Dopo un anno, l’Ucraina in uno stallo sanguinoso

La notte tra il 23 e il 24 febbraio dell’anno scorso Kiev è stata svegliata da una potente esplosione. Poco dopo una sirena ha iniziato a ululare insistentemente: era l’inizio della guerra. Intanto, a centinaia di chilometri di distanza, nell’est dell’Ucraina, i carri armati russi oltrepassavano il confine nella regione di Kharkiv, puntando sulla seconda città del Paese.

Da quelle ore fatidiche è trascorso un anno esatto e un “cessate il fuoco” resta ancora un miraggio. Milioni di ucraini sono diventati profughi sparsi per l’Europa e per chi è rimasto le condizioni di vita si aggravano progressivamente. Soprattutto per quanti vivono nei pressi dei fronti aperti, nell’est e nel sud del Paese. Villaggi e città da mesi al buio, senza né acqua corrente né riscaldamenti, in una stagione in cui il termometro arriva anche a segnare -15°. La vita quotidiana per queste persone si è trasformata in un’interminabile attesa tra un bombardamento e l’altro e i giorni si ripetono uguali in attesa degli aiuti umanitari. Di giorno si esce alla ricerca di legna (rami secchi, resti di arredi di negozi o delle case bombardate), che poi verrà bruciata nelle stufe o nei bracieri di fortuna montati nei rifugi. Con il fuoco ci si scalda, si cucina e si cerca di fare un po’ di luce quando le batterie delle torce si esauriscono. Eventualità che si verifica abbastanza spesso e spinge i civili ad assediare chiunque arrivi da fuori per qualche pila che gli permetta di illuminare le lunghe notti invernali durante i bombardamenti. Fuori dai rifugi, tra un palazzo e l’altro, i reparti di militari ucraini che presidiano le postazioni di artiglieria o si riposano in attesa di essere dislocati nelle trincee al fronte si occupano di manutenere i mezzi militari, di tenere il campo in ordine ed effettuano rapide incursioni con i semoventi per colpire i nemici nel loro raggio d’azione.

Del resto, la mobilità non è certo la caratteristica principale del fronte orientale. Si consideri che le posizioni sul campo di battaglia sono pressoché invariate da metà ottobre scorso e, nonostante le truppe ucraine siano in affanno, la controparte non riesce a sfondare. Gli scontri si sono concentrati nello spazio di pochi chilometri su un fronte che sulla carta si estende da Vuhledar ai confini con Kharkiv. Dalla conclusione della controffensiva ucraina che in autunno ha portato alla liberazione di vaste zone di territorio occupato a Kharkiv e nel Donbass le battaglie si sono trasformate in uno stillicidio di brevissime avanzate e improvvisi riposizionamenti. A eccezione di Soledar, che i russi hanno conquistato a inizio gennaio, lo stato maggiore di Mosca non riporta vittorie da tempo e la necessità di esibire trofei in patria cresce con l’affievolirsi dell’entusiasmo dell’opinione pubblica interna.

Un mezzo corazzato distrutto e bloccato dal ghiaccio in Ucraina

 

Eppure sono in molti a ritenere che i generali russi abbiano dato l’ordine di avanzare. Diversi media occidentali, i centri studi americani e persino l’intelligence britannica scrivono della nuova offensiva russa che sarebbe già iniziata senza mai omettere di sottolineare gli scarsi successi che tale manovra sta ottenendo. Dal campo, tuttavia, non si raccolgono evidenze di un’avanzata massiccia e coordinata, anche se la situazione si può definire tutt’altro che statica. Il fatto che la fanteria non conquisti nuove posizioni non vuol dire che l’artiglieria non insista contro le postazioni difensive nemiche.

Al momento i bersagli delle forze russe si concentrano in un quadrante di poche decine di chilometri, tra Chasiv Yar, Bakhmut, Siversk, Krasna Hora e Vuhledar. L’importanza di tali centri, per lo più villaggi, è relativa alla conquista del vero obiettivo designato, ovvero Bakhmut. Resistere in quest’area sta costando moltissimo all’Ucraina in termini di vite umane e di armamenti. Il risvolto evidente è che senza conquistare Bakhmut i russi non riescono a progredire. Si consideri anche che gli invasori stanno tentando uno sfondamento nell’area di Kreminna e se dovessero riuscirci si aprirebbe una nuova direttrice di avanzamento verso Kramatorsk e Slovjansk, le due fortezze designate del Donetsk controllato dagli ucraini. Ma a Kramatorsk dallo scorso autunno arrivano uomini e mezzi, intorno alla città si sono scavate trincee e costruite fortificazioni, conquistarla non sarebbe un’impresa semplice. Soprattutto se i militari russi non dovessero riuscire a prendere le alture intorno, come Lyman, che permetterebbero di tenere sotto tiro i reparti ucraini. L’alternativa, in quest’area, è che le truppe russe proseguano verso sud-est per dare supporto alle truppe impegnate a Bakhmut e prendere gli ucraini alle spalle. Ma si tratta di ipotesi, plausibili in teoria ma subordinate alla prova della realtà. La quale, finora, non ci ha mostrato un esercito russo in grado di compiere offensive irresistibili e sbaragliare così gli ucraini.

