Il giorno del Parlamento europeo

 Non sono frequenti le giornate che ci ricordano l’importanza del Parlamento europeo. Il 12 settembre è stata una di quelle: non solo per il voto sulla direttiva sul diritto d’autore – dopo un vero dibattito a livello continentale, che ha portato l’aula a discutere oltre duecento emendamenti – ma anche per il voto sull’Ungheria per l’attivazione dell’Articolo 7 del Trattato di Lisbona. Un voto su questioni di principio, e allo stesso tempo estremamente politico; un voto su temi come democrazia, stato di diritto, immigrazione, poteri pubblici, presenti nel dibattito di tutti i cittadini europei negli ultimi anni. Un voto che ha fatto emergere le tante divisioni, qualcuna evidente, qualcuna latente, dell’Europa di oggi. E un voto che, per colmo di paradosso (un paradosso che non sarà piaciuto ai professionisti della retorica anti-UE), conferma il ruolo dell’Unione come vera arena di discussione e di decisione.

Il Parlamento di Bruxelles ha dunque deciso (448 voti contro 197, con 48 astensioni: una maggioranza ampia e inattesa) una procedura eccezionale contro l’Ungheria, ritenuta colpevole di non rispettare i principi dello stato di diritto, a causa della “diffusione di corruzione e conflitti d’interesse, degli abusi elettorali e costituzionali, degli attentati all’indipendenza della giustizia, alle libertà individuali, ai diritti dei rifugiati”, come stilato nel rapporto della deputata Verde olandese Judith Sargentini. L’attivazione di questa lunga procedura potrebbe addirittura portare alla sospensione delle prerogative dell’Ungheria all’interno dell’UE, incluso il diritto di voto e l’accesso ai finanziamenti.

Il ricorso all’Articolo 7 svela che all’interno dell’UE alcuni equilibri stanno cambiando. Nessuno aveva mai fatto ricorso a questa procedura, in passato, finché alla fine dell’anno scorso le istituzioni europee l’hanno sfoderata contro la Polonia del partito nazionalista conservatore Diritto e Giustizia. In particolare, si contestava a Varsavia la sottomissione del potere giudiziario a quello esecutivo. Perché la procedura prevista dall’Articolo possa giungere alle sanzioni, però, serve l’accordo unanime di tutti i capi di stato e di governo dei Paesi membri dell’UE; il primo ministro ungherese Viktor Orban aveva fatto subito sapere che non avrebbe mai votato contro la Polonia.

L’Articolo 7 era stato “ispirato” dall’arrivo al potere in Austria dell’estrema destra di Jörg Haider nel 2000, ma ancora poco tempo fa era considerato solo un’arma di deterrenza, non uno strumento da usare davvero, contro eventuali derive illiberali. Questa doppia attivazione significa che Bruxelles apre un fronte contro il blocco di Visegrad, il gruppo dei paesi centro-orientali a cui Polonia e Ungheria appartengono, insieme a Repubblica Ceca e Slovacchia, caratterizzato da comuni evoluzioni politiche come la xenofobia, l’accentramento dei poteri nei governi, la contrarietà a continuare l’integrazione europea alle attuali condizioni. Per inciso, l’Articolo 7 in questi mesi non ha modificato minimamente il comportamento del governo polacco – d’altronde, perché scattino le sanzioni serve prima il consenso dei 4/5 e poi dell’unanimità dei membri UE, uno scenario improbabile. Tuttavia, il provvedimento dell’UE segue un grande aumento delle manifestazioni e della mobilitazione dei cittadini, sia in Polonia che in Ungheria, contro i rispettivi governi.

Una tra le centinaia di recenti manifestazioni a Budapest contro Viktor Orban

 

Ma non c’è solo una frattura tra Est e Ovest che (ri)emerge. Fidesz, il partito-creatura di Viktor Orban, è affiliato nell’UE al Partito Popolare Europeo, che invece in questo momento è in maniera assoluta il partito delle istituzioni europee. Il PPE è il partito di Angela Merkel e del Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. E’ il partito che domina il Consiglio europeo e lo presiede con Donald Tusk, ha la maggioranza in Parlamento e lo presiede con Antonio Tajani. In molti pensavano che i Popolari non avrebbero mai messo nella “lista dei cattivi” uno di loro: non è certo da ieri che Orban è al centro di polemiche (alcune delle leggi messe all’indice nel rapporto Sargentini sono state approvate nel 2012), eppure mai nulla si era mosso. Perché stavolta sarebbe stato diverso, considerando anche che i 218 europarlamentari del PPE erano decisivi nell’esito della votazione?

