COP 28: “EAU Consensus” come quadro in chiaroscuro

La 28ª Conferenza delle Parti (COP 28) – riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) – si è svolta dal 30 novembre al 13 dicembre 2023 a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti (EAU).

Una delle immagini ufficiali della COP28

 

“Unico forum decisionale multilaterale al mondo sui cambiamenti climatici con un’adesione quasi completa di tutti i paesi del mondo” (i firmatari, al 2022, sono arrivati ad essere 198), questa COP è stata sia una delle più partecipate, dati i suoi oltre 97.000 partecipanti, sia una delle più attenzionate di sempre: anche perché la sua organizzazione ha generato molti timori di greenwashing.

Svolgendosi in uno dei principali Paesi produttori ed esportatori di combustibili fossili, ha infatti dato parecchio spazio all’influenza delle petromonarchie del Golfo Persico. Non è stata casuale la nutrita presenza di lobbisti dei combustibili fossili, 2.456 – anche se comunque è il primo anno che le Nazioni Unite obbligano i partecipanti a dichiarare quale entità rappresentano. Nutrita perché, per intenderci, ha superato il totale complessivo dei delegati (1.609) provenienti dai 10 Paesi più vulnerabili dal punto di vista climatico, tra cui Somalia, Ciad, Tonga, Isole Salomone e Sudan.

Comunque, è stata la presidenza della conferenza a suscitare le maggiori preoccupazioni per un mancato impegno nella lotta al cambiamento climatico. Era stata infatti assegnata a Sultan bin Ahmed Al Jaber, ministro dell’Industria e della Tecnologia Avanzata degli EAU ma anche CEO dell’azienda petrolifera statale, ADNOC – (Abu Dhabi National Oil Company) e dell’azienda statale di energie rinnovabili, Masdar.

Questa attenzione, nei giorni precedenti alla conferenza, ha condotto BBC News e Center for Climate Reporting – un’organizzazione senza scopo di lucro specializzata in giornalismo investigativo e focalizzata sul cambiamento climatico – a pubblicare un reportage secondo cui gli EAU avrebbero voluto utilizzare il ruolo di Paese ospitante della COP 28 per concludere accordi “segreti” su petrolio e gas. Nonostante ciò, Al Jaber ha ribattuto che si sarebbe impegnato a mantenere, durante la Conferenza, una posizione neutrale. Tuttavia, alla presentazione del testo finale della COP 28 Al Jaber non è riuscito nel suo intento in quanto ha definito l’inserimento nero su bianco della necessità di abbandonare le fonti fossili una “pietra miliare” nella lotta ai cambiamenti climatici. Tuttavia, questa nuova terminologia non è affiancata da vincoli applicativi; si ritiene dunque che la presidenza emiratina al vertice sia stata gestita da Al Jaber più per porre gli EAU come Paese capace di mediare sul piano internazionale in tematiche molto sensibili, che per effettivamente promuovere azioni atte a contrastare concretamente il cambiamento climatico.

Le Conferenze delle Parti si svolgono ogni anno in un Paese ospitante diverso, al fine di garantire una rappresentanza equa ai firmatari del Trattato. Le COP durano, in teoria, due settimane; in pratica, molto spesso finiscono in ritardo. Anche quest’anno la Conferenza è durata un giorno in più del previsto.

Il motivo è che le decisioni alla COP vengono prese attraverso il metodo del consensus che presuppone il principio di “una testa un voto”. In tal modo è più difficile trovare intese sui negoziati, in quanto se una parte non è d’accordo con le trattative, la discussione si riapre. Questo è l’elemento che rende la COP l’unico forum, a livello internazionale, realmente multilaterale perché, attraverso questo metodo, anche i Paesi minori hanno una voce importante.

 

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La COP, quindi, funziona come un organismo decisionale supremo dell’UNFCCC, con il mandato di valutare i progressi compiuti dal Trattato. Nello specifico, ha il compito di “esaminare l’attuazione della Convenzione, del Protocollo di Kyoto e dell’Accordo di Parigi; e adottare decisioni per sviluppare e attuare ulteriormente questi tre strumenti”.