 

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Del resto, già due settimane fa si leggeva dell’accerchiamento di Bakhmut, del fatto che agli ucraini fosse rimasta essenzialmente solo una via d’uscita. Il che è tecnicamente vero dato che al momento si entra solo da Chasiv Yar, ma non indica che le forze di Mosca stiano cingendo d’assedio Bakhmut. Semmai il tentativo è quello di chiudere in una morsa il centro urbano per evitare che gli ucraini possano ricevere rinforzi e siano costretti a ritirarsi per la mancanza di munizioni e rifornimenti. Tuttavia, sono indicativi per comprendere l’andamento delle operazioni militari in quest’area i casi di due centri: Vuhledar e Krasna Hora. Il ministero della Difesa russo due settimane fa aveva annunciato l’ingresso a Vuhledar, molto più a sud dei villaggi sopracitati e utile soprattutto per tentare di prendere alle spalle Bakhmut. Meno di 72 ore dopo le forze armate ucraine sono riuscite a riconquistare terreno prezioso con una sortita vittoriosa. Stesso copione a Krasna Hora, nelle immediate vicinanze di Bakhmut.

Ciò non vuol dire che l’esercito russo stia fallendo. Molto lentamente gli avamposti dell’invasore intorno alla città guadagnano metri fino a farla sembrare chiusa in un sacco. Lo scorso fine settimana gli ucraini hanno tentato almeno due operazioni per tentare di ricacciare indietro i nemici nella zona nord-ovest e sembra che almeno una di queste sia andata a buon fine in quanto, stando alle mappe satellitari, lo schieramento russo è stato costretto ad arretrare. Ma si tratta, come scrivevamo in precedenza, di poche decine di metri, a volte di casolari o alture strategiche in un paesaggio lunare di campi bruciati dalle esplosioni delle bombe e poi gelati. Il capo della brigata di mercenari Wagner, Evgeny Prigozhin, sostiene di aver bisogno di più munizioni, che il ministero della Difesa non gli starebbe fornendo. È lo stesso personaggio che aveva provato a intestarsi la vittoria a Soledar e che aveva dichiarato, a inizio febbraio, che «non ci sono ancora le condizioni per assediare Bakhmut, la fanteria non potrebbe entrare al momento». Ma i dissapori tra la Wagner e le truppe regolari di Mosca sono noti e le critiche di Prigozhin ne segnano solo un nuovo atto. Ciò non implica il fatto che nei prossimi giorni lo stato maggiore di Kiev non decida una ritirata strategica oppure le forze russe non riescano a sfondare su uno dei lati più deboli delle difese.

E poi cosa accadrebbe, si chiedono in molti. Bakhmut è davvero così fondamentale per le sorti della guerra? No, ma affermare che è ininfluente è falso. Se la scorsa estate, quando l’offensiva russa stava funzionando e le truppe di Mosca erano riuscite a conquistare più del 60% del Donetsk oltre all’intero Lugansk (le due regioni che geograficamente costituiscono il Donbass) si riconosceva un forte valore strategico a questo luogo, ora la situazione non può essere cambiata. La sua posizione rialzata e la possibilità di controllare il crocevia che dal Donetsk separatista porta a Kramatorsk e verso l’interno del territorio ucraino, restano una priorità tattica per il progetto di occupazione russa in quest’area. Inoltre, tale battaglia è ormai connotata da un forte valore simbolico che non aspetta altro di trasformarsi in trofeo. Una vittoria per gli invasori, un’eroica resistenza per Kiev.

Tornando alla questione più ampia della cosiddetta «offensiva su larga scala» che Mosca starebbe preparando, dal punto di vista puramente tattico ha senso che le forze armate russe tentino di sfondare le difese prima che i Leopard 2 e i nuovi pacchetti di armi arrivino in Ucraina. Il che dovrebbe accadere più o meno a inizio aprile, secondo i vari ministri dei governi coinvolti. Il Cremlino ha tutto l’interesse ad attaccare in forze prima che la controparte abbia strumenti più potenti per difendersi. Inoltre, si sa che al confine russo (o nelle aree controllate dai separatisti) ci sono tra le 60 e le 200 mila reclute russe in attesa di essere schierate. Potrebbero essere inviate in parte sul fronte del Donbass e in parte al sud per consolidare il controllo della linea costiera (o addirittura per tentare un improbabile assalto a Zaporizhzhia) oppure tutte in Donbass. Ma per muovere colonne chilometriche di uomini e mezzi servono settimane e con le attuali condizioni climatiche il terreno non permette questo tipo di manovre. Il rischio che i mezzi sbandino e si impantanino e che la lentezza della manovra sia sfruttata dall’artiglieria ucraina per attacchi devastanti è troppo alto.

 

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Nell’attesa di capire effettivamente cosa accadrà sui campi di battaglia, gli alleati dell’Ucraina continuano a dichiarare urbi et orbi sostegno al governo di Kiev e il soggetto principale delle conferenze internazionali restano le forniture militari. Tuttavia, nelle zone vicine al fronte i civili ucraini rimasti continuano a pagare il prezzo più alto per la resistenza all’invasione e, a un anno di distanza, la disillusione ha preso il posto della speranza.

 

 

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