Alla fine il partito delle istituzioni ha abbandonato il suo scomodo associato ungherese. Juncker aveva annunciato che il vento stava cambiando (“Ho rinunciato a far ragionare Orban”, ha dichiarato di recente, rompendo la precedente lunga, cordiale routine di battute e scherzi tra i due); 114 deputati (57 i contrari, 28 gli astenuti) lo hanno seguito, guidati dal capogruppo Manfred Weber, esponente della CSU, il partito democristiano egemone in Baviera, nonostante il primo ministro ungherese fosse andato di persona in parlamento a perorare la sua causa, accusando i suoi avversari di ricattarlo per obbligarlo ad accettare l’immigrazione.

La posizione di Weber, con la sua CSU in sofferenza per la concorrenza della destra nazionalista di Alternative für Deutschland, è importante perché può mandare in soffitta l’ipotesi di un’alleanza tra i popolari e i nazionalisti di destra all’indomani delle elezioni europee del prossimo maggio; Weber, infatti, è anche candidato alla testa della Commissione. I governi euroscettici (e più o meno apertamente xenofobi) al potere in Europa centro-orientale – e di questi la stella è proprio il primo ministro Orban, al suo terzo mandato – sono sempre più corteggiati dalle destre tradizionali dell’Europa occidentale. Probabilmente terrorizzati di fare la fine di molti partiti socialisti europei (scomparsi), alcuni partiti conservatori sentono forte la tentazione di appoggiarsi sull’arrembante estrema destra.

Ma questa mossa ha aperto una falla nel campo popolare; una falla destinata ad avere ripercussioni anche sull’equilibrio dei governi nazionali. Mentre il voto dei socialisti (di cui fa parte anche il Partito Democratico italiano), dei Verdi e della sinistra radicale e dei liberali – compresi gli eurodeputati ungheresi di questi gruppi – è stato abbastanza compatto a favore del rapporto Sargentini, guardare dentro il voto dei popolari ci consente di tracciarne una mappa .

21 su 29 parlamentari tedeschi della CDU hanno appoggiato il rapporto, seguiti in blocco dai loro omologhi olandesi, austriaci e svedesi, ma anche dai Popolari polacchi e dai rumeni. Hanno invece votato a favore di Orban i Popolari spagnoli, che dopo aver perso il governo rischiano di essere “mangiati” dal più giovane partito liberal-conservatore Ciudadanos, e con il nuovo leader Pablo Casado hanno abbracciato il discorso della destra identitaria. Hanno votato a favore di Orban i Républicains francesi, che in patria sono schiacciati tra la fuga dell’area moderata del partito alla corte del presidente Emmanuel Macron, e Marine Le Pen alla loro destra – della quale ormai copiano slogan e programmi. E ha votato a favore di Orban anche il gruppo di Forza Italia (ma Antonio Tajani non ha partecipato), in consonanza con la Lega, ma in dissonanza con il Movimento Cinque Stelle: il partito di Luigi Di Maio si è espresso come il Partito Democratico, a favore dell’Articolo 7.

Possiamo dunque individuare nei Popolari un nucleo centrale fedele all’orientamento ‘bruxellese’, mentre alla periferia (in tre paesi come Francia, Italia e Spagna, dove i partiti e la politica sono profondamente mutati negli ultimi anni) il blocco conservatore si orienta secondo linee diverse. Linee che in molti casi si avvicinano al discorso e alla narrazione dell’estrema destra nazionalista.

In effetti, il comportamento dei deputati per Paese è illuminante: gli ungheresi (tra i quali il gruppo di Fidesz è egemone) non sono stati i soli a votare maggioritariamente contro l’Articolo 7. Il voto dei deputati polacchi (22 a favore, 23 contro), cechi (9/10) e slovacchi (3/5) mostra che il blocco di Visegrad è una realtà politica, e al suo interno le famiglie politiche tradizionali europee non sono più così influenti: ad esempio, i Socialisti slovacchi hanno scelto di smarcarsi dalla linea continentale, votando a favore di Orban. E la frattura Est-Ovest è confermata anche dal comportamento degli sloveni (3/4), dei croati (5/5) e dei bulgari (5/8). E’ da sottolineare però la significativa eccezione (19/5) dei rumeni, e dei deputati dei tre Paesi Baltici, questi ultimi schierati in maniera schiacciante contro Orban.

I deputati dell’Europa occidentale, al contrario, hanno votato in maggioranza a favore dell’Articolo 7. Tutti? No: c’è anche qui una significativa eccezione, quella del Regno Unito: i deputati britannici hanno ribadito (31/35) la loro tradizionale linea: asse con i Paesi centro-orientali contro le iniziative politiche delle istituzioni europee, e non riconoscimento all’Unione della possibilità di mettere bocca sugli affari interni degli stati membri.

Ma perché i parlamentari britannici, benché siano in uscita e non avranno nemmeno modo di influenzare le procedure dell’Articolo 7, hanno comunque partecipato al voto? Probabilmente perché non c’è altrove un luogo altrettanto democratico e plurale come il Parlamento europeo per discutere ed esprimersi sui principi e i problemi che riguardano l’insieme dell’Europa. E’ un dato di cui anche il politico più euroscettico, ormai, ha dovuto prendere atto. 

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