L’arrivo di milioni di profughi dall’Ucraina ha risvegliato il dibattito sull’immigrazione; una delle grandi questioni non risolte in Europa. Le donne e i bambini ucraini ci ricordano anche la pressione dall’Africa e dal Medio Oriente è tutt’altro che sparita.
Il dibattito politico europeo sull’immigrazione è purtroppo prigioniero di una contraddizione apparentemente insanabile. I fautori di una maggiore apertura hanno due argomenti molto forti. Il primo parla di un obbligo morale; quando si tratta di persone che fuggono da guerre o persecuzioni, l’obbligo diventa addirittura giuridico. Il secondo argomento è economico. L’Europa è avviata a un declino demografico che può essere corretto, forse arrestato, ma non invertito. La piramide demografica si sta pericolosamente squilibrando a favore delle classi d’età più anziane e ciò potrebbe compromettere sia le prospettive di crescita, sia la capacità di finanziare lo stato sociale. Gli studi più seri ci dicono che avremmo bisogno di alcuni milioni di immigrati all’anno per alcuni anni.
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A fronte di questi argomenti in teoria inoppugnabili c’è tuttavia la realtà altrettanto inoppugnabile che una parte non piccola della popolazione, forse addirittura la maggioranza, manifesta vari gradi di reticenza e di opposizione all’immigrazione. Sappiamo che molti argomenti usati dai nemici dell’immigrazione, a cominciare dal pericolo del “grande rimpiazzo” sono scandalosamente falsi. Possiamo però mettere alla gogna personaggi come Meloni, Salvini, Orban, Le Pen, Zemmour, o Farage, ma non possiamo non chiederci quali sono le motivazioni dei milioni di cittadini che si dimostrano sensibili ai loro argomenti. Finché questa contraddizione non sarà sanata la questione dell’immigrazione resterà uno dei nodi più duri dello scontro politico, capace di mettere addirittura in pericolo le nostre democrazie.
Chi è favorevole a una maggiore apertura deve avere il coraggio di integrare nel suo discorso i fattori che condizionano fortemente l’opinione pubblica. Il primo è che in nostri popoli non sono composti da filosofi morali laureati in economia. Gli argomenti etici e razionali non vanno molto lontano se non tengono conto delle emozioni; in primo luogo della questione identitaria che condiziona gran parte dell’agire umano. Questione identitaria che si traduce a seconda dei casi nella reticenza, nella paura se non nel rigetto di chi è considerato “molto diverso”. È una realtà nota e studiata da tutti i neuroscienziati.
Quello di “molto diverso” è un concetto alquanto relativo che, potremmo dire per fortuna, cambia nel tempo e secondo le circostanze. Un secolo fa gli immigrati italiani in Francia erano sicuramente “molto diversi”; lo testimonia il troppo dimenticato massacro di Aigues-Mortes nel sud della Francia, quando nel 1893 un centinaio di immigrati italiani fu linciato con pretesti inesistenti da una folla inferocita. Oggi gli italiani in Francia sono diventati cugini simpatici anche se un po’ disordinati. L’onestà intellettuale ci impone però di ammettere che per molti europei di oggi i mussulmani provenienti dal Medio Oriente o dall’Africa (ma non solo loro) sono incontestabilmente “molto diversi”.
Negare il problema ci impedisce di trovare la soluzione. La questione identitaria non è razionale e può anche essere contraddittoria. Per esempio, fenomeni di rigetto dell’immigrato sono visibili in comunità con tassi di immigrazione estremamente bassi, dove quindi la conoscenza del “diverso” è scarsa ma gioca la paura di un pericolo tanto più grande quanto solo percepito. Si manifestano però anche in comunità dove il tasso d’immigrazione è molto elevato e dove quindi giocano in modo visibile le difficoltà d’integrazione. Anche le cifre sono in sé poco concludenti e abbiamo nei vari Paesi fenomeni di rigetto molto variabili secondo il tasso d’immigrazione reale. È invece molto importante il fattore tempo: i milioni di arrivi che si realizzarono in ondate concentrate nel tempo negli anni 2015-16 hanno sicuramente avuto un ruolo importante nell’amplificare il rigetto degli immigrati.
