Gli effetti a cascata della guerra in Ucraina e la risposta dell’Occidente

Due mesi di guerra in Ucraina hanno modificato parecchie convinzioni radicate fino alla vigilia. L’esercito russo, pur confermandosi il più forte in campo, si è dimostrato molto più inefficiente delle previsioni. C’è anche l’impressione netta che la macchina politico-militare della Russia da Putin in giù sia pericolosamente disfunzionale: in altri termini, che non funzionino né la salita delle informazioni verso il vertice, né la discesa delle istruzioni verso i livelli operativi.

D’altra parte, le forze armate dell’Ucraina e più in generale la capacità di resistenza del popolo e dei suoi dirigenti, hanno sorpreso il mondo intero. Un paese che la propaganda russa teorizzava come artificiale e non veramente degno di esistere, ha dimostrato una eroica e invidiabile coscienza nazionale. Incapace di vincere una guerra lampo, Putin ha dovuto cambiare varie volte di strategia e di obiettivi. Forse per ordini superiori al fine di demolire il morale delle vittime o forse per ferocia spontanea, le truppe russe hanno compiuto atrocità inaudite e numerosi crimini di guerra, soprattutto contro i civili.

Una trincea ucraina nel Donbass

 

La deriva della posizione europea

Infine, un elemento della strategia iniziale di Putin era chiaramente di contare sulla debolezza e la divisione dell’Occidente e soprattutto della sua parte europea. Le divisioni interne agli USA, il diffuso pacifismo e la dipendenza dagli idrocarburi russi di molti europei avrebbero dovuto paralizzare la nostra risposta. Invece l’occidente ha rinsaldato contemporaneamente l’unità della NATO e quella dell’UE; l’aggressione Russa ha addirittura accelerato le prospettive dell’adesione alla NATO di Svezia e Finlandia. L’occidente, a cui si sono uniti altri alleati soprattutto in Asia, ha messo in atto una tripla risposta. Ha applicato sanzioni senza precedenti che colpiscono sia la capacità della Russia di accedere alla tecnologia di cui ha bisogno per il suo sviluppo civile e militare, sia il suo sistema finanziario. Malgrado le enormi difficoltà che ciò comporta e i tempi necessariamente lunghi, l’Europa ha avviato misure per ridurre e poi annullare la dipendenza dalle importazioni russe di idrocarburi. Parallelamente sono stati decisi massicci aiuti militari all’Ucraina,  anche da parte dell’UE (per la prima volta nella sua storia), inizialmente con armamenti solo difensivi ma progressivamente con l’invio di materiale più pesante. Una strategia, quella occidentale, esplicitamente definita in modo da escludere un coinvolgimento diretto nel conflitto e evitare per quanto possibile una escalation russa.

Tutti questi sviluppi in parte inaspettati rendono una rapida conclusione del conflitto altamente improbabile. Una vittoria militare dell’Ucraina è difficilmente ipotizzabile, ma ciò vale anche per una vittoria militare russa, almeno nell’immediato futuro. La situazione sul terreno, unita alle atrocità commesse, rendono per il momento estremamente difficile se non impossibile una soluzione negoziata. In astratto, i contorni di un compromesso sono evidenti. Essi comprendono una qualche concessione territoriale alla Russia in Crimea e nel Donbass, un impegno dell’Ucraina alla neutralità militare, accompagnato però da credibili garanzie internazionali sulla sua indipendenza e il diritto di scegliere un futuro democratico ed europeo. Basta un minimo di buon senso per comprendere che nulla di tutto ciò è in pratica ipotizzabile a breve termine. La prova è che negli ultimi giorni Putin ha dato chiari segni di non essere disponibile ad alcun negoziato. Del resto, con buona pace dei numerosi strateghi che abbondano nei nostri media, l’unico giudice legittimo di quali siano condizioni di pace accettabili, è il popolo ucraino.

In queste condizioni, è evidente che il sogno che ha animato molti fino a tempi recenti, cioè di definire un’architettura stabile per la sicurezza europea che inglobi anche la Russia, è per il momento totalmente irrealistico. Possiamo al massimo sperare che si arrivi a un cessate il fuoco provvisorio i cui contorni sono al momento impossibili da definire; eventualmente a una situazione non dissimile da quella che esisteva al tempo della guerra fredda. Dobbiamo quindi prepararci a un conflitto di lunga durata e se sì con quali prospettive? La risposta a queste domande dipende da numerosi fattori.

