L’anno in corso sarà dirimente per il completamento delle riforme del settore finanziario in Europa. La crisi dei debiti sovrani e quella finanziaria hanno avuto un effetto negativo prolungato sugli investimenti pubblici e privati nel vecchio continente: nel 2015, gli investimenti fissi lordi erano ancora il 15% più bassi che nel 2007. La commissione guidata da Jean-Claude Juncker ha adottato una triplice strategia per rilanciarli. Per prima cosa, rafforzare il settore bancario liberandolo dal peso dei debiti nazionali, con la cosiddetta Unione bancaria; poi, convogliare risorse sugli investimenti direttamente attraverso la Banca Europea degli Investimenti (BEI), con il “Piano Juncker”; infine, creare un mercato europeo integrato per i capitali, la cosiddetta “Capital Market Union”.
Il settore finanziario europeo poggia soprattutto sulle banche, e la comparazione congli Stati Uniti può essere istruttiva: solo il 25% di tutti gli strumenti di debito sono finanziati da istituti non bancari, contro l’80% negli Stati Uniti; oltre l’80% delle piccole e medie imprese (PMI) europee fanno affidamento sul credito bancario, contro il 50% di quelle americane; e la capitalizzazione totale del mercato negli Stati Uniti è pari al 116% del Pil, contro il 69% dell’Unione Europea (media 2008-2014). In più, le PMI europee operano su mercati azionari essenzialmente nazionali, e ciò le limita ulteriormente nella raccolta di finanziamenti. Questi dati strutturali condizionano in misura significativa le possibilità di un rilancio della crescita. I mercati finanziari europei e statunitensi sono, e resteranno, molto diversi, a partire dal ruolo del dollaro come valuta di riserva globale; tuttavia, si può fare molto in Europa per rendere più dinamico il settore.
Nel settembre 2015 la Commissione ha fatto circolare un piano d’azione dettagliato per l’armonizzazione normativa e la promozione dei finanziamenti transnazionali, con l’obiettivo – più che di ridurre in generale la quota del finanziamento delle banche alle imprese – di incoraggiare l’accesso ad altre forme di finanziamento. Il progetto della “Capital Markets Union”, affidatoal Commissario Jonathan Hill, include una serie di iniziative: soprattutto, nuove regole per garantire il passaggio di titoli da istituti finanziari a terze parti, generando nuove capacità di prestito senza creare rischi sistemici, e la creazione di una nuova categoria di asset (i cosiddetti Solvency II) su misura per il finanziamento delle infrastrutture. È stata anche aperta una consultazione su come armonizzare al meglio le modalità di finanziamento dell’avvio d’impresa, la regolamentazione delle vendite azionarie non pubbliche (private placement), il calcolo dei profitti in relazione alle tasse e il trattamento delle obbligazioni garantite (covered bonds).
Nonostante l’impegno della Commissione su questi fronti, l’ambizione di tali iniziative resta poco chiara– anche perché alcune delle questioni più delicate, come l’armonizzazione delle leggi sulla bancarotta o gli standard di contabilità per le PMI, non sono state toccate. L’armonizzazione della normativa sulla bancarotta, ad esempio, ridurrebbe sensibilmente i costi e l’incertezza degli investimenti in tutta Europa; ma molti paesi restano determinati a proteggere le particolarità del loro sistema, come nel caso delle garanzie ai debitori.
Per quanto riguarda il “piano Juncker”, il suo scopo resta quello di materializzare 315 miliardi di euro per gli investimenti in tre anni, trasferendo le iniezioni bancarie della BCE (il Quantitative Easing) nell’economia reale. Si tratta di una quantità di liquidità così alta che alcuni analisti la reputano però irraggiungibile.
