Il bilancio del Pentagono e le sue ambiguità

L’amministrazione Trump, dopo le iniziali misure a favore di un aumento della spesa militare, sta facendo marcia indietro, contraddicendo in parte la propria Strategia di Sicurezza Nazionale. Le preoccupazioni per l’aumento della spesa e del deficit stanno rallentando i programmi di potenziamento delle forze armate, mentre dopo il voto di midterm il presidente deve trovare qualche accordo con i democratici che ora controllano la Camera.

Nel campo della politica di difesa, gli anni di Barack Obama sono stati caratterizzati principalmente dal sequester e dai relativi tagli imposti automaticamente al bilancio del Pentagono. L’attuale inquilino della Casa Bianca si era inizialmente proposto come paladino del potere militare americano e quindi come forte sostenitore della crescita della spesa militare. Non appena Donald Trump è salito al potere, le risorse allocate al Pentagono sono infatti cresciute – anche grazie alla migliorata situazione di bilancio pubblico – mentre la nuova amministrazione si è subito attivata per una serie di politiche se non aggressive certamente muscolose: l’espansione della flotta navale americana, le nuove strategie di difesa e di sicurezza nazionale, la nuova postura nucleare e, infine, la nuova strategia nel campo cyber. Dopo due anni di presidenza Trump, e doppiata la boa delle elezioni di midterm, si può trarre un bilancio di questi primi due anni, e anche guardare in prospettiva la traiettoria complessiva della politica di difesa americana.

Se ci concentriamo sulle questioni di bilancio, ciò che sembra attenderci è, però, una probabile convergenza verso le posizioni dell’amministrazione precedente: complice il passaggio della maggioranza della Camera ai democratici e le pressioni sul bilancio pubblico, anche l’attuale presidente sarà infatti verosimilmente obbligato a ridurre parte dei suoi impegni e delle sue promesse.

 

LA LOGICA DEGLI AUMENTI DI SPESA. Durante l’amministrazione Trump vi è stato un aumento consistente della spesa per la difesa. Il primo bilancio pubblico, varato nel 2017, rappresentò un vero e proprio colpo di scena, con tagli addirittura ai fondi allocati per le arti e la cultura, mentre la spesa militare veniva aumentata in misura sostanziale. I dati parlano chiaro: il bilancio del 2016 vedeva la spesa del Pentagono a 580 miliardi di dollari. La spesa per il 2018 è pari a 639 miliardi. Un aumento del 10%. Nel suo complesso, le linee guida della politica di difesa di Trump sembrano essere due: preparazione per il ritorno alla competizione tra Grandi Potenze e difesa dell’attuale gerarchia internazionale a guida americana. Ma cosa significa, in termini concreti?

Primo, ciò ha significato un aumento della spesa in readiness, ovvero tutto quell’insieme di attività che servono a rendere operative e immediatamente disponibili le proprie forze armate: addestramento, esercitazioni e manutenzione, incluse le spese per il personale. Bisogna, infatti, ricordare che sotto Obama questo capitolo venne progressivamente abbandonato e proprio a ciò si devono i molti incidenti, anche mortali, che hanno coinvolto le forze armate americane negli ultimi anni (i più noti riguardano la flotta americana nell’Asia-Pacifico, ma i problemi sono ben più ampi). Con Trump, e il generale James Mattis al Pentagono, si è cercato non solo di correggere la rotta ma anche di migliorare le condizioni di vita del personale militare. Ciò, è bene chiarire, ha anche una dimensione politica, in quanto i membri delle forze armate – da considerare un significativo blocco professionale ma anche di elettori – sono storicamente più vicini al partito repubblicano.

Secondo, Trump ha promosso l’espansione e il rafforzamento delle forze armate americane. Attualmente la us Navy dispone di 286 navi. Nei piani di Obama era necessario arrivare a 306, da raggiungersi con un lento ma progressivo aumento della spesa militare. Trump ha rilanciato, promettendo una flotta di 355 mezzi. La Marina americana è, fondamentalmente, la più grande fonte di pace al mondo, garantendo commerci marittimi e libertà di navigazione in ogni angolo del globo. Negli ultimi anni, causa anche l’espansionismo cinese e la crescita degli impegni nei vari teatri operativi, le sue capacità sono state portate quasi allo stremo. La risposta di Trump è stata dunque fondamentalmente coerente con gli impegni statunitensi[1]. Con la nuova Nuclear Posture Review di inizio 2018, l’amministrazione Trump ha poi confermato gli impegni in termini di modernizzazione, ma anche rafforzato la capacità di deterrenza a stelle e strisce, aggiungendo all’attuale arsenale un missile con testate a basso rendimento, e quindi – almeno nelle intenzioni – maggiormente in grado di segnalare la propria fermezza di fronte al rischio di escalation (in quanto in grado di eseguire un attacco nucleare limitato, e dunque con implicazioni tattiche e non strategiche). Parallelamente, e qui in linea con i suoi predecessori, l’attuale amministrazione ha investito in ricerca e sviluppo per sistemi d’arma di futura generazione[2].

