Il governo diviso di un paese diviso

Il futuro della Presidenza Biden dipende dai ballottaggi per due seggi al Senato, che si svolgeranno il 5 gennaio prossimo. Se il controllo del Senato americano restasse ai Repubblicani, come appare probabile, si avrebbe infatti un “governo diviso”: la Presidenza sarebbe bilanciata dal Senato, con una Camera ancora in mano ai Democratici ma che vede una crescita dei seggi Repubblicani.

La copertina del sito del New York Times dopo l’assegnazione della Pennsylvania

 

È l’esito di un largo uso del voto disgiunto, da parte di un elettorato popolare che ha in maggioranza scelto Biden – il presidente più votato nella storia americana, come risultato di un afflusso senza precedenti – ma che ha anche deciso, in una buona percentuale, di scegliere rappresentanti Repubblicani al Congresso. Donald Trump ha perso, anche se stenta a concederlo; il Grand Old Party si è difeso molto bene.

Il rischio del “governo diviso”, naturalmente, è quello di una Presidenza paralizzata. Era dal 1988, dalla presidenza di Bush padre, che un presidente americano non apriva il suo mandato con le mani così legate. La piattaforma elettorale del partito democratico non sarà in ogni caso attuata nelle proposte più “radicali”: aumento delle tasse alle imprese e sui grandi patrimoni; rilancio della riforma sanitaria; aumento dei salari minimi, nuove norme ambientali. Questo spiega perché la Borsa americana abbia festeggiato i risultati elettorali, nonostante le incertezze e i rischi collegati a una transizione segnata da ricorsi legali e che durerà dieci settimane, fino all’insediamento del 20 gennaio 2021.

Tuttavia, e in modo abbastanza paradossale, un “governo diviso” potrebbe anche aiutare Joe Biden, che è un democratico centrista e moderato, a collocarsi sulle sue reali preferenze. Affrontando in prima battuta quello che effettivamente vuole fare: riuscire a controllare l’emergenza Covid e ad approvare un pacchetto di stimolo fiscale per sostenere il rimbalzo già in atto dell’economia. Sarà probabilmente un pacchetto più modesto di quello discusso da mesi negli Stati Uniti. I Repubblicani, dopo le elezioni, torneranno ad essere più conservatori sul piano fiscale. Ma una manovra fiscale potrebbero forse considerarla se resisteranno alla tentazione di fare fallire il presidente democratico sempre e comunque.

Sarà decisivo, per Biden, il rapporto con il suo coetaneo Mitch McConnell, che guida la maggioranza repubblicana in Senato. Si conoscono da decenni – Biden è in Senato da più di 40 anni, ricordiamolo – e potrebbero forse arrivare a qualche compromesso su queste due priorità. Per il resto, fare accordi sarà molto duro: durante la presidenza di Barack Obama, McConnell ha bloccato quasi tutte le iniziative della Casa Bianca. E comincerà ad esercitare la sua influenza subito, partendo dalle nomine del Gabinetto di Biden: la possibilità che il nuovo Presidente democratico scelga uno o due esponenti Repubblicani per posizioni di governo, aumenta di molto in caso di governo “diviso”, con l’inevitabile delusione degli aspiranti democratici.

Mitch McConnel e Joe Biden in Senato

 

Può sembrare strano: ma si apre una fase di politica professionale, dopo anni di lotta trumpiana contro l’establishment di Washington. E Biden è certamente la persona più adatta per guidare la Casa Bianca in tempi difficili di coabitazione, come diremmo in Europa. Il rischio, naturalmente, è che la sua Presidenza non riesca a combinare granché. E il rischio aggiuntivo, per Biden, è che il partito democratico si spacchi, visto il peso interno dell’ala “radicale”.

Ma Biden è in partenza, vista l’età, un presidente da mandato singolo: guarderà alle sorti dell’America, per come le saprà interpretare, più che a quelle del partito democratico. Sapendo già che non succederà a se stesso: Kamala Harris, prima donna a diventare vice presidente degli Stati Uniti, sarà uno dei candidati del 2024. Fino ad allora, tenere insieme le anime del Partito democratico sarà la sua vera missione.

Se la politica interna sarà dominata dalle trattative col Senato e fortemente condizionata dal governo “diviso”, il peso relativo della politica estera tenderà ad aumentare. Precisiamo: Biden resterà comunque concentrato sul rilancio interno dell’America: l’epoca in cui gli Stati Uniti funzionavano da garante del mondo, nel bene e nel male, è davvero finita. E dovrà anzitutto preoccuparsi di sanare le divisioni profonde dell’America attuale. Ma se non riuscirà a fare granché sul piano domestico, il presidente cercherà di collegare l’eredità del suo mandato a qualche “soddisfazione” internazionale.

Cambieranno anzitutto i modi, lo stile, l’approccio. Il nuovo presidente è un internazionalista, per il suo record nella Commissione esteri del Senato, e crede nelle alleanze. Riporterà l’America nell’accordo di Parigi sul clima, verserà i fondi all’Organizzazione mondiale della sanità, farà grandi elogi della NATO e correggerà l’ostilità istintiva di Trump all’Unione europea. E Washington porrà comunque agli europei il problema di unirsi agli Stati Uniti per una politica di contenimento della Cina, vista in ogni caso come il principale rivale degli Stati Uniti. Il che anzitutto significa controllo delle tecnologie strategiche (la famosa querelle sul G5 resterà sul tavolo).

Biden chiederà agli europei di fare di più, non di meno: di più nella difesa, assumendosi impegni più consistenti nella NATO (anche il famoso 2% del PIL per le spese della difesa resterà sul tavolo) e di più verso la Cina, adottando una logica strategica e non solo commerciale.

I consiglieri di Biden in politica estera pensano che la futura presidenza potrebbe proporre una Lega delle democrazie, che vedrà insieme Usa, Europa e democrazie asiatiche (Giappone, Corea del Sud e forse India) per adattare le regole del sistema internazionale (a cominciare da una riforma del WTO) e contenere le potenze autoritarie. E’ probabile che una presidenza democratica sarebbe più netta, sul fronte dei diritti umani, anche verso Mosca. E che tornerà a sollevare il problema della dipendenza energetica europea dalla Russia. Mentre si porranno, nei rapporti Usa-Europa, i problemi collegati alla tassazione dei grandi giganti del digitale e all’eventuale carbon border tax: le relazioni commerciali fra le due sponde dell’Atlantico saranno comunque complicate, come già dimostrato dal fallimento del TTIP con Obama. Vedremo.

Ma un’apertura ci sarà, fra le due sponde dell’Atlantico. Se l’Europa vorrà sfruttarla, e per riuscire a trattare con un interlocutore molto più dialogante di quanto non sia stato Trump, dovrà anche assumersi responsabilità dirette molto più rilevanti. E avere una propria visione strategica chiara: dovrà insomma diventare nei fatti, e non solo a parole, un attore geopolitico.

 

 

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