Ricostruiamo la situazione. Per ragioni di politica interna, il Congresso americano non ha ancora approvato l’erogazione di un pacchetto aggiuntivo di 60 miliardi di dollari di aiuti a Kyiv. L’ala dura dei Repubblicani chiede in cambio misure molto più restrittive sulla gestione del confine con il Messico. Non è escluso che un compromesso verrà raggiunto alla ripresa dell’attività legislativa. Ma il sostegno americano comincia ad apparire precario.
Sul lato europeo, il Consiglio di metà dicembre non è riuscito a fare passare, per il veto di Viktor Orban, un finanziamento ulteriore di 50 miliardi di euro a Kyiv. Gli europei stanno pensando a un piano B da presentare al Consiglio del 1° febbraio: un fondo per l’Ucraina garantito dagli Stati nazionali e raccolto dall’UE direttamente sui mercati. Ciò consentirebbe prestiti all’Ucraina per circa 20 miliardi di euro.
In breve (e tristemente): proprio nella fase più critica di una guerra che dura da quasi due anni, con costi umani ed economici enormi per l’Ucraina, il vitale sostegno finanziario occidentale è diventato incerto e macchinoso, vittima di dinamiche interne su entrambe le sponde dell’Atlantico. Quanto agli aiuti militari, le imprese occidentali non riescono a fornire quanto promesso: per fare un esempio, gli europei hanno consegnato solo un terzo circa delle munizioni previste. Mentre la Russia, passata ad una economia di guerra e rifornita (proiettili di artiglieria e droni) da Corea del Nord e Iran, punta sul fattore tempo.
Putin ritiene, mentre guarda a una eventuale elezione di Trump, che la Russia reggerà più a lungo del sostegno occidentale a Kyiv. L’Ucraina è a corto di armi e di uomini, tanto che Zelensky ha dichiarato di volere arruolare altri 500.000 soldati. Mentre aumentano le difficoltà economiche. Il governo non guarda solo ai costi della ricostruzione futura (le stime si aggirano attorno ai 500 miliardi di euro). Pesano i bisogni pressanti di oggi: come pagare gli stipendi ed erogare servizi a una popolazione quanto mai provata dalle distruzioni del conflitto, che comincia a mostrare insofferenza per i tempi di una guerra lunga.
Fare pagare alla Russia potrebbe essere una soluzione? In teoria, Mosca verrebbe costretta ad anticipare una parte delle riparazioni di guerra. Se la motivazione “morale” appare solida (la Russia ha invaso uno Stato sovrano, annettendosi sulla carta quattro regioni ucraine), le implicazioni legali si prestano a controversie. E non sono ovvie le conseguenze.
Chi si oppone sostiene che una misura del genere favorirebbe la de-dollarizzazione. E’ un argomento solo in parte convincente, osserva Agathe Demarais in una nota per “Foreign Policy”: i dati della BCE e della US Federal Reserve indicano che la de-dollarizzazione è un mito, piuttosto che una tendenza reale. Più fondato un secondo argomento: il trasferimento delle riserve della Russia all’Ucraina richiederebbe la cooperazione di Euroclear, la società che ha in deposito i tre quarti delle riserve congelate della Russia. Ma se Euroclear cooperasse – osservano gli europei – le economie non G7 ne trarrebbero la conclusione che i depositi occidentali non sono più sicuri. E aumenterebbe il ricorso a depositi alternativi, come la China’s Securities Depository and Clearing. Conclusione: si accentuerebbe la frammentazione finanziaria, indebolendo ulteriormente l’impatto delle sanzioni. Dal punto di vista politico, una decisione del genere segnerebbe una rottura irrevocabile con Mosca, ipotesi che fa esitare i paesi europei del G7, inclini a non pregiudicare del tutto ipotesi di compromesso – per quanto improbabili appaiano oggi.
Per Kyiv, potere contare su 300 miliardi di euro sarebbe un passo avanti molto rilevante, si tratta del doppio del suo PIL attuale. E’ un punto decisivo da considerare. Al tempo stesso, esistono problemi legali (quanto è legittima una vera e propria confisca?) e dilemmi politici: l’uso delle riserve russe potrà finire per incentivare il declino in atto degli aiuti occidentali. Come si vede, esistono i pro, che sono potenti, ed esistono i contro. Pro e contro, in mezzo a una guerra europea, che un G7 a presidenza italiana dovrà attentamente vagliare.
*Una versione di questo articolo è apparsa su Repubblica del 31/12/2023