Terzo, sotto la direzione di Mattis, gli Stati Uniti hanno rafforzato le proprie capacità di intervento sui teatri più importanti, in particolare il fianco est in Europa dove vi è il duplice obiettivo di rassicurare gli alleati (in particolare baltici, Polonia e Romania) e indicare a Mosca la propria fermezza di fronte alla inviolabilità della regione[3]. Allo stesso tempo, la spesa in intelligence è aumentata del 18% nell’ultimo anno, il più grande incremento dell’ultimo decennio. Ciò si deve alla crescita delle attività di monitoraggio non solo nei teatri di guerra o di tensione – Syria, Yemen, Iraq e Afghanistan – ma anche verso gli avversari degli Stati Uniti: Cina, Russia e Iran.

 

LA BASE INDUSTRIALE AMERICANA. L’amministrazione in carica ha dato una maggiore attenzione anche alla base industriale americana, tanto per ragioni strategiche che per questioni neppure tanto celate di politica interna: d’altronde Trump è stato eletto anche per dar voce alle aree degli Stati Uniti più colpite dalla de-industrializzazione e dalla disoccupazione, in particolare la famosa Rust Belt – quella zona industriale e fondamentalmente proletaria che connette il nordest al Midwest.

A questo proposito vanno fatte alcune considerazioni. Negli anni passati, il governo degli Stati Uniti ha cercato di sfruttare la complementarietà tra l’industria americana e quella dei suoi alleati così da acquisire capacità militari già sviluppate e affidabili e quindi evitare di doverle sviluppare in proprio (e assumersi rischi industriali ed economici fondamentalmente superflui). Si va dal mezzo di terra da combattimento tedesco Lynx 41 prodotto da Rheinmetall al cv90 prodotto da bae Systems per l’esercito svedese, fino a sottosistemi di monitoraggio o protezione di origine israeliana, italiana o singaporese. Seguendo la logica dei vantaggi comparati, ciò ha degli indubbi risvolti positivi tanto in termini economici che di efficacia militare (oltreché politici e diplomatici). Non a caso, voci autorevoli, anche in anni recenti, hanno fortemente caldeggiato questa opzione, per permettere così agli Stati Uniti di focalizzare i propri sforzi nel campo della ricerca e della tecnologia in aree più all’avanguardia[4].

La retorica del “Make America Great Again” e “Bring Back Manufacturing Jobs”, e della minaccia industriale cinese è però parzialmente in contraddizione con questo approccio e difatti in alcuni ambiti l’amministrazione statunitense ha seguito linee molto diverse. Già durante l’amministrazione Obama vi fu un’attenzione alla base industriale americana, minacciata principalmente dal sequester (il meccanismo automatico di bilancio che blocca le spese una volta che il debito pubblico ha raggiunto il limite stabilito dal Congresso)[5]. Trump ha proseguito sulla stessa strada, ma la sua preoccupazione era rivolta alle vulnerabilità nella filiera produttiva, dovute a dipendenze e infiltrazioni da paesi non alleati (leggi la Cina). Ciò ha portato alla recente pubblicazione di un rapporto del Pentagono sul tema[6]. La logica del documento, e le sue stesse raccomandazioni, suggerirebbero una fondamentale continuità tra le due amministrazioni. Molto, però, dipenderà anche dall’interazione tra considerazioni di natura domestica e sfide strategiche nei prossimi anni. Detto altrimenti, man mano che ci si avvicina alle elezioni del 2020, ci potrebbero essere delle importanti eccezioni. Ovviamente sarà importante guardare a come il governo degli Stati Uniti reagirà ai tentativi in atto di rafforzare e unificare la base industriale europea e, dunque, come giocherà di sponda con i paesi estranei o potenzialmente insoddisfatti da questo processo, in particolare Gran Bretagna (che dovrà bilanciare la necessità di rafforzare il legame transatlantico dopo Brexit con l’opportunità di rimanere influente nel Vecchio Continente), la Polonia (la cui lettura della situazione geopolitica la mette, talvolta, più in sintonia con Washington che con Bruxelles, ma che politicamente non può pensarsi fuori dal progetto Europeo) e infine l’Italia (industrialmente legata, tramite Leonardo, più a Londra e a Washington che non a Parigi e soprattutto Berlino, ma cosciente del fatto che gran parte della difesa futura passerà da Bruxelles)

