Negli Stati Uniti, i più importanti eventi parlamentari degli ultimi mesi confermano l’esasperata radicalizzazione del Congresso di Washington. Dal difficile negoziato di fine 2012 sul fiscal cliff, alla battaglia sulla nomina di Chuck Hagel a capo del Pentagono (confermato dal Senato con appena 58 voti a favore), fino al recente mancato accordo sul cosiddetto sequester, la collaborazione tra l’esecutivo democratico e i rappresentanti del Grand Old Party, in particolare alla Camera, sembra essere ai minimi storici.
L’ostruzionismo repubblicano non è però determinato soltanto da ragioni ideologiche ma è anche il frutto dell’imponente sforzo di gerrymandering effettuato negli ultimi tre anni a livello statale, nell’intento di mettere preventivamente al sicuro il maggior numero possibile di seggi congressuali.
All’inizio di ogni decennio i dati del censimento permettono infatti di aggiornare le mappe elettorali: a seconda delle variazioni nella popolazione residente, gli stati possono vedersi aumentare o diminuire il numero di deputati (fermo restando il totale federale di 435). Le assemblee statali, inoltre, sulla scorta degli stessi dati, possono modificare i confini dei distretti elettorali. Per Repubblicani e Democratici è quindi fondamentale controllare le legislature statali all’inizio di ogni decennio, poiché questo consente di ristrutturare i seggi a proprio favore.
Dopo lo straordinario successo elettorale del 2010, avvenuto non solo a livello nazionale, ma anche e soprattutto a livello locale, i Repubblicani avevano in mano un numero sufficiente di parlamenti statali a controllare 202 distretti congressuali, a fronte degli appena 47 dei Democratici. In altri 92 distretti il redistricting era affidato per legge a commissioni bipartisan o di cittadini, in 87 il controllo era perfettamente diviso tra i due partiti e i sette rimanenti non necessitavano di redistricting.
Il termine gerrymandering prende il nome da Elbridge Gerry, governatore del Massachusetts di inizio ‘800 che, volendo ridisegnare i confini dei distretti congressuali dello stato a proprio favore, lo fece in modo talmente bizzarro da farli assomigliare nella forma a delle salamandre (salamander, appunto).
Per spiegarne meglio le modalità di applicazione, pensiamo a uno stato che assegni quattro deputati e i cui quattro distretti siano tradizionalmente così ripartiti: due Repubblicani al 60% e due Democratici al 60%. In questo caso, un intervento di revisione dei loro confini che sia pro-GOP potrebbe trasformarli in un distretto democratico al 100% e tre distretti repubblicani al 67%. Uno scenario che permetterebbe l’elezione di tre deputati repubblicani anziché due, e in distretti che diventerebbero ancor meno competitivi.
Dal risultato elettorale del 2012 emergono numerose conferme del gerrymandering attuato a livello congressuale: i candidati democratici alla Camera hanno ottenuto, complessivamente, 500.000 voti in più dei loro colleghi repubblicani, i quali hanno però conquistato il 54% dei seggi. Il partito di Obama ha recuperato otto seggi rispetto ai risultati del 2010, ma il guadagno sarebbe potuto essere ben maggiore se gran parte dell’elettorato non fosse confinata in distretti dove questi ormai vincono con più del 70% dei consensi.
La Pennsylvania è un esempio lampante: Obama ha vinto a livello presidenziale con un margine del 5,4%, ma i Repubblicani hanno conquistato 13 deputati su 18. In Ohio, Obama ha superato Romney di quasi il 3%, eppure i Repubblicani hanno vinto in 12 distretti su 16. Lo stesso è accaduto in Virginia, dove a una vittoria democratica a livello presidenziale è corrisposta un’affermazione otto a tre dei Repubblicani nel numero di deputati conquistati.
In Kentucky, Romney si è imposto 61 a 39 nella percentuale di voti della corsa presidenziale. A livello congressuale, i Democratici hanno vinto agevolmente nel terzo distretto, quello di Louisville, dove si è imposto John Yarmuth, mentre in tutti gli altri cinque distretti il partito di Obama non ha mai raggiunto il 40% dei voti. Lo stesso è accaduto in Louisiana, dove i Repubblicani hanno prevalso nettamente in cinque dei sei distretti (nei quali Obama non è riuscito a raggiungere il 40% dei voti) grazie al fatto che gli elettori democratici sono tutti concentrati nel secondo distretto, l’unico da loro vinto. In Arizona, nei quattro distretti saldamente repubblicani Obama ha raggiunto al massimo il 38% dei voti, mentre nei cinque distretti democratici il presidente ha ricevuto in media il 56% dei consensi.
Nell’attuale Congresso, appena 15 deputati repubblicani sono stati eletti in distretti vinti da Obama alle ultime elezioni. Stanno dunque progressivamente scomparendo i parlamentari moderati, centristi, solitamente eletti in territori ostili e quindi naturalmente più inclini alla mediazione e al compromesso.
Ovviamente tutto questo non ha solamente conseguenze elettorali, ma anche ricadute dirette sul comportamento politico degli eletti. Poiché la tendenza del gerrymandering è quella di creare distretti sempre meno contendibili, i deputati hanno la necessità di rendere conto alla propria base elettorale più organizzata e ideologica che, nel caso repubblicano, è quella conservatrice. E tendono quindi a comportarsi in modo sempre più radicale, dovendo compiacere l’ala estrema del proprio partito, quella decisiva per la loro riconferma biennale.
Questa situazione vale ovviamente per entrambi i partiti (anche i Democratici hanno effettuato gerrymanderingladdove controllavano le assemblee legislative statali – come in Illinois e in California), ma è in ambito repubblicano che le conseguenze sono più rilevanti. Sia perché sono numericamente maggiori i Repubblicani provenienti da distretti non contendibili, sia perché la conseguenza politica a breve termine è l’opposizione totale ai piani di Obama.
Tornando al nostro esempio precedente, nel caso dei quattro distretti al 60% – quindi contendibili – i candidati probabilmente cercherebbero di proporsi come moderati, nel tentativo di attrarre parte dei voti degli indipendenti o dell’altro partito. Nel secondo scenario, invece, con distretti dove un partito facesse affidamento su una base di partenza del 67%, il problema del candidato favorito non sarebbe quello di attrarre voti rivali, ma quello di conformarsi alle aspettative della propria base elettorale. La vera contesa non sarebbe dunque quella dell’elezione generale, ma quella delle primarie, dove il rischio diventa di trovarsi contro candidati sempre più radicali e più abili nell’entrare in sintonia con gli attivisti del partito.
Bob Inglis (South Carolina) e Mike Castle (Delaware) sono esempi di deputati repubblicani moderati sconfitti nelle primarie del 2012, dopo anni al Congresso, da colleghi di partito più conservatori.
A ulteriore conferma di questa tendenza, va ricordato che dei 60 deputati uscenti affiliati al Tea Party, cioè la frangia più radicale del GOP, appena due – Cliff Stearns e Sandy Adams in Florida – sono stati sconfitti alle primarie. E dei 55 deputati che erano in corsa per la rielezione lo scorso novembre, appena quattro hanno fallito la riconferma.
Si è perciò in presenza di un circolo vizioso che incentiva le posizioni estreme e l’ostruzionismo: i congressmen repubblicani sono messi sotto costante pressione dalla base e dai potenti network conservatori – Fox news, le radio private e la stampa di destra – e le loro chances di rielezione sono spesso direttamente proporzionali al loro tasso di opposizione alle politiche obamiane. In questa spirale di tendenze radicali, la vittima principale è il compromesso e la deliberazione bipartisan.