Francia, Germania, Olanda e Regno Unito.
Queste criticità renderanno difficile alla Cina cavalcare la rivoluzione digitale innescata dal 5G con la crescita delle applicazioni industriali del cloud, dei big data e dell’intelligenza artificiale, nonché con l’aumento della potenza computazionale di pc, computer industriali, elettronica portatile e oggetti connessi in Internet. La Cina non perderà il treno della rivoluzione digitale: resterà leader in molti segmenti, dato che non tutte le applicazioni necessitano dell’autosufficienza nel comparto dei circuiti integrati, o anche solo di un primato nella loro produzione. La capacità industriale del paese resterà un asso formidabile per incrementare la produzione quando necessario, in ambiti come l’industria automobilistica e i nuovi materiali per semiconduttori. In segmenti ad alta crescita come i circuiti per l’intelligenza artificiale e i supercomputer la Cina non è così indietro rispetto ai leader globali e potrebbe raggiungerli. Per numerose applicazioni, inoltre, le sue attuali capacità basteranno. Ma la corsa riguarda anche l’innovazione futura legata alle ultime generazioni di circuiti, quelle con nodi di sette, cinque, tre e due nanometri. Qui la Cina sconta i colli di bottiglia nelle forniture estere, pertanto la leadership sarà dura da conseguire. Inoltre, mentre oggi l’industria bellica non necessita delle tecniche produttive più avanzate nel campo dei semiconduttori, la digitalizzazione dei sistemi d’arma implica che la ricerca e sviluppo in ambito militare beneficerà dell’accesso alle nuove generazioni di circuiti, come illustra il caso dello stabilimento di tsmc in Arizona.
Il futuro della microelettronica cinese dipende da decisioni che saranno prese negli Stati Uniti e dagli embarghi tecnologici selettivi adottati da altri paesi. Il dominio americano in tutte le fasi produttive del comparto non sparirà facilmente. Man mano che l’amministrazione Biden definisce le politiche e le sue nomine passano il vaglio del Congresso, Pechino spera in un approccio più conciliante. Ma uno scenario di ulteriori restrizioni statunitensi all’export di tecnologia sensibile non è da escludere. Il modo in cui la nuova amministrazione agirà al riguardo sarà cruciare per il futuro dell’industria cinese dei semiconduttori.
La “guerra” tecnologica tra Cina e Stati Uniti è un campanello d’allarme per l’Europa sulla necessità di posizionarsi strategicamente nella filiera dei circuiti integrati. In particolare, emergono qui tre rischi: la chiusura del mercato cinese all’industria europea dei semiconduttori, la possibilità che concorrenti statunitensi o di altri paesi traggano vantaggio dagli embarghi tecnologici decisi da aziende e autorità europee, l’eventualità che alle imprese europee sia interdetto l’accesso alle fonderie più avanzate ubicate a Taiwan, in Corea del Sud e (presto) in Arizona. In quest’ultimo caso il rischio non è tanto geopolitico ma industriale, ovvero di scarsità delle forniture, come accaduto di recente con le mascherine e poi con i vaccini. Tali scenari obbligano l’Europa a riflettere in modo strategico sulla filiera dei semiconduttori e a far leva sui propri punti di forza per tutelare interessi strategici minacciati da dinamiche geopolitiche scarsamente controllabili.
