Tra i tanti segnali che possiamo ricercare nelle elezioni americane di Midterm c’è quello relativo al futuro del Partito Democratico: sono davvero nate nuove leadership e potenziali candidati per le presidenziali del 2020?
Di sicuro i Dem, dopo la batosta del 2016 e la fine dell’era Obama, hanno vissuto un momento doloroso e travagliato; questo stato d’animo si è sentito ancora ben vivo in occasione del voto di novembre 2018. Quasi una crisi di nervi per gli elettori e il Partito, allo stesso tempo sfiancati ed esasperati dalle mobilitazioni di questi anni ma desiderosi di rivincita sul 2016.
Se sul piano pratico i Dem sono riusciti almeno ad ottenere un buon risultato, quello di riconquistare dopo 8 anni la Camera dei Rappresentanti, sul piano strategico resta aperta la vera sfida: quella di evitare un secondo mandato di Donald Trump. Nonostante sia tra i presidenti più “divisivi” e avversati della storia americana, statistiche alla mano è compito arduo evitare la rielezione per un secondo mandato di un Presidente in carica. Nella storia recente si è verificato solo due volte, nei casi di Jimmy Carter (1980) contro Ronald Reagan, e di George Bush Senior (1992) – il quale fu battuto da Bill Clinton grazie a una candidatura indipendente, quella del miliardario Ross Perot, che divise il fronte conservatore.
Perché il Partito Democratico trovi la leadership vincente per il 2020 c’è bisogno di una lettura chiara e rigorosa sia delle lotte di potere in corso dentro il partito, sia di cosa sta succedendo nell’opinione pubblica americana.
Due tendenze principali, più o meno costanti, si sono intrecciate tra loro nell’ultimo quindicennio. Da una parte l’incremento della partecipazione elettorale e dell’attivismo; dall’altra il riconoscimento identitario sempre più marcato in uno spazio politico ben definito.
Il cuore della questione è se nella nuova generazione di politici emersa da questa fase di forte polarizzazione si nasconda un profilo adatto a vincere le prossime presidenziali. E’ vero in effetti che la corsa alle posizioni moderate non fa più parte degli obblighi del candidato modello, ma è anche vero che il sistema elettorale americano fa sì che non basti conquistare la maggioranza dell’opinione pubblica per vincere.
Robert “Beto” O’Rourke, nato nel 1972, membro della Camera dei Rappresentanti del Distretto 16 del Texas (El Paso) dal 2013 – ma non rieletto questo novembre – è dotato di un forte carisma e di una grande arte oratoria, di obamiana memoria, e ha raccolto 59 milioni di dollari per la sua campagna, con micro donazioni provenienti non solo dal Texas ma da tutti gli Stati Uniti. Uomo dal passato a tratti turbolento, O’Rourke si è laureato in letteratura inglese alla Columbia University nel 1995 – la stessa dove Obama si era laureato dodici anni prima in scienze politiche. Come per l’ultimo presidente democratico, le accuse di “socialismo” che gli vengono attribuite in maniera ricorrente derivano dalle sue idee in materia di sistema sanitario universale.
Nella campagna per il seggio senatoriale del Texas, O’Rourke si è mostrato paziente, disponibile e amante del contatto con le persone – ricordando in questo un po’ il carattere di Bob Kennedy, che si lanciava letteralmente tra la gente – nel suo tour in macchina di tutto il Texas.
L’impresa di “Beto” era considerata quasi impossibile in partenza, dato che il Texas è uno stato del Sud dove i Democratici non riescono a conquistare un seggio senatoriale da più di 30 anni, ed è anche uno stato che ha sfornato personaggi importanti del Partito Repubblicano. Uno di questi era proprio il Senatore uscente Ted Cruz, candidato perdente alle primarie 2016 contro Donald Trump, che ha vinto sì anche stavolta, ma solo con uno scarto del 2,6%. Forse le sue sole forze non sarebbero bastate se il partito e lo stesso Trump non si fossero spesi massicciamente in Texas, a riprova del valore del voto e della pericolosità percepita di O’Rourke come avversario.
