I social network sono il luogo dove Donald Trump ha vinto le elezioni del 2016. A sostenerlo sono diverse ricerche sui dati incrociati con i voti espressi a livello locale. L’analisi scientifica del risultato attribuisce ai vari Twitter e Facebook un ruolo cruciale, come è emerso dal lavoro di Cambridge Analytica – la controversa società britannica di consulenza nota per il data mining – ma anche dalla campagna di infiltrazione orchestrata da Mosca. Anche al di là di questi casi eclatanti, possiamo comunque affermare che la comunicazione diretta del presidente – ripresa e rilanciata in maniera ossessiva da tutti i media, amici e nemici – è stata determinante in campagna elettorale – e ha continuato ad esserlo in questi oltre due anni alla Casa Bianca. A ogni comizio Trump produceva segmenti perfetti per essere ripresi in un breve video e postati in rete. Che si trattasse dei detrattori o dei fan, le sue battute controverse, l’imitazione del giornalista con problemi motori, gli slogan “lock her up” (riferito a Hillary Clinton) e “build the wall” divenivano mini-filmati da milioni di visualizzazioni.
I Democratici, da parte loro, sembrano molto coscienti di quanto avvenuto: la corsa alla candidatura nel 2020 si giocherà dunque molto sui social media. Anche se, nelle primarie interne al partito, i toni saranno diversi da quelli usati tra avversari di partiti concorrenti.
Primarie affollate
La novità – in primarie affollate come quelle del 2020 – è che reti sociali e campagna digitale entreranno in ciascuno degli ambiti di cui è fatto il lavoro di vincere un’elezione: posizionamento programmatico, organizzazione della campagna e motivazione dei volontari negli Stati che contano, raccolta fondi.
Come ormai sappiamo, queste rafforzano le possibilità di propaganda e dialogo con gli elettori. Sui social network si parla di sé, si veicola un’immagine della propria candidatura anche quando i media non ci seguono. E i media tradizionali, con un Trump che genera notizie quotidiane e un parco di candidature tanto ampio, non daranno molto spazio ai tanti candidati Dem. Avere tanti nomi per un solo posto implica che chi corre debba necessariamente costruire una propria base “devota” in diversi Stati. La propaganda travestita da comunicazione diretta è uno strumento ideale per farlo.
Qualche giorno fa Edward Luce sul Financial Times segnalava come la campagna fatta a colpi di foto su Instagram, tweet ed eventi in streaming o dirette Facebook si stia traducendo per ora nella vaghezza delle proposte programmatiche. Un meme, uno slogan, una frase efficace che dica “Sanità per tutti” senza spiegare come, un brandello di comizio hanno più chance di divenire virali di uno spiegone dettagliato.
Se Howard Dean era il modello di raccolta fondi online nel 2004 e Barack Obama la frontiera tecnologica del 2008 (soprattutto nell’ambito dell’organizzazione del lavoro dei volontari), nel 2020 la stella polare è Alexandria Ocasio-Cortez: quella della neo-deputata newyorchese è una campagna di comunicazione anti-convenzionale che sta associando lavoro sul campo e reti sociali in maniera magistrale e costante.
Partiamo dai numeri, per scoprire che essere qualcuno prima di candidarsi conta: Bernie Sanders e Joe Biden primeggiano in tutti e tre i grandi social media. Dal canto loro, i senatori eletti hanno più follower di figure considerate star dei social come l’ex deputato del Texas Beto O’Rourke, anche lui ora candidato alle primarie. Essere governatori o avere un profilo molto locale, invece, non aiuta: nella nostra classifica parziale – non include qualche candidato – i social network ricalcano i sondaggi di opinione.
Altro aspetto relativo ai numeri riguarda Twitter: il social meno utilizzato dalle masse è quello dove si fa più politica e dove si possono rilanciare i contenuti propri e degli altri – i filmati e le foto Instagram, le note Facebook e così via – di qualsiasi altra piattaforma. Forse per questo motivo, qui tutti i candidati hanno più follower che su qualsiasi altro social.
