I rischi per i Democratici nelle candidature “last minute” di Bloomberg e Patrick

Moderazione, ed “electability” (eleggibilità, possibilità di vincere). Sono queste le due parole d’ordine che l’establishment democratico ripete a se stesso in vista del novembre 2020. Per essere certi di sconfiggere Donald Trump – si dicono i sondaggisti di area Dem e una parte importante degli analisti preoccupati dall’idea di un secondo mandato per il presidente repubblicano – serve un candidato che raccolga consensi al centro. Per certo sono queste le considerazioni che hanno spinto l’ex sindaco di New York e magnate dell’informazione economica Michael Bloomberg, e anche l’ex governatore del Massachusetts, Deval Patrick, a pensare di concorrere alle primarie democratiche.

Deval Patrick

 

Nulla è deciso ancora: Bloomberg ha fatto il passo di depositare le carte necessarie e Patrick lo ha fatto per poi diffondere un video messaggio e visitare il New Hampshire, secondo Stato dove si vota. Prima di impegnarsi davvero, i due cercheranno di capire quanto pesa il loro eventuale ingresso in una corsa affollata nella quale non mancano figure moderate. E se Patrick ha già fatto i primi passi, telefonata a Barack Obama compresa, Bloomberg si muove con più circospezione. La ragione di questa differenza nel passo sta nelle possibili strategie elettorali.

Dell’ex governatore del Massachusetts conosciamo il video messaggio. Tra le cose che dice c’è: “La campagna [per la nomination] è intrappolata tra la nostalgia, il desiderio di tornare a ciò che era prima del presidente Trump, e <<le nostre idee riformatrici o niente>>”. Difficile essere più espliciti di così: la nostalgia è Biden, i riformisti intransigenti sono Warren e Sanders. In mezzo c’è un messaggio rassicurante che promette di produrre risultati tangibili per gli americani – il verbo è “deliver”, che è la promessa ricorrente di qualsiasi politico americano.

La ratio che ha spinto entrambi a valutare di candidarsi ha un nome e cognome: Joe Biden. L’ex vicepresidente è ancora in testa nelle rilevazioni nazionali e a quelle relative a diversi Stati testati dai sondaggisti. E batte Trump in ogni sondaggio importante, come del resto anche diversi altri candidati democratici. Ma i temi e la condotta della sua campagna continuano a non convincere. C’è una debolezza di fondo nel messaggio “sono l’unico in grado di tornare alla normalità, alla bipartisanship, all’America che abbiamo conosciuto”. Quella debolezza è in parte la stessa che ha colpito Hillary Clinton nel 2016, la cui inattesa sconfitta contro Trump aleggia sulle teste degli strateghi democratici.

Joe Biden, il candidato del “back to normal”.

 

La seconda debolezza della campagna Biden è la sua relativa disorganizzazione e scarsa capacità di mobilitare: meno donazioni che non Elizabeth Warren e Bernie Sanders, meno soldi in cassa, meno volontari nei primi Stati dove si terranno le primarie. Il terzo nervo scoperto riguarda il processo di impeachment in corso. Certo, Biden se ne è anche avvantaggiato, facendo capire che l’ossessione di Trump nei suoi confronti è la dimostrazione che è lui l’avversario che il presidente teme di più. Al contempo, tutta la vicenda ucraina getta una cattiva luce sul modo in cui si conduce la politica a Washington. È la vecchia normalità, una normalità che non piace più.

Era la “normalità” e contiguità al potere che anche Hillary Clinton trasmetteva (salvo essere donna) e che ha allontanato elettori democratici e fatto perdere Ohio, Michigan, Wisconsin, Pennsylvania per poche migliaia di voti. Un sondaggio New York Times sugli Stati della Rust Belt persi dai democratici ha certamente terrorizzato tutti: qui Biden è in leggero vantaggio su Trump, mentre Sanders e Warren perdono in molti degli Stati testati. È presto: la campagna elettorale non è iniziata, non c’è un candidato divenuto noto a tutti, contro il presidente, ma un parco candidati. Certo, per un presidente mai stato popolare tra la maggioranza degli elettori, è un bel segnale individuare una possibile strategia verso la rielezione. Nella Rust Belt, come altrove, molto dipenderà dalla capacità dei candidati di convincere: portare gente a votare è la chiave, specie per gli Stati dove l’elettorato è tradizionalmente diviso e poche migliaia di consensi fanno la differenza. Per portare gente a votare serve una macchina ben organizzata e un candidato che entusiasmi (e non spaventi). A oggi, Biden non ha queste caratteristiche.