Lontano dal Texas, è toccata ad Alexandria Ocasio-Cortez la vittoria più netta nella nuova leva democratica. La sua strada era abbastanza spianata, correndo per un collegio della assai liberal New York, dato che la vera impresa l’aveva compiuta alle primarie di questa estate contro Joe Crowley. Crowley non era solo il prototipo di “maschio bianco”, ma anche colonna del Partito Democratico newyorkese, rieletto da decenni in quel seggio, capogruppo alla Camera, nonché candidato in pectore a Speaker della maggioranza nel caso (che si è poi verificato) di riconquista democratica del ramo parlamentare in questione.
Ocasio, ventinovenne figlia di immigrati portoricani, è anche la più giovane deputata mai eletta alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti d’America. Il suo distretto di provenienza, che copre Bronx e Queens, l’ha resa particolarmente competente e attenta alle trasformazioni migratorie di questi due boroughs di New York City, e il suo programma è stato tutto centrato su sanità e istruzione pubblica. Rappresentante dell’ondata di impegno politico nella generazione millennial, ha fatto propri i più innovativi strumenti di comunicazione, affiancando la campagna elettorale tradizionale con una campagna-diario fatta per immagini sul suo canale Instagram. Laureata in economia e relazioni internazionali presso la Boston University è cresciuta politicamente durante la campagna di Bernie Sanders del 2016. Ha un solo problema per il 2020: proprio l’età. Infatti, il secondo articolo della Costituzione americana, tra i vari requisiti per diventare Presidente, indica come età minima 35 anni; la giovane deputata ne avrà solo 31 e dovrà dunque farsi le ossa in attesa che possa arrivare un giorno la sua opportunità.
Si è svolta ancora al Sud una delle battaglie più accese di questo voto di Midterm. Stacey Abrams è stata la prima donna afroamericana candidata alla carica di governatore, e lo ha fatto in uno degli stati meridionali più tradizionalisti, una roccaforte repubblicana come la Georgia.
Madre single e scrittrice di successo, si è laureata allo Spelman, college femminile cristiano di Atlanta, in Economia e Sociologia. In uno stato conservatore, i suoi cavalli di battaglia politici sono sempre stati i sussidi per le famiglie in difficoltà economica e l’accesa difesa dei diritti delle minoranze – classiche rivendicazioni delle comunità nere del Sud – ma anche il controllo delle armi e la depenalizzazione dell’uso di marihuana.
Stacey Abrams ha vissuto quello che è rimasto uno dei duelli più incerti di queste elezioni – visto che la vittoria è andata al Repubblicano Brian Kemp solo di misura, dopo un riconteggio, sia perché ha denunciato casi di restrizione all’accesso al voto. Il risultato è stato lì lì per cambiare, grazie agli “absentee ballot”, i voti per corrispondenza arrivati successivamente allo spoglio delle urne: la Georgia l’unico stato che prevede un ballottaggio a livello di elezione di Governatore, se nessuno dei candidati raggiunge il 50,1 % dei voti. Kemp ha toccato il 50,2%, vincendo con 55mila voti di scarto.
Un altro duello punto a punto c’è stato, ed è stato perso, da un’altra promessa afroamericana del campo democratico, Andrew Gillum. Quinto di sette figli, primo diplomato in famiglia e con due fratelli arrestati (uno per rapina, l’altro per possesso di cocaina), ha vinto le primarie estive a governatore della Florida contro ogni previsione della vigilia, battendo la figlia dell’ex-governatore Bob Graham, candidata moderata dell’establishment democratico.
