Quello per rinnovare il parlamento britannico è stato un voto senza troppo entusiasmo. La partecipazione si è fermata al 60%, il 7,4 in meno rispetto al 2019. Il partito più votato, i Laburisti guidati da Keir Starmer, ha avuto 9,7 milioni di voti, il 33,8%. Un numero magro, come fa puntigliosamente notare la sinistra del partito, rispetto ai casi più recenti: negli ultimi anni i vincitori delle elezioni britanniche hanno sempre superato la soglia dei 10 milioni di voti: 14 milioni per Boris Johnson nel 2019, 13,6 milioni per Theresa May nel 2017, 11,3 e 10,7 milioni per David Cameron nel 2015 e nel 2010. Il Labour di Starmer ha preso anche meno voti dello sconfitto Labour di Jeremy Corbyn, che ne ottenne 12,8 milioni nel 2017 e 10,3 milioni nel 2019.
Nonostante un consenso tutt’altro che largo, Starmer avrà a sua disposizione una maggioranza parlamentare larghissima. Da questo punto di vista, la sua vittoria è storica: Starmageddon, l’hanno chiamata. I laburisti, con un terzo dei voti, avranno due terzi dei seggi: 412 su 650. Una distorsione enorme, dovuta alle regole del sistema elettorale britannico: il Paese è diviso in singoli collegi, ognuno dei quali elegge un deputato, a turno unico, senza ballottaggio. La presenza di tanti partiti a destra dei laburisti, i LibDem, i Tory, e l’ultimo arrivato Reform di Nigel Farage, ha fatto sì che il candidato laburista fosse in testa nella stragrande maggioranza dei collegi: persino nella City di Londra, o tra i ricconi di Kensington, o in tante zone della campagna inglese, conservatrici da sempre. Ma lungi dal facilitare le cose, questa dinamica tra ampia maggioranza e scarsa rappresentanza renderà molto più delicate le future scelte politiche di Starmer.
Questa vittoria, storica dunque nella proporzione dei seggi, ma non nei voti, chiude un (quasi) quindicennio di potere ininterrotto dei Conservatori, che hanno avvicendato alla guida del governo dal 2010 David Cameron, Theresa May, Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak. Un periodo accompagnato all’inizio da uno stato d’animo ottimista – le Olimpiadi di Londra del 2012, la sconfitta dell’indipendentismo scozzese nel referendum del 2014… – ma chiuso nella direzione opposta: delusione generale per la Brexit, crisi con l’Irlanda del Nord, crisi sociale dilagante, e una successione spaventosa di scandali e inciampi politici.
Il panorama politico restituito da queste elezioni è piuttosto plurale, almeno per gli standard britannici. Una pluralità che è visibile a malapena in parlamento, ma lo è stata molto di più nei singoli collegi e a livello nazionale. I Conservatori dell’uscente Sunak hanno ottenuto il 23,7% dei voti e 121 seggi: un tracollo, rispetto al 2019, più della metà dei voti persi. E tanti seggi storici, che reggevano da più di un secolo, sfumati: come quello della Waveney Valley, ameno paradiso rurale tra Suffolk e Norfolk, che li ha traditi per un Verde. Ma i Tory hanno salvato qualcosa d’importante, nel crollo del loro edificio politico che qualcuno pronosticava catastrofico come quello della biblioteca del Nome della Rosa: sono rimasti il secondo partito del Paese.
Non era così scontato: alla loro destra, il neonato partito del campione della Brexit Nigel Farage ha ottenuto 4 milioni di voti (il 14,3%) – ma soltanto 4 seggi: è rimasto a distanza di sicurezza dai Conservatori, che minacciava apertamente di inglobare, e ha persino contribuito a indebolire il successo di Starmer, dato che molti dei suoi consensi vengono dalle zone socialmente più emarginate, vicine al Labour. Alla sinistra dei Tory, invece, i Liberal-Democratici si fermano a 3 milioni e mezzo di voti (12,3%), meno di Reform ma abbastanza per imporsi in molti più collegi, dato che eleggono 71 deputati. Infine i Verdi, coi loro 2 milioni di voti, passano da 1 a 4 deputati.
In Scozia, va registrato il tracollo del partito ormai al potere da due decenni. Quello Scottish National Party che dopo aver perso il primo chiedeva a gran voce un secondo referendum sull’indipendenza, perché nel frattempo, dopo il primo, il Regno Unito è uscito dalla UE. Evidentemente una richiesta ritenuta poco credibile dall’elettorato locale, che ha tolto all’SNP quasi la metà dei suoi voti: a Westminster gli scozzesi avranno 9 seggi, contro i 46 che occupavano nel parlamento uscente. La differenza è andata quasi tutta a vantaggio dei Laburisti, mai così forti da quelle parti dai tempi del duo Tony Blair – Gordon Brown, uno di Edimburgo e l’altro di Glasgow.
L’Irlanda del Nord riserva un’altra amarezza a Londra, dopo la vittoria storica dei cattolici repubblicani (“amici” di Dublino) nel voto locale del 2022: il Sinn Féin si conferma il partito vincitore sia in termini di voti che di seggi (7). Le formazioni filo-britanniche pagano la loro frammentazione, e tra loro viene sconfitta quel DUP (Democratic Unionist Party) che fu la stampella del governo post Brexit referendum di Theresa May nel 2017, che non aveva la maggioranza. Quell’esecutivo naufragò comunque, ma la leader Arlene Foster ricevette, a testimonianza della gratitudine dei Tory, il titolo di “Baroness Foster di Aghadrumsee”, e un seggio alla Camera dei Lord nel 2022.
Nel voto del 4 luglio è emersa anche una piccola ondata di candidati pro-palestinesi, indipendenti di sinistra critici della posizione laburista su Gaza, giudicata troppo morbida, se non “complice di Israele”. Tra loro spicca Jeremy Corbyn, l’ex leader sospeso dal partito perché accusato di “averne sottovalutato l’antisemitismo”: si è ripresentato nel “suo” collegio londinese di Islington North, dove gli elettori l’hanno trionfalmente (49,2%) riportato in parlamento. Come lui, su piattaforme pro-Palestina sono stati eletti – superando candidati laburisti – Iqbal Mohamed a Dewsbury and Batley, Adnan Hussein a Blackburn, e soprattutto Shockat Adam a Leicester South, contro Jonathan Ashworth, il coordinatore della campagna di Starmer. Tutti e tre sono collegi a forte componente musulmana. Altri candidati , tra cui la 23enne anglo-palestinese Leanne Mohamed che non ce l’ha fatta per 500 voti a Londra Est, sono stati sconfitti.
Nel suo “discorso della vittoria”, il nuovo Primo Ministro ha annunciato che il Regno Unito sarà “ricostruito”, e che i cambiamenti inizieranno da subito – ma con stabilità e moderazione. “Non sarà come spingere un interruttore”, ha avvertito Starmer, conscio delle grandi aspettative e delle altrettanto grandi perplessità che lo circondano.