Fantasma transatlantico: il parziale ritiro americano dalla Germania

La richiesta della Casa Bianca al Pentagono di ritirare quasi 10mila uomini dalla Germania è una matassa a tre trame: americana; transatlantica, geopolitica. Come nelle vecchie cime nautiche i tre trefoli sono strettamente attorcigliati. L’impatto – potenziale: finora niente è avvenuto – è dovuto all’intreccio fra motivazioni di politica interna e conseguenze esterne sulla NATO e, di riflesso, sulla Russia. L’onda lunga arriva fino a Pechino che ha i suoi buoni motivi per prestare attenzione a quello che succede fra Europa e Stati Uniti.

La vicenda comincia nei primi giorni di giugno con articoli dei sempre ben informati Wall Street Journal e New York Times. Nel silenzio dell’amministrazione americana il presunto ritiro è un oggetto misterioso. Ne è ignara persino l’Ambasciatrice americana alla NATO, Kay Bailey Hutchison. La questione acquista subito dinamica autonoma. Washington tace, Berlino deve dire qualcosa, Varsavia (non richiesta) alza in fretta la mano per offrire ospitalità, il Segretario Generale della NATO (Jens Stoltenberg) butta acqua sul fuoco. Gli alleati europei, Polonia compresa, si rendono presto conto che Stoltenberg ha ragione, che si rischia di aprire un vaso di Pandora. Quando a mezza voce arriva qualche conferma americana, il caso è già stato sdrammatizzato. Alla “Ministeriale Difesa” del 17-18 giugno il Segretario alla Difesa Usa, Mark Esper, sorvola, il Segretario Generale elegantemente ricorda che l’amministrazione USA ha aumentato e non diminuito la presenza militare in Europa.

Donald Trump incontra truppe americane di stanza in Germania

 

Per il momento. Resta il fatto che, a Washington, il ritiro è stato chiesto. La direttiva impartita dal Presidente al Pentagono è di dimezzare a 25mila il tetto di truppe americane in Germania fra fisse e in transito per altri impieghi. L’attuale tetto è di 50mila, quelle stazionate stabilmente 34.764 secondo gli ultimi dati pubblici del Dipartimento della Difesa. La riduzione a 25mila comporterebbe dunque il rientro di 9.700, più il vincolo per futuri transiti e spostamenti. Il Pentagono sta studiando “opzioni” che dovrà presentare alla Casa Bianca. “Dovrà” perché la contrarietà dei militari americani non è un mistero. Quelli in servizio devono tacere, ma si è subito levata una batteria di critiche di autorevoli “ex”, tutti generali con diretta esperienza del teatro europeo.

L’idea del ritiro non ha nulla di militare o strategico. Nasce in una Casa Bianca che ragiona ormai in termini esclusivamente e rigorosamente elettorali. L’unico orizzonte che conta è quello del 3 novembre. Il semplice annuncio del ritiro in linea con quelli da altri da teatri caldi, in particolare da Siria e Afghanistan, è coerente con quanto Donald Trump ha promesso alla sua “base”.  Gli può portare voti in Stati chiave, magari andando a pescare in qualche ben mirata sacca – ad esempio tra le comunità di origine polacca. Sono calcoli mirati al millimetro che si fanno nelle campagne presidenziali americane: le manciate di voti contano.

Tranne forse qualche rientro simbolico, buono per photo op, è molto difficile che possa effettuarsi in quattro mesi e mezzo. Il Pentagono farà resistenza passiva, il Congresso la farà attiva specie se ci saranno spese da approvare – che ci saranno. Ma l’importante, appunto, non è che il ritiro avvenga, è che il Presidente possa usarlo come carta elettorale. Le opposizioni istituzionali gli possono addirittura fare comodo, tanto i rapporti con Pentagono, Congresso, giudici, sono già al nadir. Questa la trama americana.

Quella transatlantica si ricollega a due costanti della Presidenza Trump: la convinzione che nella NATO gli europei vivano di rendita a spese degli americani; l’antipatia nei confronti della Germania. Il ritiro di un terzo delle truppe attualmente sul suolo tedesco sarebbe un segnale bivalente. Agli europei in genere è un “dovete fare di più da soli”; il messaggio ai tedeschi è “voi non siete più il partner essenziale nella sicurezza europea”, condito poi delle varie controversie commerciali che per questo Presidente contano più della solidarietà strategica.

Per quanto brutale, il primo messaggio è fondato. Potrebbe persino essere salutare se conducesse gradualmente ad un’assunzione di maggiori responsabilità europee nella NATO. Non si tratta solo di spendere di più per la difesa, ancorché sia necessario, ma di essere pronti ad impegnarsi militarmente anche senza gli americani, ad esempio nel nostro vicinato, vedi Mediterraneo e soprattutto vedi Libia. Lo fanno i francesi in Africa ma pochi altri. Il secondo messaggio è devastante. Una rottura strategica fra USA e Germania inciderebbe pesantemente non solo sul piano bilaterale ma sugli equilibri della NATO e sulle relazioni transatlantiche.

