Il presidente Obama, il Congresso, e l’opinione pubblica come terzo attore

Il rapporto tra l’elettorato democratico e il presidente Barack Obama in questo suo secondo mandato è caratterizzato dal continuo alternarsi di alti e bassi, di gioie e sconfitte. Negli ultimi giorni, ad esempio, la soddisfazione per la decisione della Corte suprema sui matrimoni omosessuali è stata oscurata dalle più recenti rivelazioni sul caso Datagate (relativo a un presunto sistema di intercettazioni a tappeto). E anche la riforma della legge sull’immigrazione, appena approvata dal Senato, verrà quasi sicuramente bloccata dalla maggioranza repubblicana alla Camera.

Sembra molto lontano il primo biennio di amministrazione Obama, quando il neo-eletto presidente poteva contare su una maggioranza democratica in entrambi i rami del parlamento. Forte dell’entusiasmo suscitato dalla sua storica elezione, il centoundicesimo Congresso collaborò infatti attivamente con Obama, approvando una lunga serie di provvedimenti di primaria importanza. Tra i più rilevanti vanno ricordati: la riforma del sistema di prestiti agli studenti, l’introduzione di nuove regole sulle carte di credito, l’obbligo di parità di salari tra uomini e donne, la riforma sanitaria, il salvataggio dell’industria automobilistica, il pacchetto di provvedimenti di stimolo all’economia da oltre 800 miliardi di dollari e la riforma del sistema finanziario simboleggiata dal bipartisan Dodd-Frank Act del luglio 2010. Se paragonati con le difficoltà di questi mesi, il 2009 e il 2010 appaiono quindi come una sorta di età dell’oro obamiana. Vennero approvate in quei due anni ben 383 leggi: un numero sì inferiore alle 460 del biennio precedente e alle 482 del centonovesimo Congresso, ma sicuramente molto rilevanti per novità e ampiezza di contenuti.

Con le elezioni di medio termine del 2010, però, il quadro politico è cambiato completamente: riconquistata la maggioranza alla Camera e forti dell’ingresso di numerosi deputati ultraconservatori, i Repubblicani hanno subito lanciato una dura opposizione parlamentare, nel preciso intento di indebolire il presidente in vista del suo tentativo di rielezione. Le statistiche sull’operato del centododicesimo Congresso parlano chiaro, segnalando l’approvazione di 283 leggi. Andando nello specifico, si nota inoltre come molte di queste non siano altro che semplici aggiustamenti tecnici e che gli unici provvedimenti di un certo livello siano stati la ratifica degli accordi commerciali con Colombia, Panama e Corea del Sud, e un’ampia produzione legislativa in materia fiscale. Quest’ultima, tra l’altro, è stata la causa delle maggiori frizioni tra Democratici e Repubblicani e ha portato più volte il paese sull’orlo della paralisi. È accaduto prima ad aprile 2011, con la controversia concernente l’approvazione del bilancio federale, poi in agosto dello stesso anno, con la battaglia sull’innalzamento del tetto del debito, e infine tra fine dicembre 2012 e inizio gennaio 2013, con l’accordo raggiunto in extremis sull’aumento delle tasse sul reddito e sul lavoro, accordo che ha scongiurato il temuto fiscal cliff.

Nel momento in cui, nelle elezioni del novembre scorso, i Democratici hanno mancato ancora una volta la vittoria alla Camera, Obama ha subito capito che il centotredicesimo Congresso, di nuovo in mano al Grand Old Party (GOP), avrebbe rappresentato una sfida simile a quella posta dal suo immediato predecessore, il centododicesimo, e che i ricordi dell’amichevole centoundicesimo Congresso del 2009-2010 si sarebbero fatti sempre più lontani. Sin dal primo momento del secondo mandato presidenziale, non c’è mai stato dubbio che la forte e radicalizzata maggioranza repubblicana alla Camera avrebbe impedito l’approvazione dei più importanti propositi democratici, tra i quali la già citata riforma dell’immigrazione e una più stringente legislazione sul controllo delle armi.

Per tentare di piegare i Repubblicani e dare comunque impulso al proprio secondo mandato nonostante la loro opposizione, Obama ha deciso allora di adottare una nuova strategia: mobilitare il più possibile l’opinione pubblica. È un tentativo di perdere meno tempo possibile nelle “paludi” congressuali e nei negoziati su aspetti specifici, per far leva invece su un uso strumentale dei sentimenti dell’opinione pubblica al fine di mettere pressione su coloro che al Congresso si oppongono ai provvedimenti voluti dalla Casa Bianca.

Durante il dibattito sul gun control, ad esempio, sono stati innumerevoli i riferimenti a quella maggioranza di americani “favorevoli a norme più rigide sul possesso e la vendita di armi”. Obama ha citato spesso i sondaggi, per mostrare che quei 65 milioni di americani che l’hanno votato nel 2008 e rieletto nel 2012 sono ancora al suo fianco e pronti a dare battaglia.

Se in quel caso i costanti richiami alla maggioranza di americani non sono serviti, nel dibattito sull’immigrazione è invece già evidente come il presidente sia riuscito in effetti a mobilitare con successo quegli elementi costitutivi della sua base elettorale quali sono donne, giovani, neri e ispanici.

A ulteriore riprova di questa strategia va ricordato come il veicolo organizzativo utilizzato per l’ultima campagna presidenziale – Organizing for America (OFA) – non sia mai stato sciolto. Anzi, esso è ancora in piena attività e continua a inviare email, a lanciare petizioni e a mobilitare la base elettorale. E dal gennaio scorso è Jim Messina in persona (capo dell’intero staff della campagna 2012) a guidare l’organizzazione.

Forte di oltre 13 milioni di contatti diretti, l’OFA si propone di sostenere l’agenda presidenziale di secondo mandato e si è già distinto per aver organizzato centinaia di eventi, per aver comprato spazi pubblicitari televisivi e online e per aver fatto pressione a livello locale sui singoli parlamentari, onde metterli di fronte alle proprie responsabilità davanti all’elettorato.

Seppur con il suo fare moderato, Obama sta quindi lentamente portando gli Stati Uniti in un clima politico da campagna permanente, una situazione rischiosa, che alla lunga potrebbe logorare il tradizionale rapporto tra Congresso e Presidenza, elevando gli umori dell’opinione pubblica a potenziale “terzo attore” del processo deliberativo.

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