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L’altro fattore è che gli immigrati non sono macchine che è possibile comprare sul mercato, per poi connettere e disconnettere dal sistema produttivo secondo i bisogni. Sono esseri umani con la loro cultura, le loro aspirazioni le loro debolezze, ma anche il loro desiderio di dignità. È per esempio inevitabile che chi arriva non disponga necessariamente delle competenze di cui il sistema economico ha bisogno. Ancora più importante e evidente, per esempio negli immigrati di religione mussulmana ma non solo, è un sistema di valori non facilmente conciliabile con i nostri. Anche in questo caso, negare il problema non fa che aggravarlo.
Altrettanto pericoloso è sostenere che si tratta di un problema strutturalmente insolubile; si negherebbe così il successo dell’integrazione di milioni di mussulmani. In un mondo ideale avremmo un sistema di immigrazione programmata, concordata con i pasi d’origine che comprenderebbe flussi legali e adeguate formazioni preventive. La realtà è invece che la pressione migratoria, alimentata dalle guerre, dalla povertà e da altri fattori, non è né programmabile, né eliminabile. Bisogna realisticamente sapere che anche l’auspicabile sviluppo di canali legali non eliminerebbe la pressione spontanea dietro la quale peraltro ci sono potenti organizzazioni criminali; anzi, in un primo tempo potrebbe addirittura amplificarla.
La retorica e la demagogia di una parte non indifferente della classe politica di entrambi i lati della barricata hanno fortemente contribuito alla polarizzazione del dibattito. Sarebbe necessaria la creazione di un consenso nazionale su una strategia che isoli gli estremisti di entrambi gli schieramenti. Per essi si intende chi pensa che sia possibile una chiusura totale, come chi promuove un “diritto all’immigrazione”, ma anche chi sembra ritenere possibile la coesistenza di tribù etniche o culturali separate. Per essere credibile questa strategia dovrebbe in primo luogo appoggiarsi su una maggiore trasparenza nella comunicazione da parte delle autorità sulla realtà dell’immigrazione. Per esempio, la grande distanza che separa ovunque le cifre dell’immigrazione reale da quella percepita deve essere superata.
In secondo luogo, bisogna essere coscienti che il rigetto dell’immigrazione è in primo luogo la conseguenza delle insufficienze delle politiche d’integrazione e di accoglienza fin qui praticate rispetto a chi sta già qui, nella parte ricca dell’Europa. È doveroso constatare che tutti i modelli finora applicati, da quello francese basato sull’assimilazione e a quello britannico più multiculturale, hanno mostrato difetti e insufficienze. I risultati sono ovviamente variegati e la distanza è grande fra l’enorme sforzo pubblico dispiegato in Scandinavia e la politica italiana largamente delegata all’iniziativa di associazioni private.
La prima lezione da trarre è comunque che si tratta di un’impresa estremamente costosa e una delle principali responsabilità delle autorità è di spiegare all’opinione pubblica che si tratta di uno sforzo necessario. Tutto inevitabilmente comincia dall’integrazione economica e sociale, quindi dalla scuola e dalla formazione. Una corretta integrazione nel mercato del lavoro, compreso nelle organizzazioni sindacali, serve tra l’altro anche a rispondere alla diffusa per quanto largamente ingiustificata paura degli immigrati “che rubano il nostro lavoro”. Altrettanto importante è la distribuzione sul territorio, la politica urbanistica e evitare la formazione di ghetti. Non è però la sola forma necessaria d’integrazione.
L’integrazione culturale è altrettanto importante. Si potrebbe anche dire che quella economica e quella culturale si condizionano a vicenda. La prova è che i problemi maggiori d’integrazione e i rischi di emarginazione e di radicalizzazione riguardano le seconde e le terze generazioni di immigrati più ancora che le prime. L’integrazione culturale è fatta di riconoscimento di diritti, compreso quello all’accesso alla cittadinanza. Tuttavia nessun diritto può essere automatico se non è accompagnato da doveri.