 

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Il primo riguarda evidentemente la situazione sul terreno che potrebbe subire un’accelerazione. L’occidente non ha alcun interesse ad allargare il conflitto militare. Putin lo ha invece esplicitamente minacciato, compresi accenni all’uso di armi nucleari tattiche. Ciò non è molto credibile, ma il dittatore russo è stato efficacemente descritto come “non ragionevole ma razionale”. È un fatto del resto che molti meccanismi di dialogo e di allerta, compresa la definizione di alcune elementari regole del gioco che esistevano al tempo della guerra fredda con l’URSS, sembrano non funzionare più con la Russia di Putin.

 

Guerra ibrida e multidimensionale

La tecnologia ha strutturalmente modificato la guerra rispetto a quella studiata sui libri di scuola. C’è una celebre frase di Cicerone che ha finora ispirato le analisi: Inter pacem et bellum nihil medium (Non c’è nulla fra la pace e la guerra). La guerra moderna è invece un continuum che comincia con l’uso massiccio dei media per la disinformazione, continua con operazioni di hackeraggio elettronico, provocazioni di vario tipo, per continuare in operazioni di carattere classico e infine la minaccia nucleare e il suo armamentario logico che va sotto il nome di deterrenza. Molte di cose esistevano in passato, per esempio durante la guerra fredda. Tuttavia la tecnologia e in particolare la rivoluzione digitale hanno cambiato la natura dei conflitti come nel passato era successo con le armi da fuoco, poi con l’aviazione e infine con l’arma atomica. ne ha cambiato la natura. Gli strateghi russi sono stati i primi a teorizzare ciò che va sotto il nome di “guerra ibrida”. Il presente conflitto ne è una evidente applicazione. La guerra tradizionale avviene in Ucraina, ma gli altri strumenti sono adoperati anche direttamente contro l’Occidente,

Il secondo fattore riguarda la tenuta dell’unità dell’Occidente. Essa è stata rapida nella fase iniziale, ma presenta evidenti elementi di fragilità: fra l’Europa e l’America e ancor più all’interno dell’Europa. La guerra in Ucraina ha fatto giustizia di un dibattito che ci ha a lungo animato: quello sulle reali intenzioni di Putin e sul ruolo della Russia in Europa. Dopo la fine della guerra fredda, in Europa ma in fondo anche in America si era affermato il sogno di una Russia che ritrovasse la sua vocazione europea; quanto meno un paese che potesse essere inserito in un rinnovato sistema di sicurezza europea. Di questo sogno fecero parte gli aiuti economici, il patto fra Russia e NATO e l’ammissione al G7/G8. Perfino l’allargamento della NATO agli ex paesi satelliti e ai Baltici nel 2004, oggi criticato da Putin e anche da alcuni in occidente come una forma di aggressione, fu a suo tempo gestito coerentemente con l’obiettivo di creare con la Russia un clima di collaborazione. I maggiori paesi europei, soprattutto Francia, Germania e Italia andarono molto più in là e stabilirono con la Russia rapporti crescenti di quasi integrazione, aumentando in particolare enormemente la dipendenza energetica. Nel frattempo gli USA, sempre più preoccupati dal terrorismo islamico, dal Medio Oriente e poi dalla questione cinese, sembrarono considerare la Russia un problema secondario.

La strategia europea era riassunta dallo slogan tedesco Wandel durch Handel: il cambiamento attraverso il commercio. Non mancavano le voci dissenzienti, soprattutto in Polonia e nei paesi balitici, secondo cui la caduta del comunismo non aveva mutato la natura della minaccia costituita dalla Russia; esse furono però definite certo legittime, ma troppo estremiste e influenzate dalla storia. È duro dover constatare che l’analisi della maggior parte degli europei era in realtà un diniego della realtà e che avevano ragione i vituperati “orientali”. Questo ruolo centrale che la Polonia, i baltici e anche altri paesi dell’est stanno assumendo nella strategia europea è un elemento nuovo la cui importanza per gli equilibri europei non deve essere sottovalutata. Quali che siano i numerosi problemi che abbiamo con alcuni di loro su altre questioni, la loro importanza si sta notevolmente accrescendo.

 

La via russa all’egemonia regionale

Sarebbe eccessivo sostenere che la politica occidentale sia stata esente da errori. Tuttavia, alla luce degli sviluppi attuali, è molto difficile sostenere la tesi purtroppo diffusa che sono stati questi errori a condurre la Russia all’attuale aggressione.