Gillum è stato sostenuto in prima persona da Bernie Sanders e Barack Obama e ha portato avanti posizioni progressiste, ad iniziare dell’estensione dell’assicurazione sanitaria Medicare a tutti i cittadini. Al Repubblicano Ron DeSantis non è mancato il supporto di Donald Trump, in quello che in piccolo poteva essere considerato un vero antipasto del 2020, data l’importanza della Florida nei risultati complessivi delle presidenziali. Se in un primo momento Gillum aveva riconosciuto una chiara vittoria a DeSantis, con il completarsi dello scrutinio il margine tra i due è sceso sotto lo 0.4 %:lo scenario della sconfitta di misura in Florida continua a perseguitare i Democratici fin dalle presidenziali del 2000 tra George W. Bush e Al Gore, decise proprio qui.
Ma non solo da questi candidati di bandiera sono state caratterizzate le elezioni del Partito Democratico. A riprova della portata simbolica di questo Midterm, la democratica Ilhan Omar (trentacinquenne rifugiata somala nata a Mogadiscio, ed eletta nel collegio di Minneapolis in Minnesota) e Rashida Tlaib americana di origini palestinesi, già rappresentante al Michigan House of Rapresentatives ed esponente insieme Alexandria Ocasio-Cortez del Democratic Socialist of America (organizzazione di estrema sinistra americana).
Elisabeth Warren, Senatrice iper-liberal del Massachusetts (rieletta anche stavolta) e più volte chiamata in ballo negli ultimi anni come possibile candidata presidenziale, finora si è sempre defilata da sfide nazionali. Vista la complessiva virata a sinistra del Partito Democratico, potrebbe sciogliere le sue riserve e correre per la presidenza. Rischierebbe però di scontare l’effetto dell’eterna promessa: il suo nome ricorre a ogni elezione, come campionessa dell’ala progressista del partito, per poi essere regolarmente accantonato.
Tralasciando Bernie Sanders – che in questa fase è tra i politici più amati in America, come rappresentante della prima ora del “socialismo” americano tornato di moda, e onnipresente in nei talk show – rimangono altri due pesi massimi dell’era Obama come carte da giocare in vista del 2020. Uno è Joe Biden: l’ex vicepresidente di Obama, per un lungo periodo nell’ombra, ha ripreso credito grazie alla sua indiscussa capacità di empatia e l’esperienza accumulata. Nel 2020 però avrà 77 anni. L’altra è Michelle Obama: la ex-First Lady ha la possibilità di proporsi come continuatrice dell’esperienza del marito, con la capacità di non apparirne la fotocopia grazie al carattere e al carisma. Una parte importante della base democratica e dei media vorrebbero una sua candidatura; d’altra parte, il risultato di Hillary Clinton spaventa i fautori di un passaggio del testimone “in famiglia”.
Infine, c’è un’altra manciata di candidati potenziali. In questa sede vale la pena ricordare almeno Cory Booker, che ha mostrato quantomeno una grande popolarità con la dote di collezionare seguaci su Twitter (terzo solo dopo Sanders e Warren) e Kamala Harris, americana di origine indo-giamaicane e senatrice californiana già in carica, riconfermata ampiamente anche in questa tornata elettorale e data almeno dai bookmakers, come candidata sicura alle prossime primarie democratiche presidenziali.
Qualche osservatore ha accusato i Democratici di essere fermi ancora a Barack Obama, come vero leader nazionale, e la stessa sua massiccia chiamata in causa, per il sostegno dei candidati democratici in queste elezioni, è stata abbastanza inusuale per un ex-Presidente. C’è da dire che nel lontano 2007, prima della sua candidatura ufficiale e della vittoria del 2008, Barack Obama (Senatore dal 2015) non solo era abbastanza sconosciuto al grande pubblico, ma anche nel corso delle primarie e fino addirittura al Super Tuesday era considerato un semplice comprimario di Hillary Clinton.
Pertanto non dovremo sorprenderci (nonostante alcuni siano stati sconfitti) se nei prossimi mesi emergeranno nomi di possibili candidati per il 2020 non proprio da classe dirigente tradizionale. Considerando anche la scalata imprevista di Donald Trump ai Repubblicani nel 2016, in America non si può mai escludere che un outsider diventi presidente. Perfino un ex-bassista punk (come Beto O’Rourke) può avere le sue chance.