Gli europei sono già abbastanza divisi fra loro, sia sulla linea di faglia Est-Ovest sia su quella Nord-Sud, con il Regno Unito di Boris Johnson a ruota libera, e corteggiamenti cinesi e russi di contorno. NATO e Usa hanno fatto sempre da collante europeo. Ostracizzando Berlino e scegliendo fra gli alleati altri partner preferiti, vecchi (Gran Bretagna, Italia) o nuovi (Polonia), Washington getterebbe zizzania fra gli europei e incrinerebbe seriamente l’asse portante transatlantico fra Europa e Nord America, che è unico e non fatto di spezzoni bilaterali.

Un ritiro dalla Germania che anziché riportare le truppe in America, o destinarle ad altri teatri, le redistribuisse fra altri alleati europei condurrebbe verso un divide et impera che si fa con gli alleati non con gli amici. Washington può avere buoni motivi per ridurre e/o redistribuire la propria presenza militare in Europa. Dovrebbe sedersi al tavolo con gli alleati per parlarne. Questo è il “sistema” NATO. Non ha impedito a Washington di effettuare scelte decisive in materia di sicurezza europea ma sempre in un quadro di consultazione multilaterale. La totale mancanza di tale approccio fa del ventilato ritiro una spada di Damocle sul legame transatlantico.

Dall’incrinare la solidarietà alleata alla trama geopolitica il passo è breve. Russia e Cina stanno seguendo attentamente la vicenda non tanto per l’impatto strettamente militare – per ora – ma come cartina di tornasole nei rapporti fra Stati Uniti ed Europa. Lo spostamento di 10mila unità non cambia gli equilibri strategici globali; la discordia in campo alleato, sì, specie se fra americani e europei, e fra europei. Due piccioni con una fava.

Certo, Mosca non vorrebbe veder arrivare militari americani in Polonia, mentre sarebbe lieta di vederli salpare oltre Oceano. Reagirebbe con misure altrettanto se non più robuste, rivendicando la violazione degli impegni del NATO-Russia Founding Act del 1997 che escludevano il “permanente stazionamento di consistenti truppe in assetto bellico” sul versante Est.  Essendo a rotazione, la Enhanced Forward Presence della NATO aggira l’ostacolo, ma non sarebbe così col trasferimento in Polonia di tutte o parte delle truppe USA. A Mosca non farebbe alcuna differenza che la loro presenza sia su base bilaterale americana-polacca anziché alleata. Tanto la Russia considera comunque la NATO “un’estensione della presenza militar americana” sul continente. Il che non riflette la natura composita e politico-militare dell’Alleanza ma è il pensiero degli ambienti militari russi.

Se il ritiro dalla Germania è un trasferimento in Polonia, il risultato netto è un’escalation nei rapporti con la Russia. Al contrario, Pechino naturalmente preferirebbe che le truppe restassero in Europa, o andassero a casa, anziché vederle focalizzate sul teatro del Pacifico. Se necessario, sarebbe però in grado di rispondere, come Mosca, con contromisure militari che mantengano l’equilibrio di forze. Nello scompigliamento la vera carta vincente, sia russa che cinese, sarebbe più politica che militare. Sarebbero le ricadute negative del ritiro americano sulla solidarietà atlantica e le divisioni all’interno dell’Alleanza e dell’Europa.

Sebbene non ci sia stato finora il minimo seguito – ma neanche la minima smentita – la prospettiva di un significativo riassetto della presenza militare USA in Europa, con ritiro di quasi un terzo degli effettivi dalla Germania a destinazione finora incognita, ha mandato un’onda d’urto all’interno e all’esterno della NATO. In quanto frutto dell’agenda elettorale, potrebbe tramontare all’alba del 4 novembre. Non è logisticamente possibile renderla irreversibile prima. Tuttavia l’idea esiste. Le implicazioni sono importanti. Sono state congelate ma devono essere tenute presenti. Questo vale anche per l’Italia: se ridispiegamento ci sarà, auspicabilmente concordato in sede NATO, ci può riguardare e interessare in ottica di fronte Sud.

In tempi di Covid-19 l’attenzione dei governi e, a maggior ragione del pubblico, anche ben informato, è rivolta alle pressanti crisi del giorno, che non mancano. Il ritiro americano dalla Germania è una crisi in prospettiva. Lì per lì ha smosso qualche foglia tedesca e polacca. Alla Ministeriale Difesa della Nato tutti si sono trovati d’accordo a trattarla con una buona dose di bromuro. Il potenziale dirompente sui rapporti transatlantici non si è però dileguato; è solo in sospeso. Dopo il fulmine a ciel sereno, aspettiamo il tuono, sperando che possa recedere in lontananza. Se scoppierà da vicino farà non poco danno.

 

 

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