Il 2021 sarà un anno chiave per il futuro della microelettronica europea in un contesto che vede la geopolitica, le politiche industriali e gli embarghi tecnologici ridefinire dipendenze e interdipendenze nell’industria dei semiconduttori. C’è consapevolezza di questo nella Commissione europea e in diversi Stati membri. Il 7 dicembre scorso diciotto ministri europei delle telecomunicazioni hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta per dare impulso alla tecnologia europea dei circuiti integrati e dei processori[25]. La dichiarazione impegna gli Stati membri, sostenuti dalla Commissione, a lavorare insieme per sviluppare una capacità europea di “progettare e, in prospettiva, fabbricare la prossima generazione di processori affidabili a basso consumo energetico, per applicazioni nella connettività ultrarapida, nei veicoli automatizzati, nell’aerospazio e nella difesa, nella sanità e nell’industria agricola, nell’intelligenza artificiale, nei centri dati, nella fotonica integrata, nei supercomputer e nei computer quantistici”. All’atto pratico il documento chiede di destinare il 20% del Recovery Fund alla transizione digitale europea, al sostegno dell’industria microelettronica continentale e, in particolare, alla ricerca, progettazione e fabbricazione dei processori. Si tratta di circa 145 miliardi nell’arco dei prossimi due o tre anni. Inoltre, si raccomanda di redigere una proposta per un secondo Important Project of Common European Interest, lo strumento comunitario che veicola i fondi ue in progetti industriali nel campo delle nuove tecnologie (gli unici attualmente finanziati sono le batterie e la produzione di idrogeno).
Via via che la consapevolezza delle vulnerabilità europee si fa strada nei circoli politici continentali, le principali questioni che si pongono riguardano le scelte strategiche, l’efficienza dei processi e l’uso ottimale delle risorse disponibili.
Al riguardo, l’Europa dovrebbe anzitutto concentrare il sostegno sulle sue tecnologie di punta (litografia ultravioletta estrema, software per la progettazione e produzione dei circuiti integrati) e sulle loro applicazioni più riuscite (progettazione di circuiti per l’industria dell’auto, microcontrollori, tecnologie a basso consumo energetico). Per l’industria europea dei semiconduttori, le ambizioni cinesi nel settore sono al contempo un’opportunità di crescita e una sfida, in tutte le fasi della filiera. Per sopportare il rischio geopolitico l’Europa dovrebbe puntare, in futuro, a ospitare tutta la filiera industriale. Nell’immediato, però, dovrebbe far leva sulle sue eccellenze per perpetuare e accrescere la dipendenza di altri soggetti dai prodotti europei. È un approccio realistico e più economico rispetto alla completa autosufficienza, che oggi nel caso europeo è fuori discussione. L’Europa deve insomma puntare sulle proprie specializzazioni per prosperare in una filiera integrata che vede crescenti restrizioni al trasferimento tecnologico.
In secondo luogo, l’Europa deve privilegiare ricerca e sviluppo. La base delle eccellenze europee sta nella capacità di ricerca e sviluppo di aziende private e centri di ricerca come il Fraunhofer in Germania, l’imec in Belgio e il Leti in Francia. L’imec ha giocato un ruolo chiave nello sviluppo della litografia ultravioletta estrema, il Leti è dà notevole sostegno all’ecosistema dei semiconduttori di Grenoble, Fraunhofer ha il suo punto di forza nelle applicazioni per il settore automobilistico. È su queste realtà che l’Europa deve indirizzare gli sforzi di ricerca e sviluppo per assicurare la sostenibilità della sua industria microelettronica.
Terzo, nel 2021 l’ue dovrebbe tenere una conferenza con tutti i soggetti coinvolti nella filiera, dalle aziende ai governi, per vagliare la costruzione di una fonderia avanzata entro i propri confini. In un discorso agli Hannover Messe Digital Days, il commissario al Mercato interno Thierry Breton ha fissato l’ambizioso obiettivo di produrre i processori più avanzati (2-3 nanometri) in Europa e raggiungere così il 20% del valore mondiale del settore[26]. A tal fine verrebbe creata un’alleanza europea sulla microelettronica che aggreghi investimenti privati per 20-30 miliardi di euro a sostegno sia della ricerca e sviluppo, che della fase produttiva.