La politica estera di tutte le grandi nazioni riflette, mutuando ancora una volta un’immagine tedesca, il proprio Sonderweg: la visione che esse, comunque la loro classe dirigente, hanno della propria identità, valori e interessi. Arrivato al potere dopo gli anni di caos apparentemente democratico che aveva seguito il crollo del comunismo, Putin ha per un certo periodo giocato con l’ipotesi di un’evoluzione “occidentale”, per poi convincersi che la coesione della nazione richiedeva un ritorno alle radici della storia russa con le sue tradizioni autocratiche, religiose e nazionaliste. Ne discendevano degli inevitabili obiettivi di politica estera. In primo luogo, considerare l’occidente democratico e liberale come una minaccia alla stabilità della Russia. Inoltre, cementare l’unità nazionale attorno al ritorno alla vocazione di riunire sotto lo stesso mantello tutti i popoli di lingua e tradizione russa e ristabilire quella sfera d’influenza alle frontiere che era caduta dopo la dissoluzione dell’URSS e le “umiliazioni” subite. In questa prospettiva, l’indipendenza di paesi come la Moldavia, la Georgia e soprattutto l’Ucraina, costituivano pericoli inaccettabili.

Questa evoluzione non fu determinata da ciò che l’occidente fece o non fece, ma da forze e dinamiche interne alla società russa. Il diniego di parte degli europei impedì di comprendere in tempo l’evoluzione. Essa cominciò con la sanguinosa repressione in Cecenia, il carattere sempre più autoritario del regime interno, il violentissimo discorso anti-occidentale pronunciato da Putin alla Conferenza di Monaco del 2007, la secessione provocata di parte della Moldavia, l’invasione della Georgia nel 2008, fino all’annessione della Crimea nel 2014. La risposta occidentale fu all’inizio allo stesso tempo velleitaria, debole e confusa. Velleitaria nel trattare le richieste di Ucraina e Georgia di adesione alla NATO; debole nel rispondere con sanzioni inadeguate all’annessione della Crimea e al sostegno ai movimenti secessionisti nel Donbass. Fu questa immagine di un Occidente diviso e imbelle a creare le condizioni per la guerra attuale.

La domanda che dobbiamo porci è quanto fragile sia l’unità ritrovata. Il diniego è largamente superato, ma ne permangono soprattutto in Francia, in Germania e anche in Italia residui che condizionano in una certa misura il dibattito interno. Sul piano politico e militare, la ritrovata unità riguarda allo stesso tempo la NATO e l’UE. Si può addirittura dire che si tratta di due lati della stessa medaglia: la prima ha reso possibile la seconda e viceversa. Anche questo consenso ha però le sue fragilità. In alcuni paesi come la Francia, la NATO è sempre vista con un qualche reticenza e lo slogan della “autonomia strategica” dell’Europa mantiene connotati anti-americani. Specularmente ogni iniziativa specificamente europea suscita sospetto in buona parte dell’Europa settentrionale e orientale. Chiarezza deve quindi essere fatta; sarà uno dei principali cantieri europei dei prossimi mesi se l’UE vuole veramente dare sostanza alla “Bussola strategica” che ha approvato il mese scorso.

 

L’unità occidentale alla prova del resto del mondo

L’unità dell’Occidente e dell’Europa è comunque un obiettivo prioritario da perseguire ogni giorno con determinazione. Compito non facile. La diffidenza verso le incertezze europee regna a Washington, mentre sulle analisi europee aleggia l’incubo di un possibile ritorno di Donald Trump fra due anni. Ancora più urgente è definire meglio gli obiettivi occidentali per la guerra in Ucraina. Le motivazioni sono chiare e condivise; esse sono allo stesso tempo etiche e politiche. Si tratta di non accettare il ristabilimento di sfere d’influenza in Europa, la modifica unilaterale delle frontiere con la forza e la negazione del diritto di paesi sovrani a scegliere il proprio destino politico, compresa una convergenza verso i valori europei e occidentali.

Meno chiara è la strategia. Al doppio sforzo in atto, sanzioni più aiuti militari, sono stati dati i significati più diversi. È stato detto che è essenzialmente finalizzato alla ricerca di un compromesso, ma anche che è finalizzato alla sconfitta della Russia sul terreno. È stato infine suggerito che l’obiettivo è la caduta di Putin. Nessuna di queste versioni, che peraltro sono a volte presentate con retoriche roboanti, sono convincenti. La natura della Russia putiniana è più profonda di Putin e gli sopravvivrebbe. È già stato detto che al momento nessuna vera pace è possibile. La  sconfitta militare della Russia implicherebbe un allargamento del conflitto che nessuno vuole. La verità è che la Russia non modificherà profondamente il proprio Sonderweg se non vi sarà costretta dalla constatazione di non avere alternative. La migliore definizione è quindi forse quella data da Lloyd Austin, Segretario alla difesa USA, secondo cui il nostro scopo è indebolire progressivamente la Russia al fine di renderle impossibile di raggiungere i suoi obiettivi espansionisti e obbligarla a sedersi seriamente al tavolo del negoziato.