Questi tre strumenti sono stati sviluppati in tempi diversi, per cui sono anche utili per ripercorrere la storia dell’evoluzione delle COP. Il primo strumento citato è proprio la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici – stipulata a Rio de Janeiro, nel 1992, durante la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNCED) – con cui si è prodotto il primo accordo internazionale in materia ambientale e si sono istituite le COP: tre anni dopo, nel 1995, si è tenuta la prima Conferenza delle Parti a Berlino. Quell’accordo mirava a stabilizzare le concentrazioni atmosferiche di gas serra, a un livello tale da prevenire interferenze antropogeniche pericolose con il sistema climatico terrestre: tuttavia, è stato firmato senza essere legalmente vincolante.

E’ questo il motivo per cui la Convezione è stata poi aggiornata prima con il Protocollo di Kyoto  (approvato durante la COP 3, nel 1997) che ha reso gli impegni per il clima legalmente vincolanti, e poi con l’Accordo di Parigi (ratificato durante la COP 21, nel 2015) con cui, invece, si “mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici, nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi volti a eliminare la povertà”, attraverso tre pilastri: mitigazione, adattamento e mezzi di attuazione.

In particolare, attraverso il pilastro della mitigazione, le Parti hanno deciso di impegnarsi a mantenere l’aumento (rispetto ai dati del 1990) della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi e il più possibile vicino al 1.5° C, attraverso attività, come, in particolare, la promozione delle fonti rinnovabili di energia. Per quanto riguarda l’adattamento, invece, le Parti hanno stabilito azioni utili ad incrementare la resilienza delle comunità e delle infrastrutture dei Paesi maggiormente vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici, grazie ad esempio alla costruzione di barriere per contrastare l’innalzamento del livello del mare.

Sui mezzi di attuazione, l’Accordo prevede delle azioni atte a promuovere flussi finanziari coerenti con il percorso di mitigazione e di adattamento: questo pilastro, in effetti, viene più spesso riportato nelle varie analisi proprio con il termine “finanziamento”, anziché “mezzi di attuazione”.

Oltre a ciò, l’Accordo di Parigi prevede una valutazione periodica dell’azione globale per il clima al fine di facilitare la valutazione dei progressi in corso e spingere per impegni più forti, chiamata Global Stocktake (GST). Il “bilancio globale” è composto dagli Nationally Determined Contributions (NDC) che consentono di valutare e confrontare se gli sforzi per ridurre le emissioni di carbonio di ciascun Paese firmatario della Convenzione sono allineati con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

Il bilancio viene prodotto ogni 5 anni. Essendo stato introdotto nel 2015, durante la COP 21, il primo GST doveva iniziare la propria procedura nel 2020. A causa della pandemia è stato posticipato al 2021 – è stato quindi avviato durante la COP 26 – e si è concluso nel 2023, proprio durante la COP 28, coincidendo così con il documento finale della Conferenza. Per questo è stato rinominato “EAU Consensus”.

Il Segretario esecutivo dell’UNFCCC Simon Stiell e Sultan Al Jaber, Presidente della COP 28 e Ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate degli Emirati Arabi Uniti.

 

Approvato con un giorno di ritardo, visti gli interessi contrastanti delle Parti, il primo GST ha innanzitutto riconosciuto che siamo indietro nella tabella di marcia rispetto agli obiettivi prefissati dall’Accordo di Parigi.

Per ciò che concerne la mitigazione, il GST nota che per limitare il riscaldamento globale entro i limiti dell’Accordo di Parigi, bisogna ridurre (rispetto ai dati del 2019) le emissioni di gas serra del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035. Questo perché il Rapporto di Sintesi 2023 dell’IPCC (l’ormai famoso Intergovernmental Panel on Climate Change) sostiene che se gli impegni prefissati negli NDC dalle Parti dovessero rimanere “quelli precedenti la COP 26, l’aumento della temperatura entro fine secolo potrebbe sfiorare i 3 °C di anomalia”. L’IPCC – è l’organismo delle Nazioni Unite preposto alla valutazione scientifica dei cambiamenti climatici, che riflette un delicato consenso in parte tecnico-scientifico e in parte politico-diplomatico, visto che si tratta di un gruppo di scienziati ma con un’impronta formalmente “intergovernativa”.