E qui veniamo alla più grande debolezza strategica di Biden: dal midterm del 2008 in poi, Obama 2012 escluso, le elezioni le hanno vinte partiti e candidati presentatisi in qualche forma come anti-establishment (Obama, Tea Party, Trump, poi le donne democratiche, tra cui alcune socialiste). Vendere Biden come l’usato sicuro non sembra essere una mossa vincente. Come non è detto che la moderazione e l’esperienza (Joe Biden è stato vicepresidente per tutti gli otto anni dell’amministrazione Obama, e senatore per 22 anni) siano un asso nella manica: gli ultimi due candidati repubblicani sconfitti da Obama (John McCain e Mitt Romney) erano anche loro “squali” di lungo corso della politica americana, scelti dall’establishment del GOP intimorito da nomi meno “affidabili”. Donald Trump, che le elezioni le ha vinte nel 2016, è stato per tutta la campagna osteggiato dall’establishment repubblicano.

Il miliardario Donald Trump, certamente non il simbolo della “normalità”

 

Non sembra che Bloomberg e Patrick abbiano troppe chances di cambiare la dinamica delle primarie Dem, considerando che gli elettori di quel partito sembrano soddisfatti per il parco dei partenti. Dal New York Times sappiamo che Bloomberg è tornato sull’idea di candidarsi, già accarezzata da anni, dopo aver commissionato molti sondaggi. La sua strategia non sarebbe quella di costruire una base e una campagna locali, ma una campagna nazionale, pagata con i suoi soldi e mirata a vincere molti Stati nel Super Tuesday, il 3 marzo, giorno in cui si vota nel maggior numero di Stati, invece che non cercare di farsi strada nei primi Stati a votare (Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina). Facile a dirsi, ma non scontato: se dai primi quattro voti emergesse una candidatura forte, molti voti convergerebbero su questa. Non solo: il 3 marzo si vota anche in California, Vermont e Massachusetts e qui Warren e Sanders dovrebbero avere un vantaggio. Difficile insomma prendersi tutto. Per Deval Patrick la strada è invece quella di correre come un candidato “normale”: se vuole vincere deve fare bene anche nei primi quattro Stati.

Ma cosa porterebbero di nuovo questi due candidati? Bloomberg porta esperienza, posizioni liberal in materia etica e la forza del businessman vincente. Uno in grado di sfidare Trump sul terreno del successo personale. E poi è un candidato indipendente, non legato a dinamiche di potere nei partiti. Proprio come il presidente in carica quando ha deciso di correre. Ma i sondaggi che ha in mano dicono che questa narrativa lo porterebbe solo al terzo posto tra le preferenze degli elettori democratici. Senza un grande risultato nel Super Tuesday sarebbe difficile farcela.

Dal canto suo, anche Patrick non è una matricola. Laureato in legge a Harvard, ha lavorato sotto l’amministrazione Clinton occupandosi di diritti civili, per poi essere eletto alla guida del Massachussets. Ha capacità di lavorare in maniera bipartisan (da governatore ha implementato la riforma sanitaria di Mitt Romney, suo predecessore), e ha toni pacati. Avvocato, politico, businessman anche lui, ha un pedigree notevole e un’aria rassicurante. Ma se per Bloomberg la corsa sarebbe complicata, per lui appare davvero in salita: ci sono altri candidati moderati che hanno già un certo sostegno e campagne organizzate. Certo, una è donna, la senatrice Klobuchar, e l’altro è un giovane omosessuale, Pete Buttgieg. Peccato che Patrick sia nero e che, dunque, porti con sé uno di quegli stigmi di difficile eleggibilità che portano anche gli altri. Tra l’altro, gli elettori moderati non entusiasti di Biden sembrano già convergere proprio su Buttigieg: un sondaggio sull’Iowa lo colloca per la prima volta in testa, con ampio consenso in ogni gruppo ideologico e demografico. La giovane età lo rende un candidato papabile anche per elettori giovani non troppo schierati che aspirano a un cambiamento di stile.