Costruire una fonderia avanzata in Europa sarebbe in linea con la retorica dell’autonomia strategica, ma il principale mercato di un simile impianto non sarebbe l’Europa, in quanto le aziende di applicazioni puramente digitali che necessitano di processori sotto i 7 nanometri stanno principalmente negli Stati Uniti e in Estremo Oriente. Inoltre, per molti attori del comparto l’Europa avrebbe maggiori chance di ottenere la sua fonderia avanzata lavorando insieme a tsmc e a Samsung, piuttosto che puntando ad ammodernare gli impianti esistenti. Ciò perché i giganti asiatici dominano già le tecnologie di punta e gli articolati processi industriali, dunque attrarli diventa questione di giusti incentivi, ma anche di concorrenza con gli Stati Uniti e forse con il Giappone, che sta contemplando di ospitare un altro stabilimento di tsmc. Ciò solleva problemi di risorse umane e standard ambientali, dato che questo tipo di stabilimenti consuma enormi quantità di acqua ed elettricità, oltre a inquinare.
Quarto, l’Europa deve rafforzare i controlli sul trasferimento di tecnologie a usi duali (civili e militari) verso la Cina. L’uso dei circuiti integrati a fini militari è una questione seria nell’ottica della pace in Asia orientale. La digitalizzazione dei sistemi d’arma è un processo in pieno svolgimento e in molti casi sarà sempre più difficile distinguere tra microelettronica a usi civili e militari, perché molti prodotti si prestano a entrambe le applicazioni. I politici non devono farsi irretire dai discorsi secondo cui gli embarghi tecnologici selettivi compromettono le prospettive di crescita della microelettronica europea in Cina, perché l’importanza del settore automobilistico nel commercio sino-europeo appare stabile e garantita.
Da ultimo, gli europei devono dare immediata priorità alla convergenza transatlantica sui trasferimenti tecnologici nell’industria dei semiconduttori. I prossimi mesi saranno infatti cruciali per il futuro della politica transatlantica rispetto alla Cina. L’informatica europea diffida delle intenzioni statunitensi: molti considerano le restrizioni al trasferimento tecnologico come motivate da scopi puramente commerciali più che dalla competizione strategica con Pechino (specie in ambito militare). L’alleanza transatlantica necessita di ragioni e fini comuni per gestire le ulteriori restrizioni che, verosimilmente, saranno imposte dall’amministrazione Biden. Altrimenti il rapporto Europa-Stati Uniti ne verrà continuamente minato.
La questione immediata riguarda Huawei, prossimo banco di prova per le relazioni transatlantiche. Occorre chiarezza sui criteri di concessione o rigetto delle licenze, perché se gli europei dovessero percepire che queste sono accordate o negate solo per favorire aziende statunitensi, a uscirne compromesse sarebbero le basi della cooperazione tecnologica euro-americana. Tale cooperazione non rimuove gli elementi di competizione tra le aziende europee e statunitensi, ma dovrebbe fugare la sensazione diffusa tra le prime che gli embarghi settoriali alla Cina mirino a indebolirle rispetto alle seconde. È un sospetto radicato nei molti precedenti di aziende americane che hanno rimpiazzato i concorrenti europei dopo che a questi era stato negato di operare negli Stati Uniti. Avere un referente specifico sulla Cina allo us Bureau of Industry and Security tornerebbe per questo assai utile alle aziende europee.
Ma la cooperazione transatlantica sui semiconduttori va oltre le autorizzazioni e le pratiche extraterritoriali di Washington. L’alleanza transatlantica è una solida base per affrontare la questione del trasferimento tecnologico a paesi terzi, dove un’agenda positiva è possibile. Se non altro, l’Europa ha un incentivo concreto a lavorare nel quadro dell’alleanza con gli Stati Uniti: questi ultimi controllano più colli di bottiglia tecnologici del vecchio continente, specie nella progettazione e nei software per l’industria microelettronica, le cui applicazioni puramente digitali sono oggi dominate da imprese statunitensi e dell’Estremo Oriente. Alla graduale convergenza sui tre pilastri delle restrizioni al trasferimento tecnologico (controllo dell’export, monitoraggio di investimenti e centri di formazione, cooperazione nella ricerca) dovrebbero associarsi, quando possibile, collaborazioni industriali nel campo dei semiconduttori.