 

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Un altro fattore da tenere in considerazione è il teatro globale. La Russia ha scelto l’alleanza con la Cina in funzione antioccidentale e la Cina si è schierata politicamente al suo fianco. La natura e la portata di questo avvicinamento sono ancora difficili da valutare. I segni di un sostegno cinese attivo alla Russia sono ancora modesti e comunque la Cina non ha grande interesse ad aggravare le tensioni che già esistono. L’avvicinamento russo-cinese conduce però anche a considerare la vicenda ucraina inevitabilmente come una metafora del problema di Taiwan. Una prima conseguenza è quindi che la separazione fra il teatro europeo e l’Indo-Pacifico diventa più incerta. L’occidente è obbligato a definire una strategia globale; un altro diniego che molti europei sono obbligati a superare.

Alcuni paesi asiatici normalmente poco coinvolti nelle vicende europee, come il Giappone e l’Australia, si sono uniti al fronte occidentale. Invece un gran numero di paesi in Asia e Africa ha dichiarato la sua neutralità. Ciò è stato descritto come una prova d’isolamento dell’Occidente. È difficile capire perché, salvo se si vuole presentare il conflitto attuale in termini esclusivamente etici. L’esistenza di un largo mondo “neutrale” esisteva già ai tempi della guerra fredda e non deve sorprendere che si ripresenti ora. Questi paesi considerano che questa “non è la loro guerra” e in generale hanno buone ragioni per pensarlo. Inoltre la neutralità dichiarata ha motivazioni molto diverse, soprattutto fra paesi asiatici e africani. In alcuni casi è disinteresse, in altri l’esistenza di legami con la Russia che non si vogliono compromettere. D’altro canto, non abbiamo interesse a considerare questa situazione come irreversibile.

L’evoluzione della situazione sul terreno, avrà inevitabilmente un impatto sulla posizione dei neutrali. È per esempio il caso dell’India, paese importantissimo, le cui priorità sono innanzitutto asiatiche e che si muove da tempo verso un’alleanza più stretta con gli USA; ciò non potrà a termine non influire anche sul suo atteggiamento verso la Russia. Che non posiamo restare indifferenti alla posizione dei paesi neutrali, è anche dovuto al fatto che il conflitto in Ucraina ha effetti negativi su tutta l’economia mondiale. In Africa questi effetti, per esempio a causa dell’interruzione delle esportazioni di cereali da Russia e Ucraina, possono essere molto gravi e dobbiamo in una certa misura farcene carico.

La domanda finale che dobbiamo porci se si pensa a un conflitto di lunga durata, riguarda il fattore tempo: chi favorisce? Noi o Putin? Dati i rapporti di forza, la risposta nel medio periodo è sicuramente che favorisce noi. Le sanzioni possono essere in parte aggirate e la Russia può rivolgersi ad altre fonti, in particolare la Cina, ma le possibilità non sono enormi. Del resto gli effetti sull’economia russa sono già visibili, come pure le conseguenze per lo sforzo militare. Ciò non è però necessariamente vero anche nel breve termine. Lo sforzo per mantenere nei prossimi mesi l’unità della strategia occidentale dipenderà in gran parte dalla tenuta del consenso interno dei principali paesi europei: Francia, Germania e Italia.

Le situazioni sono diverse e i problemi da affrontare sono molteplici, ma sappiamo che il consenso interno è fragile. Tuttavia la questione centrale riguarderà la capacità di accelerare la conversione energetica, affrontando contemporaneamente l’ondata inflazionista che è fonte di un aggravamento delle tensioni sociali, e il rischio incombente di una nuova recessione. Sia il perseguimento di una maggiore indipendenza energetica, sia il perseguimento di una più grande autonomia tecnologica in settori sensibili a minacce geopolitiche richiederanno anche una forte cooperazione transatlantica.  Si tratta di una sfida di grandi dimensioni che richiederà capacità di leadership, ma anche un forte sforzo congiunto.

È a questo proposito possibile che siano di nuovo riunite le condizioni per varare un nuovo grande programma europeo d’investimenti destinato ad finanziare il cammino verso una difesa comune, l’accelerazione della transizione energetica e l’attenuazione delle conseguenze sociali.

 

 

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