Una difficoltà spesso sottovalutata è che non ci si può limitare al dovere di rispettare le leggi. Il nostro vivere insieme, ciò che costituisce l’identità, è certo basato sulle leggi ma anche su un gran numero di valori, consuetudini e comportamenti che alla fine costituiscono l’essenza della convivenza. Sarebbe assurdo e anche ingiusto aspettarci che tutte queste regole informali di convivenza si applichino automaticamente agli immigrati; il rispetto dell’identità riguarda anche loro. Ma ce ne sono alcune senza le quali l’integrazione effettiva non è possibile. Gli esempi non mancano: il rispetto della condizione femminile sia all’interno delle comunità d’immigrazione e nei confronti delle donne europee, oppure il ruolo essenziale che il rigetto dell’antisemitismo riveste nella coscienza degli europei; oppure ancora la laicità dello Stato e la democrazia come esercizio di libertà e di tolleranza e non solo come momento elettorale. È in questa ottica che vanno valutate delle polemiche su usi vestimentari come “burkini” e velo islamico, apparentemente solo simboliche ma cariche invece di significati politici; la posta in gioco è chi esercita il potere all’interno delle comunità immigrate.
La difficoltà di questo processo non può e non deve essere sottovalutata. Richiede un gusto dosaggio di fermezza e di pragmatismo; due virtù spesso difficili da conciliare da parte delle autorità politiche. Comunque nulla di veramente duraturo può succedere senza l’intervento attivo di corpi intermedi, compresi quelli all’interno delle comunità di immigrati. È infine fondamentale essere coscienti e spiegare all’opinione pubblica, che si tratta di un processo non solo costoso ma anche lungo e inevitabilmente graduale.
“Lungo e graduale” implica che anche la piena accettazione della necessità dell’immigrazione da parte dei nostri cittadini sarà lunga e graduale. Ne consegue che l’opinione pubblica ha bisogno di essere rassicurata sul fatto che le frontiere non sono troppo porose e che le autorità mantengono una possibilità di controllo sui flussi in entrata. Anche questa non è una strategia facile. Da un lato essa richiede l’impegno che flussi massicci e improvvisi come quelli citati pocanzi non si ripeteranno. Dall’altro richiede il coraggio di spiegare che nessuna frontiera può essere stagna, particolarmente quelle marittime, che i rimpatri forzati sono costosi e richiedono complessi negoziati internazionali e che sia i respingimenti, sia gli accordi con i paesi di transito devono tener conto della necessità di rispettare i diritti umani. Resta il fatto che l’opinione pubblica accetterà i costi dell’integrazione e l’inevitabilità di una certa dose di flussi fisiologici solo se avrà la garanzia che le regole sono applicate con serietà e con rigore.
Ci si deve infine chiedere quale può essere il ruolo dell’Unione Europea. Le regole europee, a cominciare dal regolamento di Dublino (che risale a fine anni ’90 e la cui ultima iterazione è in vigore dal 2014), sono sicuramente obsolete. Tuttavia il dibattito europeo si è fossilizzato a lungo sulla questione della ripartizione dei flussi. L’idea di una ripartizione obbligatoria, nata come questione di solidarietà verso i paesi di ingresso, si è rivelata impraticabile come misura sistematica perché non c’è nell’UE nessun paese di cui si può ragionevolmente dire che abbia una grande capacità di accoglienza non utilizzata. La ripartizione può invece essere utile in situazioni di emergenza oppure come elemento di flessibilità per tener conto di esigenze individuali o famigliari per cui un’applicazione eccessivamente rigida delle regole diventerebbe solo un incentivo alla loro violazione.
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L’UE può invece avere un ruolo importante nel controllo delle frontiere attraverso il rafforzamento di Frontex e nel negoziato con i paesi di provenienza e i paesi di transito. Bisogna però che i paesi d’ingresso accettino che ciò implica un certo grado di condivisione di sovranità. Poco invece può fare l’Europa sulla questione più importante, che è quella dell’integrazione di chi sta già qui. Scambi di esperienze e forse qualche aiuto finanziario mirato possono essere utili, ma i contesti storici, culturali e sociali in cui si verifica l’integrazione sono troppo diversi per permettere una vera politica armonizzata. Dopo anni di malintesi e di recriminazioni, con le ultime proposte della Commissione il negoziato europeo sembra avviato su basi più solide, ma le difficoltà permangono anche perché il dibattito europeo è anch’esso prigioniero della guerra ideologica che spesso caratterizza quello nazionale.
L’eccezionale afflusso di profughi provocato dall’aggressione russa all’Ucraina ha condotto a una manifestazione altrettanto eccezionale di solidarietà in tutta Europa. Resta da vedere se questa solidarietà espressa verso persone “non tanto diverse” da noi faciliterà il dibattito più generale o renderà la discussione sulla pressione, anch’essa destinata ad aumentare, dall’Africa e dal Medio Oriente ancora più difficile.