Il Mekong si forma sull’altopiano tibetano e corre per oltre 4.200 chilometri attraverso la Cina, il Myanmar, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam, per poi riversarsi nel Mar Cinese Meridionale. Un fiume imponente, accattivante e ricco di leggende affascinanti. Uno dei più grandi dell’Asia e il settimo più lungo al mondo. Corrado Ruggeri, nel libro Bambini d’Oriente, lo descrive come «dolce e feroce, affidato alle magie della natura». Quella stessa natura che oggi, però, è messa in pericolo dalle numerose dighe cinesi.
Il fiume dava vita a una delle zone più produttive dell’area. Il Mekong fino ai primi anni 2000 vantava la più grande pesca interna del mondo, che rappresentava circa il 25% del pescato globale in acqua dolce. E le oltre 500 specie conosciute di pesci, fino a qualche anno fa, riuscivano a sostenere una popolazione di 60 milioni di abitanti. Inoltre, gli agricoltori delle terre vicine al Mekong riuscivano a produrre abbastanza riso per sfamare quasi 300 milioni di persone ogni anno.
Oggi tutto è cambiato. Le 11 dighe mainstream e le altre 120 più piccole già realizzate o in fase di realizzazione dalla Cina producono improvvise fluttuazioni dei livelli dell’acqua, che a loro volta interferiscono con la migrazione dei pesci e con la deposizione delle uova. E la quantità dei nutrienti presenti nel fiume è diminuita drasticamente, mettendo così in serio pericolo il già fragile sistema fluviale. Quelli che vengono chiamati “fortificanti naturali”, infatti, sono fondamentali per la salute dell’acqua ed essenziali per mantenere in vita i pesci.
Come se le strutture già presenti non bastassero, Pechino, lanciando un programma di assistenza economica al Laos, alla Cambogia e alla Thailandia per la produzione di energia elettrica, ha finanziato la costruzione di altre decine di argini artificiali nei loro territori.
Ma le dighe idroelettriche, sebbene siano un’alternativa più pulita al carbone, stanno anche causando un vero e proprio disastro ambientale. I governi dei Paesi interessati però, puntando soprattutto alla crescita economica nonostante gli impatti negativi, sono determinati a proseguire i lavori di costruzione. «L’interesse dei politici regionali è totalmente assorbito dallo sviluppo delle infrastrutture», ha affermato Pou Sothirak, direttore dell’Istituto cambogiano per la cooperazione e la pace ed ex ministro dell’Energia, in una recente discussione sul fiume Mekong che si è tenuta all’Università Chulalongkorn di Bangkok. «Vogliono solo più energia e credono che la costruzione di dighe migliorerà la loro economia nazionale». Ma non è così.
«Ci sono molti bacini fluviali transfrontalieri che ospitano comunità povere e vulnerabili dipendenti dall’agricoltura che ora sono in grave pericolo», ha detto Tiziana Bonapace, funzionaria dell’Unescap, la Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia e il Pacifico alla presentazione del rapporto “The Disaster Riskscape Across the Asia-Pacific” avvenuta sempre a Bangkok qualche mese fa. Secondo questo documento, pubblicato a fine agosto, entro il 2030, 56 milioni di persone vivranno in condizione di estrema povertà nell’area. Per lo studio, il numero potrebbe anche più che raddoppiare, arrivando a 123 milioni di individui se non saranno previste e prevenute catastrofi naturali.
«Nulla è più come prima, non c’è più niente di naturale qui», mi ha detto Sukanayaa Intalak, 53 anni, nata e cresciuta nel piccolo villaggio di Baan Duea, nella provincia di Nong Khai, a Nord-Est della Thailandia, sulle rive del fiume. «È una scommessa ogni giorno, non sappiamo mai se ci sarà troppa acqua o se sarà troppo poca. Non sappiamo mai se le dighe cinesi saranno aperte oggi o domani, ora o più tardi. Quando il livello dell’acqua è troppo alto, come è quando è troppo basso, i nostri pesci muoiono. Se i pesci muoiono, noi non abbiamo nulla da mangiare e nulla da vendere. E così facendo, i nostri figli dovranno trovare un altro posto dove andare a vivere».
«La costruzione di dighe sul fiume Mekong rappresenta una grave minaccia per gli ecosistemi della regione», scrive Brahma Chellaney, professore di studi strategici presso il Center for Policy Research di Nuova Delhi. «A lungo termine – continua l’esperto – la distruzione ambientale garantisce che nessuno ne guadagnerà. L’unico modo per evitare un futuro così cupo per la regione e i suoi abitanti è porre fine alla costruzione di dighe nel bacino del Mekong, incentrandosi sulla protezione dei diritti di ciascun Paese e sul rispetto dei suoi obblighi, verso la sua gente, i suoi vicini e il pianeta tutto».
Ma oltre alle gravi conseguenze ambientali, esiste una componente strategica molto importante. La Cina, infatti, avendo ormai il potere di fermare completamente il flusso del Mekong, ha anche il potere di devastare intere zone agricole negli stati a valle delle dighe. Oppure, senza arrivare a tanto, Pechino potrebbe “solamente” sfruttare questa minaccia per avere maggior influenza nell’area, a cominciare dai piani di Pechino per l’espansione del network delle Nuove vie della Seta.
Infatti, le infrastrutture in costruzione hanno anche l’obbiettivo di consentire a navi di tonnellaggio più elevato di percorrere il fiume fino a Luang Prabang, l’antica capitale del Laos. Una nuova, grande via commerciale per il trasporto di merci sarebbe così aperta.
Il 1° agosto scorso, dopo la riunione “Mekong Initiative Ministerial”, che si è tenuta in Thailandia, il segretario di Stato americano Mike Pompeo, ha dichiarato: «Vediamo una proliferazione di nuove dighe a monte che permette di dominare i flussi a valle». Dopo queste parole, a settembre, il Congresso degli Stati Uniti ha discusso la possibilità di creare un “Countering Chinese Influence Fund” (un fondo specificamente dedicato a contrastare l’influenza cinese) del valore di circa 375 milioni di dollari. Tra questi fondi, 25 milioni sarebbero «resi disponibili per l’assistenza a Myanmar, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam, per un programma di contrasto della criminalità transnazionale sul fiume Mekong». Ma anche in questo caso, come si legge su Asia Times, «qualsiasi azione di sicurezza fluviale appoggiata dagli Stati Uniti potrebbe essere boicottata dalla Cina grazie al suo controllo sulle acque, così da creare una nuova crisi fluviale regionale».
Nel 2017, Eugene Chow, un esperto indipendente di relazioni e sicurezza internazionale, ha descritto le dighe sul Mekong come «armi nascoste in bella vista» che ora, «consentono alla Cina di tenere in ostaggio un quarto della popolazione mondiale senza sparare un solo colpo». Una situazione infuocata, che potrebbe presto esplodere. Intanto, mentre si apre la partita geopolitica, come spesso accade a rimetterci per primi sono il nostro ecosistema e la vita di intere comunità.