Quanto al progetto di Unione bancaria, ha incontrato dall’inizio forti resistenze, nonostante il grande sostegno politico ufficiale di cui gode al livello dei vertici governativi. Effettivamente, a differenza della Capital Markets Union che riguarda soprattutto l’armonizzazione delle regole, l’Unione bancaria implica la messa in comune dei rischi e delle risorse, e punta a rompere i legami tra le banche e i governi nazionali. Dal gennaio 2016 gli investitori sono chiamati a pagare il conto dei fallimenti bancari prima dei governi (il controverso meccanismo del “bail in”). Due dei pilastri dell’Unione bancaria sono già operativi: un unico supervisore, e un’unica autorità europea per il salvataggio delle banche in difficoltà. Il terzo pilastro, la creazione di un sistema europeo di garanzia dei depositi, dovrebbe entrare in vigore gradualmente nei prossimi mesi.
Il senso economico di questi provvedimenti è chiaro, ma sono diversi gli ostacoli politici che rimangono da superare: gli stati europei saranno davvero disposti a condividere rischi, responsabilità e costi?
All’indomani dell’accordo sul debito greco di qualche mese fa, il governo tedesco si dichiarò indisponibile aqualsiasiulteriore mutualizzazione del rischio: nessuna nuova passività contabile deve pesare sull’UE prima che le banche vengano riformate e riducano la loro esposizione ai debiti nazionali. In particolare, la Germania vuole essere sicura che tutti gli investitori paghino ii costi dei fallimenti prima che questi finiscano sul bilancio degli stati, che le banche abbiano maggiori riserve, e che le nuove regole garantiscano completamente le banche dal rischio dei debiti dei singoli paesi.In altre parole, i titoli di stato non sono più considerati risk free nel bilancio delle banche.
Il Regno Unito è l’elemento decisivo per il successo della Capital Markets Union. Come indiscusso centro della finanza in Europa, il Regno Unito guadagnerà più degli altri da un’integrazione più profonda dei mercati dei capitali – se resta nell’Unione Europea. L’armonizzazione degli standard di contabilità, delle regole di garanzia e delle pratiche di finanziamento all’avviodiun’impresa offrirebbe nuove occasioni alla City di Londra. Il governo britannico ostacola però ogni tentativo verso una regolazione europea, ad esempio sulle società di revisione. Un maggiore accentramento normativo europeo potrebbe non piacere ai Tory del primo ministro David Cameron, ma farebbe gli interessi della finanza inglese; gli ultimi anni ci insegnano che è praticamente impossibile armonizzare le regole dei servizi finanziari senza accentrare allo stesso tempo i poteri normativi e di controllo.
In breve, tre fattori influiranno sull’agenda delle riforme finanziari europee dei prossimi mesi. Per cominciare, il referendum sulla permanenza inglese nell’UE. L’uscita del Regno Unito avrebbe conseguenze negative sulla crescita economica e sui flussi di capitale: non solo sarebbe la pietra tombale sulla Capital Markets Union – su cui lavora proprio un Commissario britannico, – ma chiuderebbe anche le porte d’Europa al settore finanziario inglese, proprio nel momento incui il continente ne avrebbe più bisogno.
In secondo luogo, bisogna tener conto del processo di consolidamento del sistema bancario. Un controllo più forte da parte della Banca Centrale Europea e una rapida applicazione delle nuove regole potrebbero consentire di superare le perplessità tedesche sul sistema comune di garanzia dei depositi.
Infine, molto dipenderà dalla capacità dei governi europei di proiettarsi nel lungo periodo, piuttosto che concentrarsi sugli ostacoli di breve termine. Italia e Francia continuano a chiedere più flessibilità di bilancio per rilanciare gli investimenti, disinteressandosi in sostanza della Capital Markets Union. Questo è un errore. Nel medio-lungo periodo, il mercato unico dei capitali beneficerà molto di più l’economia reale di quanto possa fare qualche punto extra di deficit pubblico. Per tornare a crescere servono profondi investimenti nel sistema industriale e in quello finanziario: i governi possono e devono guidare il processo con le proprie risorse, ma la parte più consistente della torta non potrà che arrivare dai capitali privati.