 

IL DEFICIT, IL BUDGET E IL CONGRESSO IN PARTE DEMOCRATICO. Pochi giorni prima delle elezioni di metà mandato, è arrivato però un fulmine a ciel sereno. John Bolton, consigliere per la Sicurezza nazionale e (a quanto è dato sapere) persona molto vicina a Donald Trump, ha affermato che la più grave minaccia alla sicurezza americana si trova nelle debolezze del bilancio pubblico, e in particolare nel debito e nel deficit. Quasi contemporaneamente, Trump ha chiesto un taglio di 33 miliardi di dollari al bilancio del Pentagono, pari al 5% di ogni dipartimento. Da una parte, tutto ciò era prevedibile. Come in quasi tutte le democrazie avanzate, gli Stati Uniti hanno un problema politico relativo alla crescita delle spese sanitarie e assistenziali (in primis le pensioni): toccare questi capitoli di spesa è, in molti casi, un suicidio politico. L’amministrazione, per poter gestire la situazione finanziaria del paese, si è quindi trovata costretta a identificare dei tagli altrove, e precisamente dove è politicamente più accettabile anche se, almeno stando alla stessa Strategia di Sicurezza nazionale del dicembre 2017, strategicamente meno auspicabile. Dall’altra parte, infatti, a settembre ci saranno tagli automatici di spesa – per miliardi di dollari, in base al già ricordato meccanismo del sequester – se il presidente non troverà un accordo sul debito con il Congresso. E proprio qui le elezioni di metà mandato meritano attenzione. I democratici hanno riconquistato la maggioranza alla Camera. Così si trovano di fronte tre questioni politicamente sensibili, se non esistenziali.

Primo, trattare con Trump può essere politicamente letale, soprattutto in vista del voto presidenziale del 2020.

Secondo, i democratici si trovano a dover fronteggiare la sfida proveniente dalla loro estrema sinistra: le elezioni del 2016 hanno infatti rafforzato quella parte politica più radicale dell’America e capeggiata fondamentalmente dai Bernie Sanders e le Jill Stein. Per questi esponenti del partito, non solo trattare con Trump è un anatema, ma anche la Difesa rappresenta un capitolo dove, fondamentalmente, non si possono fare compromessi.

Infine, su alcuni temi – in primis la modernizzazione nucleare – i democratici si oppongono anche ideologicamente ai programmi dell’attuale presidente. La recente decisione di ritirarsi dal Trattato inf (Intermediate Nuclear Forces, del 1987) – che vietava a Stati Uniti e Unione Sovietica di stanziare a terra missili dal raggio superiore ai 500km – complica ulteriormente il dialogo. È quindi facile pensare che il nuovo Congresso cercherà di ostacolare i piani del presidente. Tra i più probabili obiettivi vi sarà verosimilmente lo sviluppo di missili da crociera aria-terra con testate a basso rendimento. Il successore del missile balistico intercontinentale Minuteman ii potrebbe invece essere (solo) posticipato. Con tagli quasi automatici, nell’ordine di miliardi di dollari, è quindi importante capire quali aree verranno risparmiate e quali verranno probabilmente toccata.

La scorsa estate, il presidente Trump si è detto favorevole alla creazione di una forza spaziale, una Space Force, da affiancare a Navy, Army, Air Force e Marine Corps. Se e quando questa forza verrà effettivamente creata è ancora tutto da vedere. C’è però un dato di fatto: lo spazio è sempre più importante e la competizione spaziale, soprattutto con la Cina, è sempre più agguerrita.