Ma vediamo cosa fanno i candidati, partendo dal fenomeno più attivo in questo campo. La campagna di Beto O’Rourke è la meno organizzata e tradizionale tra tutte, ma l’ex membro della Camera del Texas ci tiene ad aggiornarci su ogni spostamento, ogni sosta, ogni paesaggio, ogni essere umano che incontra. E rilancia molto i video dei suoi follower. Un modo di affermare in maniera costante la propria vicinanza alle persone: i suoi comizi sono in posti piccoli, si fanno seduti in piedi su una sedia, a volte senza microfono. Il suo è un on-the-road molto efficace ma poco presidenziale, che si direbbe andar bene per alimentare la relazione sentimentale con la propria base e allargarla. Di certo funziona con i millennials e i centennials (i nati dopo il ’96). Ma anche in un mondo drogato dalla propaganda pura, a un certo punto occorrerà definire un messaggio.
Chi ha un problema di empatia e deve fare di tutto per costruirlo è la professoressa e senatrice del Massachussetts Elizabeth Warren. Andate sul suo account Instagram e seguirete la sua vita fuori dalle cerchie della politica professionale: il film del venerdì in tv con il marito, l’amato cane che le manca terribilmente quando è in giro per il Paese (o che porta in New Hampshire, Stato alle cui primarie ha l’obbligo di andare molto bene), e così via. Parallelamente, Warren è anche la figura con più dettagli sulla sua potenziale presidenza: le proposte sono dettagliate più che altrove e l’insistenza sui contenuti è la seconda costante. L’idea trasmessa è quella di una campagna pensata per rassicurare sulla capacità, serietà e vicinanza: Warren ha una storia di successo fai-da-te da raccontare.
Tutti i candidati tendono a mostrare aspetti della propria quotidianità: Warren lava il cane, Kristen Gillibrand va in palestra o cammina sulla neve, Kamala Harris cucina assieme alla sorella. Le donne, a dire il vero, sono molto più credibili nel presentarsi come persone comuni. Fu quello che mancò a Hillary Clinton. Stavolta sembra contare davvero molto: il più noto dei candidati probabili, Joe Biden, è amato anche per il suo aver vissuto in pubblico i momenti più duri e terribili della propria vita. E John McCain era tanto rispettato perché tutti hanno visto i video del prigioniero in Vietnam che rifiuta di essere rilasciato perché privilegiato.
Bernie Sanders si pone il problema in maniera diversa. Il senatore del Vermont è un politico-politico, non ci racconta molto su di sé se non che era di sinistra già nel 1968 e che lo è rimasto senza compromessi: spezzoni di comizi, risposte alle dichiarazioni o alle scelte di Trump. Poi, foto di abbracci e incontri con il suo pubblico. Sanders non deve farsi conoscere. Già fatto. La sua popolarità è cresciuta con il messaggio politico fuori dal coro ed è quello che va ribadito in una contesa nella quale non ha più il monopolio della purezza ideologica. La vicenda personale conta in quanto biografia politica. L’autobiografia pure è funzionale al messaggio, come nel video qui sotto: “Vengo da una famiglia che faceva fatica ad arrivare alla fine del mese e per questo so capire…”. Sono coerente con me stesso, sono diverso dal nababbo Trump.
Cory Booker cerca di riprendere il discorso obamiano di un Paese che vince se lavora unito e non polarizzato come è oggi, e posta decine di foto assieme a figure importanti della comunità nera. L’obbiettivo è piuttosto chiaro: in una campagna con tanti candidati si può reggere alla prima scrematura avendo una base solida, e Booker punta a essere il candidato della comunità afroamericana. Non a caso due proposte su cui insiste sono la riforma del sistema penale e la legalizzazione della marijuana, che tradotto significa ridurre drasticamente il tasso di incarcerazione dei giovani neri.
Allo stesso modo, la senatrice Kristen Gillibrand, che ha avuto una posizione ferma e radicale sul tema delle molestie sessuali, si rivolge soprattutto alle donne, e Julian Castro corteggia il voto latino: la sua prima uscita è stata a Portorico e il suo tentativo è quello di raccogliere voti tra i vecchi e nuovi ispanici e nel West. Il suo è un profilo rassicurante e moderato, e i suoi social sono piuttosto piatti. Questo è un caso nel quale servirà più costruire relazioni con le comunità ispaniche locali che non generare voto di opinione. In questo caso, i social sono considerati solo un sostegno e si vede che non c’è dietro molto lavoro.
