Il Medio Oriente instabile alla prova del Covid-19

La regione del Nord Africa e Medio Oriente è stata colta dal coronavirus in una condizione di estrema fragilità politica e sociale. La pandemia ha aperto un ampio dibattito sulle ricadute politiche, sociali ed economiche che impatteranno sulle eterogenee realtà locali – tra i paesi più colpiti dall’epidemia nella regione, secondo i dati di Worldometer, ci sono Iran, Turchia, Egitto, Algeria, Marocco e Arabia Saudita. L’evoluzione degli eventi potrebbe far sprofondare l’area MENA in una condizione da cui rialzarsi sarà molto difficile.

È possibile individuare una qualche linea comune nelle risposte adottate dai governi della regione, sebbene permangano sostanziali variazioni nelle misure e nelle reazioni dei cittadini di fronte alla crisi. Le misure adottate da ciascun governo sono più o meno le stesse: autoisolamento, divieto di assembramenti in luoghi pubblici e religiosi, adozione di legislazioni di emergenza che prevedono, tra le altre cose, l’adozione del coprifuoco notturno (in alcuni paesi soltanto per poche ore) per limitare la diffusione dell’epidemia, sospensione dei voli internazionali e chiusura dei confini marittimi, blocco di tutte le attività – in maniera estremamente discrezionale – non ritenute di primaria importanza.

Un fedele prega fuori da una moschea, chiusa per coronavirus

 

Se in Giordania, ad esempio, il governo ha effettuato fin da subito un lockdown completo comprendendo anche i negozi di generi alimentari, garantendo che i pasti arrivassero nelle case dei giordani solo attraverso il dispiegamento dell’esercito, in Libano, invece, il sistema settario che regge e definisce buona parte delle dinamiche interne ha di fatto anticipato le misure del governo, lasciando alle singole comunità la possibilità di definire chiusure e altri blocchi necessari a impedire la diffusione del Covid-19. Diverso il discorso per l’Egitto o la Tunisia, che hanno scelto una linea più gradualista che mirava a impedire possibili shock negativi nel turismo (un comparto che storicamente rappresenta rispettivamente il 10% e il 15% del PIL), prima di alzare bandiera bianca, imporre misure simili alla Giordania e iniettare nuova liquidità nei rispettivi e fragili sistemi sanitari nazionali. Di diverso tenore è la condizione dei paesi del Golfo, i quali possono fare affidamento su sistemi sanitari tra i più efficienti della regione, ma che vivono una situazione critica soprattutto per i riflessi economici della pandemia.

Se si usasse pertanto il fattore sanitario per giudicare l’efficacia dei diversi governi nel contrasto alla pandemia emergerebbe subito la palese differenza di approccio tra Nord Africa (a cui bisogna aggiungere anche la Giordania per una certa vicinanza nelle modalità di esercizio del potere) da un lato, e le monarchie del Golfo e Israele dall’altro. Mentre queste ultime hanno messo in campo apparati di controllo rigorosi, test di massa e misure impopolari (come ad esempio il divieto di preghiera nelle moschee e il blocco del tradizionale Hajj a La Mecca), avvalendosi anche di importanti supporti tecnologici per controllare gli spostamenti dei contagiati e dei possibili asintomatici (come le applicazioni sui cellulari nel caso israeliano), i paesi nordafricani, invece, hanno sfruttato la struttura centralizzata e autoritaria dei loro peculiari sistemi pretoriani per dispiegare un dispositivo di sicurezza quanto più capillare possibile, mirato soprattutto a controllare il territorio imponendo comportamenti individuali (fino al coprifuoco) molto rigidi.

La ratio di tali misure è presto chiarita: la diffusione del Covid-19 potrebbe portare al collasso delle strutture sanitarie, anche quelle delle realtà più evolute, soprattutto se si considerano due fattori: l’incessante crescita demografica (l’Egitto ha da due mesi superato i 100 milioni di abitanti) e il rischio di contagio (molto elevato) nelle comunità di lavoratori stranieri (soprattutto nell’area Golfo), molte delle quali non hanno accesso all’assistenza sanitaria e vivono in condizioni di vita non in linea con le attese del distanziamento sociale.

Ciononostante, è importante sottolineare l’evoluzione della pandemia, il suo impatto emotivo sulle popolazioni e la loro percezione di fronte alle misure adottate, nonché i suoi effetti su ciascun sistema. Tutte precondizioni utili a capire non solo il profondo discrimine esistente tra élite e governati, ma un termometro quanto mai attuale per comprendere meglio le diversità socio-politiche in ciascun paese: da ciò deriva anche come la pandemia stessa possa avere implicazioni di lungo termine che vadano ben oltre il solo fattore sanitario.