Gli Stati Uniti, almeno per bocca del viceministro della Difesa, Patrick Shanahan, e del sottosegretario alla Difesa per la ricerca e l’ingegneria, Michael Griffin, sono intenzionati a proteggere i programmi legati allo spazio da eventuali tagli. La us Air Force non è molto favorevole al progetto, perché vedrebbe ridursi i propri asset. Anche in quest’ottica vanno viste alcune dichiarazioni. Secondo il Pentagono la Space Force costerà 5 miliardi di dollari. Secondo l’Air Force, non costerà meno di 13 miliardi. Vi sono anche altre capacità, che, verosimilmente, verranno risparmiate da eventuali tagli. Tra queste: munizioni di precisione a lungo raggio; veicoli di terra di prossima generazione; tecnologie per decollo verticale; difesa aerea e missilistica, oltre ovviamente al campo del cyber, la cui strategia pubblicata solo pochi mesi fa dall’amministrazione rappresenta un importante novità rispetto al passato. Sotto Trump, la us Navy ha visto un aumento del proprio bilancio semplicemente senza precedenti recenti. Con la richiesta di tagli prima delle elezioni di midterm, è verosimile che la Marina debba rivedere i propri piani. Poiché alcuni programmi hanno valenza strategica, come quelli nucleari, oppure sono inseriti all’interno di contratti troppo esosi da interrompere, il cerchio si stringe necessariamente attorno a quelli contrattualmente e strategicamente più vulnerabili come la Littoral Combat Ship (una corvetta multifunzione dal passato problematico e dal futuro incerto) e le navi anfibie da trasporto. Un altro ambito nel quale potrebbero essere generati dei risparmi è quello delle portaerei a propulsione nucleare. Le portaerei usa pesano 100,000 tonnellate e costano circa $10 miliardi l’una. La costruzione di questi mostri del mare richiede diversi anni. Attualmente gli Stati Uniti operano undici portaeree e ne hanno due in costruzione. Semplicemente basterebbe ritardare il processo e ciò ridurrebbe il costo d’esercizio, anche se il costo totale unitario sarebbe probabilmente maggiore.

 

QUALI IMPLICAZIONI? Trump si era proposto come un presidente del cambiamento, per molti verso anche radicale. In parte, questo cambiamento vi è stato. Alcune politiche dell’amministrazione sono controverse e dividono gli esperti (soprattutto la nuova postura nucleare). Altre, invece, trovano un’accoglienza fondamentalmente positive tra gli osservatori (il rafforzamento del fianco est, la strategia cyber e gli investimenti in ricerca e tecnologia). Neppure Trump, però, può aggirare facilmente gli ostacoli rappresentati dalla politica interna americana e i checks and balances del sistema istituzionale. Questi ostacoli, insieme ai vincoli di bilancio e alle altre pressioni domestiche influenzeranno la politica di difesa nei restanti due anni del suo mandato presidenziale. Il rischio principale è che, tra le necessità immediate e gli investimenti future richiesti, a essere compromesse siano le capacità operative, ovvero la ricapitalizzazione degli investimenti necessari a permettere alle forze di far fronte ai propri impegni. Questa infatti è la conclusione a cui è giunto il rapporto di un comitato ad hoc di alto profilo istituito dal Congresso e pubblicato proprio all’indomani delle elezioni e che individua nel taglio della spesa militare americana una grave minaccia alla sicurezza del paese[7].

 

 

Note:

[1] Bryan Clark, Peter Haynes, Jesse Sloman and Timothy Walton, Restoring American seapower: a new fleet architecture for the United States Navy, Center for Strategic and Budgetary Assessment, 2017.

[2] Mackensie Eaglen, Defense Budget peaks in 2019, underfunding the National Defense Strategy, American Enterprise Institute, 2018.

[3] Anthony H. Cordesman, The us, nato, and the  defense of Europe: shaping the right ministerial force goals, Center for Strategic and International Studies, 2018.

[4] Ben FitzGerald, Alexandra Sander and Jacqueline Parziale, Future foundry: a new strategic approach to military-technical advantage, Center for New American Security, 2016.

[5] Office of the undersecretary of Defense for acquisition, “Technology and Logistics, Annual Industrial Capabilities”, Report to Congress for 2013, us Department of Defense.

[6] Office of the undersecretary of Defense for acquisition and sustainment, “Assessing and strengthening the manufacturing and defense industrial base and supply chain resiliency of the United States”, Report to President Trump by the Interagency Task Force in Fulfillment of Executive Order 13806, us Department of Defense, September 2018.

[7] Eric Edelman, Gary Roughead, Christine Fox, Kathleen Hicks, Jack Keane, Andrew Krepinevich, Jon Kyl, Thomas Mahnken Michael McCord Michael Morell Anne Patterson and Roger Zakheim, Providing for the common defense: assessment and recommendations of the National Defense Strategy Commission, United States Institute for Peace, 2018.

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