Le foto con i testimonial, che si tratti di figure note della politica, di personaggi della cultura o dello spettacolo associabili a qualche causa, di appartenenti alle minoranze – compresa quella degli operai sindacalizzati bianchi – sono una costante per tutti. La coalizione democratica è variegata per natura e se da un lato devi avere una tua base, dall’altro devi anche fare in modo di non essere identificato esclusivamente con quella.
Candidati “anti-sistema”
Un aspetto che accomuna quasi tutti i modi di proporsi è l’anti-elitarismo tradotto in “la mia campagna non prende soldi dalle grandi lobby e dai miliardari” e “io cambierò il modo di fare politica a Washington” (che questi significhi meno lobby, meno litigiosità, meno accordi sottobanco dipende dal candidato). Si tratta anche di un modo per dire “non sono Hillary Clinton”, non sono parte del sistema. Se si eccettua Obama nel 2012, che pure correva contro il miliardario Mitt Romney, le ultime vittorie elettorali, presidenziali e non, sono arrivate “contro” lobby e politica della corrotta Washington. L’esempio migliore in questo caso è la modestia di Amy Klobuchar, che viene dal Minnesota: persone sotto la neve accorse per un comizio e un messaggio semplice: “Non ho soldi miei, non ho una macchina elettorale, questa è una campagna fatta in casa, ho bisogno del vostro aiuto”.
Ultimo aspetto, la novità e la freschezza. La campagna di Kamala Harris è tante cose assieme: politiche, spontaneità figlia della forza personale della candidata, che riesce ad apparire sempre a suo agio e sincera, profilo già presidenziale. Solo Sanders ha un livello grafico che si avvicina. Nessuno come Harris si rivolge a un pubblico tanto ampio: donne, neri, omosessuali, un comizio con Dolores Huerta, con Cesar Chavez la prima leader dei braccianti messicani – quelli di “Si se puede”, lo “Yes We Can” di Obama – il sostegno agli insegnanti di Los Angeles in sciopero. Ma anche la copertina di Rolling Stone dedicata alle donne democratiche della Camera, tre “socialiste” e Nancy Pelosi. Il video qui sotto è la combinazione di un leader che esercita il potere e di un leader che rende concreti i diritti. Efficace. E possibile punto di equilibrio di un partito che rischia di dividersi molto.
Pete Buttgieg, 37 anni, veterano, omosessuale, è sindaco brillante di un piccolo centro dell’Indiana. La sua è l’equivalente della campagna O’Rourke per chi ha superato gli “anta”: smart, ordinato, sorridente, liberal ma non antagonista, il figlio che i genitori di orientamento democratico vorrebbero avere. La freschezza positiva è una sua forza innegabile. Così come l’assenza di fardello politico da trascinare. La sua è necessariamente una base bianca, ma per raccoglierla deve competere con i due pesi massimi Sanders e Biden. Freschezza e svolta nel modo di fare politica sono le parole d’ordine. L’aver reso la sua città decadente “Great Again” è un buon biglietto da visita.
Un aspetto dei social media che occorre sottolineare, per concludere, è quello oscuro. Le dispute tra gli eserciti di follower non mancheranno. Il primo scontro è stato tra i Bernie Boys e i seguaci di Beto O’Rourke sulla provenienza dei finanziamenti del giovane texano, che ha battuto il record di donazioni del senatore del Vermont nelle prime 24 ore successive all’annuncio della candidatura. La base di Sanders ha già mostrato nel 2016 quanto sappia detestare gli avversari interni al partito e gli insulti nei commenti a qualche candidato sono già una costante. Cory Booker, che in questa corsa è un centrista, è accusato di prendere soldi da Big Pharma e Wall Street e non c’è suo post in cui qualche Bernie Boy non lo ricordi nei commenti.
Il ruolo dei seguaci troppo zelanti si sovrappone a quello dei disturbatori di professione, avversari politici o potenze straniere che siano. Già a fine febbraio Politico ha segnalato come siano in atto tentativi di screditare alcuni candidati o deformarne le posizioni politiche e come questi tentativi appaiano in gran parte coordinati. I candidati vittime degli attacchi sono anche i più forti: Sanders, Harris, O’Rourke, Warren (Biden non corre ancora). Una storia già vista nel 2016, di cui conosceremo qualche particolare in più se mai leggeremo il rapporto Mueller.