Il Myanmar sull’orlo della guerra civile

Ad un anno esatto dal colpo di Stato militare in Myanmar, il Paese è sull’orlo di una guerra civile. La popolazione, nonostante la sanguinosa repressione dell’esercito, che fino ad ora, secondo l’organizzazione non governativa Assistance Association for Political Prisoners, ha causato la morte di oltre 1500 persone e l’arresto di più di 10mila, è prima scesa in strada pacificamente e poi ha iniziato una resistenza armata senza precedenti, che vede insieme gli eserciti etnici e il People’s Defence Force (PDF), braccio armato del National Unity Government (NUG), il governo ombra che si è costituito dopo il golpe.

Membri della People’s Defence Force

 

Quando all’alba del primo febbraio 2021 le forze armate guidate da Min Aung Hlaing prendevano il potere a poche ore dall’inaugurazione del nuovo Parlamento e arrestavano Aung San Suu Kyi e molti altri esponenti di spicco della League for Democracy (NLD), il partito vincitore delle elezioni del novembre 2020, di certo non si sarebbero mai aspettati una situazione del genere. Le proteste erano state messe in conto dai vertici del Tatmadaw – l’esercito del Myanmar che ha portato avanti il colpo di stato – ma molto probabilmente, forti delle precedenti rivolte soffocate nel sangue e non andate a buon fine, credevano di consolidare il loro controllo in poco tempo.

Questa volta, però, qualcosa è andato storto. A differenza delle insurrezioni del passato, in particolare quella del 1988 e del 2007, infatti, la ex Birmania arrivava da quasi un decennio di cambiamenti economici e, in parte, anche politici. E seppure i militari continuavano a mantenere il potere e a controllare il Paese, la popolazione, soprattutto quella delle grandi città, si stava abituando ad avere delle libertà che fino a qualche anno prima erano sconosciute. Come una maggiore connessione ad internet, più opportunità educative e lavorative e l’apertura al turismo. Il ritorno improvviso di un modello dittatoriale e l’annientamento dei diritti acquisiti, ha di fatto scatenato una protesta che sembra impossibile da fermare.

 

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Ma c’è di più. Gran parte della popolazione del Myanmar combatte su un fronte comune. Il golpe è anche riuscito ad unire la maggioranza etnica dei Bamar (quella dei militari) con le altre minoranze presenti sul territorio nazionale, che da oltre settant’anni combattono per uno Stato federale e sono state perseguitate sia dal Tatmadaw, sia dal governo a guida civile. Dopo il primo febbraio dello scorso anno, il NUG ha iniziato a sostenere l’abolizione della costituzione del Paese del 2008 (fatta dall’esercito) a vantaggio di una nuova basata proprio sul federalismo, promettendo alle maggiori etnie di scegliere il proprio destino politico e sociale una volta sconfitti gli uomini di Min Aung Hlaing.

Gli eserciti etnici, in particolare i Kachin, Karen e Karenni, hanno prima dato rifugio ai dissidenti politici della NDL, poi hanno allestito dei campi d’addestramento nella giungla per la popolazione in fuga dalla repressione dei militari ed infine hanno ampliato il conflitto, attaccando gli avamposti del Tatmadaw nei territori sotto il loro controllo. Molte delle persone addestrate dai ribelli, sono poi tornate nelle loro città e si sono organizzate in gruppi di difesa popolare sostenuti dal NUG, che sta compiendo azioni di guerriglia e attentati contro l’esercito e la polizia in molte zone del Paese. L’appoggio dei gruppi armati etnici ai dissidenti birmani, oltre che «umanitario», è stato anche (e soprattutto) strategico. La crisi in atto, aperta in numerosi fronti, infatti, ha indebolito i militari sul campo di battaglia, offrendo su un piatto d’argento un’occasione unica da non farsi sfuggire.

L’esercito del Myanmar negli ultimi mesi ha alzato il tiro. Nelle zone dove la resistenza armata è più dura, ha risposto con bombardamenti aerei e atrocità senza fine. La più violenta, almeno a quanto è emerso fino ad oggi, è quella avvenuta nello Stato Kayah (quello dei Karenni) alla vigilia di Natale, dove sono stati ritrovati i corpi di trentuno persone carbonizzate. Pochi giorni prima, nella regione di Sagaing, a venti chilometri a Sud-Ovest di Mandalay, la seconda città più grande del Paese, undici abitanti del villaggio sono stati bruciati vivi, compresi alcuni bambini. Diverse associazioni locali, che si battono per i diritti umani, denunciano torture, sparizioni, uccisioni e stupri in varie parti della ex Birmania. Modus operandi di certo non nuovo al Tatmadaw, che ha sempre puntato sul terrore per imporre il proprio controllo.

Il Myanmar nel Sud-Est asiatico

 

In questo anno, la risposta internazionale alla giunta militare è stata debole. Sebbene gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Regno Unito abbiano imposto una serie di sanzioni a figure di spicco del regime e di alcune società di proprietà del militari, queste hanno avuto un impatto molto limitato sulla capacità operativa delle forze armate, che hanno gran parte degli introiti grazie al mercato nero, soprattutto quello delle pietre preziose, del legname e della droga. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è limitato a fare dichiarazioni preoccupate, ma senza effetti reali.

L’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) solo nell’aprile 2021 ha cercato di  trovare una soluzione politica, stilando cinque punti sulle misure che il regime deve intraprendere per ridurre l’escalation della violenza. La Cina, che è quella che avrebbe potuto fare maggiori pressioni su Min Aung Hlaing, ha dei timori per le possibili implicazioni economiche e di sicurezza, che sono una minaccia per i suoi interessi, ma ad ora non ha fatto nulla di concreto.

 

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Intanto, quasi la metà della popolazione è al di sotto della soglia di povertà. E come se questo non bastasse, l’United Nations Development Programme (UNDP), il programma di sviluppo delle Nazioni Unite, ha previsto che molte persone perderanno il lavoro e che la povertà raddoppierà già nei primi mesi di quest’anno. I prezzi di molti prodotti alimentari essenziali sono aumentati, mentre il Kyat, la valuta nazionale, è crollata di valore, facendo crescere il costo delle importazioni. I servizi pubblici sono praticamente inesistenti in gran parte del Paese. Medici, infermieri ed insegnanti, sin dall’inizio delle proteste sono stati in prima linea contro il colpo di Stato e la maggioranza di loro continua a rifiutarsi di prestare servizio sotto i militari. Il risultato è un sistema sanitario e scolastico immobile, con una difficile possibilità di ripresa nel breve termine.

Il NUG ha il sostegno della popolazione e militarmente ha superato ogni aspettativa. Ma, non è un segreto, è alla ricerca di un aiuto internazionale concreto, che gli dia finanziamenti economici e armi. Mentre la giunta difende il colpo di Stato e insiste sul fatto che in questo momento il Myanmar ha bisogno di un esercito forte, in carica, per scoraggiare gli attacchi interni ed esterni e per garantire che il Paese non si «disintegri», una paura che viene presentata, in termini propagandistici, come la principale minaccia alla sovranità nazionale. Nel mezzo ci sono i gruppi etnici che combattono da decenni e che vedono in uno Stato federale l’unica soluzione per una pace duratura per tutta la popolazione della ex Birmania.

Un anno dopo il golpe, dunque, la situazione sembra destinata ad infuocarsi ancora di più. E questo potrebbe dare il via a nuovi scenari. Primo fra tutti quello di un supporto umanitario che metterebbe in competizione Cina e Stati Uniti per influenzare la direzione generale della «rivoluzione».

 

 

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