Pete Buttigieg

 

Il punto più critico di queste candidature è però un altro, ed è in fondo quello che più rende Biden un candidato debole. Entrambi sono usato sicuro ed entrambi sono in qualche forma proprio quell’establishment che non piace più agli americani. Specie a una parte importante degli elettori giovani e democratici. Lo scarso entusiasmo per Clinton e le polemiche durissime dei sostenitori di Sanders contro di lei potrebbero ripetersi. Bloomberg è un super miliardario che ha contribuito a fare di New York la metropoli in cui nessuno che guadagni meno di 10mila dollari al mese è in grado di condurre un’esistenza normale. Bloomberg, insomma, è la ragione per cui Bill Di Blasio è divenuto sindaco nel 2014 e Alexandria Ocasio-Cortez ha vinto le primarie nel Bronx divenendo una figura politica nazionale. Naturalmente Ocasio non è il politico medio e il Bronx non è il distretto elettorale medio, ma immaginare che i milioni che la seguono – e che esprimono consenso nei sondaggi per Warren o Sanders, attualmente tra il 30 e il 43% degli elettori democratici – voterebbero entusiasti per Bloomberg è davvero difficile. Lo stesso si dica per Patrick, che dopo avere fatto il governatore è divenuto consigliere delegato alla Bain Capital, società di investimento specializzata in acquisizioni fondata tra gli altri da Mitt Romney.

Sarà bene ricordare che tra 2012 e 2016 la candidata del Green Party Jill Stein ha triplicato i suoi voti, e questo prima di un’ondata di visibilità per temi e posizioni che oggi sono forti nell’elettorato democratico. Specie tra i giovani. Ciò significa che se Bloomberg vincesse le primarie, aumenterebbero le possibilità di un candidato terzo a sinistra dei Democratici. Un’evoluzione del genere potrebbe costare le elezioni, perché potrebbe pescare nella delusione dei tantissimi sostenitori dei Dem più radicali, Warren e Sanders. Tra l’altro, sia Warren che Sanders avranno buon gioco a dire alla propria base: i miliardari si sono affrettati a correre perché hanno paura che tocchiamo i loro privilegi, tassando la loro immane ricchezza.

Michael Bloomberg con Spiderman a New York

 

C’è di più: su molti temi l’elettorato americano, non solo democratico, sembra avere posizioni più progressiste dei candidati moderati. Naturalmente si tratta di un rebus complicato: ci sono gli iper- liberal sui temi etici che non vogliono che le tasse aumentino, e i conservatori che vorrebbero più sanità e infrastrutture grazie a un bilancio pubblico più forte. E poi tutto il resto in mezzo. Centro e moderazione, nel 2020, saranno categorie sfuggenti: è di centro voler affrontare in maniera risoluta il cambiamento climatico? È di centro sostenere il commercio internazionale o viceversa? È di centro volere una riforma dell’immigrazione che regolarizzi milioni di persone? Vanno tassate le grandi ricchezze al fine di recuperare risorse da investire in istruzione e sanità? Questi sono i grandi temi in agenda e si possono fornire molte risposte diverse. Definire dove stia la moderazione, se questa non si identifica con lasciare tutto com’è, è complicato. E gli americani hanno segnalato in più di un’occasione, che non è lo status quo quel che cercano.

La verità, insomma, è che queste candidature rischiano di fare più danni che altro al Partito Democratico. A meno di un ritiro di Biden, rischiano di dividere ulteriormente l’elettorato moderato, indebolendo così l’ex vicepresidente o Pete Buttgieg – che al momento sembra davvero l’unica figura in grado di tenere testa a Warren o Sanders. La loro discesa in campo, che avrebbe come obiettivi polemici le proposte della sinistra del partito, rischia poi di indebolire quelle posizioni, rendendo meno “eleggibile” l’eventuale nominato Sanders o Warren. E siccome una vittoria di uno dei due Senatori non è da escludere, anche questo sarebbe un danno al partito che vorrebbero salvare.

 

 

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