A tal proposito è innegabile che quasi tutti i regimi mediorientali abbiano sfruttato strumentalmente il fattore coronavirus per restringere ulteriormente gli spazi di dissenso. In questo senso, non è stato inusuale vedere l’adozione di formule simili riferibili essenzialmente ad una riduzione degli spazi relativi alle libertà di espressione e manifestazione, anche online con la chiusura di numerosi siti internet accusati di fare contro-informazione o propaganda anti-governativa. Di fatto, i governi hanno a loro volta adottato strategie di disinformazione e di propaganda attuate principalmente dai media di proprietà statale, con l’obiettivo di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica locale dalle difficoltà interne ai singoli paesi e legate sia all’inadeguatezza delle misure socio-economiche approntate per far fronte alla crisi, sia agli strumenti sanitari e medici donati a paesi partner (vedi i casi di Egitto, Tunisia e Algeria) che hanno lasciato in situazioni di profonda indigenza i territori nordafricani. Contestualmente è stato lanciato un giro di vite (cosa che è avvenuta senza grandi distinzione dall’Algeria all’Iran) contro gli oppositori politici, attivisti, giornalisti e società civile, accusati dai diversi governi mediorientali di alimentare false notizie atte a destabilizzare internamente i regimi. Emerge, quindi, un tentativo da parte delle autorità mediorientali di intensificare la censura e definire un controllo ferreo sull’opinione pubblica, sfruttando in tutto e per tutto le maglie larghe delle diverse legislazioni speciali per affrontare la pandemia. Così, misure piuttosto consuete per ribadire controllo ed efficacia nell’esercizio del potere da parte dei regimi diventano ora anche uno strumento funzionale per affrontare la minaccia di una nuova crisi economica con le sue ricadute sociali.

Secondo il Fondo monetario internazionale l’impatto del Covid-19 sull’intera regione e i bassi prezzi del petrolio faranno perdere il 12% del valore delle economie mediorientali nel 2020, rappresentando lo shock più grande dallo Yom Kippur e dalla crisi petrolifera, eventi che risalgono al 1973 (e di cui dunque le nuove generazioni non hanno memoria diretta). Una profonda crisi finanziaria legata anche ai diversi shock esterni (calo dei prezzi delle commodities e del petrolio) influirà inevitabilmente sulla stabilità economica del sistema macro-regionale.

Un esempio concreto di questo pericolo percepito sono le parole pronunciate, agli inizi di marzo, dal primo ministro algerino, Abdelaziz Djerad. Egli ha sollevato subito l’allarme affermando che l’Algeria sta affrontando una “crisi multidimensionale” senza precedenti, esacerbata dal crollo del prezzo del petrolio. Una crisi che potrebbe avere riflessi seri sull’intero sistema algerino indebolito dalla crisi politica che perdura da prima della destituzione di Bouteflika del 2019, portando quindi a un’implosione economica e politica, con effetti diretti e non ben chiari che vanno ben oltre i confini geografici dell’Algeria. Un discorso che potrebbe valere analogamente per l’Egitto e in misura decisamente maggiore per le monarchie del Golfo.

Infatti, una delle maggiori preoccupazioni per le autorità della Penisola arabica sono le implicazioni del virus per il turismo internazionale, i mega-eventi, gli investimenti esteri (soprattutto infrastrutturali) e il prezzo su scala globale degli idrocarburi. Gli Emirati Arabi Uniti, ad esempio, sono preoccupati per l’impatto che la crisi del coronavirus avrà sul paese anche all’indomani del rinvio all’aprile 2021 dell’Expo di Dubai. L’Arabia Saudita è preoccupata per il potenziale impatto del virus sulla sua immagine di leadership nella regione, che si lega anche all’attuale presidenza di turno del G20. Non meno problematico sarà l’impatto del Covid-19 in Oman e in Bahrain, che vedranno il proprio budget di spesa e di bilancio fortemente limitato a causa della dipendenza dal turismo internazionale. A ciò va aggiunta la cosiddetta maledizione del Golfo dal petrolio dovuta sia al calo del prezzo internazionale sia alla restrizione della domanda da parte della Cina, grande consumatore di oro nero del Golfo. Ciò è problematico per tutte le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc), che fanno affidamento sulle entrate energetiche per definire spesa sociale, investimenti e, più in generale, nella gestione di quei floridi bilanci nazionali che avevano fatto della redistribuzione delle rendite petrolifere un asset di stabilità per garantire consenso politico e sociale. Con ripercussioni importanti anche al di fuori dei confini nazionali: basti prendere i casi di Giordania ed Egitto, che dipendono fortemente dagli aiuti esteri del Golfo e potrebbero essere colpiti duramente in caso di diminuzione sostanziale dei flussi. Per affrontare questa crisi tutti gli stati produttori di petrolio hanno annunciato pacchetti di stimolo all’economia per superare la crisi, stanziando miliardi di dollari a sostegno delle imprese private nel tentativo di attenuare l’impatto economico e non minare la stabilità di quei sistemi “rentieristici”.

Pertanto, se è difficile prevedere quali saranno le conseguenze politiche, economiche e sociali della pandemia, non è impensabile che il connubio di queste differenti crisi possa avere dei riflessi su più contesti paralleli in Medio Oriente. In questo senso, se il Covid-19 potrebbe aumentare il rischio di proteste e manifestazioni popolari contro i regimi illiberali dell’area, al contempo la pandemia potrebbe contribuire ad aggravare le sfide socio-politico-economiche che hanno contribuito ad alimentare le proteste su larga scala. In sostanza, il contesto ideale per i governi mediorientali per aumentare le trasformazioni in senso securitario e autoritario dello stato.

Tuttavia se, come diceva il matematico statunitense John Allen Paulos, “L’incertezza è l’unica certezza che esiste” allora i governi mediorientali dovranno evitare che questa condizione di caos diventi un disastro per le loro comunità, aprendo le porte ad un remake di un film già visto poco meno di un decennio fa. Se la diffusione del nuovo coronavirus avrà un effetto devastante in Medio Oriente, i vecchi problemi ormai incancreniti (deficit di legittimità e governance dei regimi mediorientali) possono divenire nuovamente la benzina per incendiare una protesta sociale mai realmente sopita.

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