Note:
[1] “China’s chip imports expected to exceed $300 billion this year”, CNTechpost, 26 agosto 2020.
[2] “China to fall far short of its ‘Made-in-China 2025’ goal for ic devices”, ic Insights, 21 maggio 2020.
[3] “Comunicato del quinto plenum del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese” (in cinese), Xinhua, 29 ottobre 2020.
[4] Xi Jinping, “Secure a decisive victory in building a moderately prosperous society in all respects and strive for the great success of Socialism with Chinese characteristics for a new era”, discorso pronunciato al Congresso nazionale del Partito comunista cinese, 18 novembre 2017.
[5] “Core technology depends on one’s own efforts: President Xi”, Quotidiano del Popolo, 19 aprile 2018.
[6] Per approfondire: Jan-Peter Kleinhans, Nurzat Basakova, “The global semiconductor value chain, a technology primer for policymakers”, Stiftung Neue Verantwortung, ottobre 2020.
[7] Semiconductor Industry Association, “2020 state of the us semiconductor industry”, giugno 2020.
[8] Carrick Flynn, “The chip-making machine at the center of China’s dual-use concerns today”, Tech Stream, 30 giugno 2020.
[9] OCSE, “Measuring distortions in international markets: the semiconductor value chain”, oecd Trade Policy Paper n. 234, dicembre 2019.
[10] “Electronics industry study report: semiconductors and defense electronics”, National Defense University, 2003; “Semiconductors – the next wave opportunities and winning strategies for semiconductor companies”, Deloitte, aprile 2019.
[11] “Phoenix okays development deal with tsmc for $12 billion chip factory”, Reuters, 18 novembre 2020.
[12] “Introduction of Taiwan semiconductor industry current status”, Industrial Technology Research Institute of Taiwan, 18 settembre 2020.
[13] Sui Jigang, “L’autosufficienza scientifica e tecnologica come pilastro principale della nostra strategica di sviluppo nazionale: come ottenerla?” (in cinese), Liaowang, n. 44, novembre 2020.
[14] John VerWey, “Chinese semiconductor industrial policy: past and present”, Journal of International Commerce and Economics, us International Trade Commission, luglio 2019.
[15] Ibidem.
[16] Consiglio di Stato, “The national medium-and long-term program for science and technology development (2006-2020)”, Unione internazionale delle telecomunicazioni.
[17] Dieter Ernst, “From catching up to forging ahead, China’s policies for semiconductors”, East-West Center Special Study, 8 settembre 2015.
[18] Ad esempio: “EU business group slams Beijing’s ‘Made in China’ plan”, Reuters, 7 marzo 2017.
[19] Consiglio di Stato, “Annuncio del Consiglio di Stato sulla pubblicazione del piano Made in China 2025” (in cinese), 8 maggio 2015.
[20] “China’s latest five-year plan girds for battle”, Reuters, 2 novembre 2020.
[21] “Proposta del Comitato centrale del Partito comunista cinese sulla redazione del 14° Piano quinquennale per lo sviluppo economico e sociale nazionale e gli obiettivi di lungo termine per il 2030” (in cinese), Xinhua, 3 novembre 2020.
[22] “Smic shares soar in Shanghai, in a successful debut that may give more Chinese stocks confidence to leave us market”, South China Morning Post, 16 luglio 2020.
[23] Beijing to inexperienced companies: stay out of chipmaking”, Caixin, 21 ottobre 2020.
[24] “Analisi finanziaria della prima fase di finanziamento dell’industria nazionale dei circuiti integrati” (in cinese), Xinlang Caijing, 13 marzo 2019.
[25] Commissione europea, “Member States join forces for a European initiative on processors and semiconductor technologies”, comunicato stampa del 7 dicembre 2020.
[26] Commissione europea, “Speech by Commissioner Thierry Breton at Hannover Messe Digital Days”, 15 luglio 2020.