A questo scopo, il GST sottolinea perciò la necessità di: triplicare le energie rinnovabili; triplicare il nucleare (che entra per la prima volta grazie a Francia, Stati Uniti e EAU in un testo COP, anche se con un ruolo marginale rispetto alle altre tecnologie) e raddoppiare il tasso medio annuo globale di miglioramenti dell’efficienza energetica entro il 2030. L’elemento di più notevole interesse, nel capitolo sulla mitigazione, è il fatto che il GST invita gli Stati ad “abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050, in linea con la scienza“.

Qui può essere utile una nota di contesto: è da anni, soprattutto dalla COP 26 di Glasgow, che le Parti più sensibili ai cambiamenti climatici vorrebbero inserire nel documento finale la formula “phase out from fossil fuel”, ossia l’abbandono graduale dell’uso di combustibili fossili. Tuttavia, nel testo finale della COP 26, si era riusciti ad inserire solo “phase down of unabated coal power”, cioè solo una “riduzione graduale” di quel tipo di carbone che viene bruciato senza compensare la CO2 emessa.

 

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Questo perché Paesi come India e Cina erano contrari al “phase out”: consideravano “ingiusto” per le economie in via di sviluppo porsi gli stessi obiettivi delle economie più ricche, sia perché storicamente sono state queste ultime ad inquinare maggiormente, sia perché essendo paesi in via di sviluppo hanno ancora bisogno di fonti energetiche a basso costo (come petrolio e gas) per poter aumentare il benessere dei propri abitanti.

Quindi, con l’EAU Consensus si è raggiunto un piccolo grande traguardo perché per la prima volta i “combustibili fossili” entrano in un documento COP. Piccolo, perché comunque al posto del termine “phase out”, è stato inserito “transitioning away” – che implica un abbandono più graduale dei combustibili fossili – in quanto alcuni tra i principali Paesi produttori di petrolio (Russia, Arabia Saudita) hanno insistito per avere una terminologia più debole all’interno del documento.

Infine, sempre all’interno del capitolo sulla mitigazione, il GST invita ad accelerare gli sforzi verso la riduzione graduale dell’energia prodotta dal carbone, e specificamente il cosiddetto “unabated coal”; per questo riconosce le tecnologie di abbattimento e rimozione (soprattutto la cattura e l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, o CCS, come utili per poter ridurre le emissioni in quei settori in cui è particolarmente difficile abbattere la CO2).

Per ciò che concerne l’adattamento, le Parti durante la COP 28 si sono impegnate a definire il Global Goal on Adaptation (GGA), cioè lo strumento, previsto dall’articolo 7 comma 1 dell’Accordo di Parigi, per identificare i passi che il mondo deve compiere per essere resiliente agli impatti negativi dei cambiamenti climatici.

Tuttavia, il GGA prodotto durante la COP 28 non è riuscito a riflettere l’urgenza con cui bisogna raggiungere questi obiettivi, che non sono stati definiti in modo chiaro: nel testo è stata solo indicata la necessità di raddoppiare l’attuale impegno finanziario per l’adattamento.

 

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Infine, in materia di finanziamento sono stati approvati e messi in moto numerosi strumenti specifici: tra i più importanti, un Fondo per le perdite e i danni, un Fondo Verde per il Clima e un Fondo per l’Adattamento.

Il GST riconosce che “il fabbisogno finanziario per l’adattamento dei paesi in via di sviluppo è stimato in 215-387 miliardi di dollari all’anno fino al 2030 e che è necessario investire circa 4,3 mila miliardi di dollari all’anno in energia pulita fino al 2030, aumentando poi a 5 mila miliardi di dollari all’anno fino al 2050, per poter raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050”.

Nello specifico, il Fondo per le perdite e i danni (Loss and Damage Fund) è stato creato per aiutare i Paesi particolarmente vulnerabili al cambiamento climatico ad aumentare la propria resilienza nei confronti dei disastri ambientali: ammonta a più di 700 milioni di dollari. Un elemento di interesse è che questo fondo è stato approvato il primo giorno della COP 28: è la prima volta che una decisione così sostanziale viene presa all’inizio di una Conferenza delle Parti. Questo è stato possibile perché era di fatto già stato approvato ufficialmente durante l’ultimo giorno della precedente COP – la 27°, tenutasi a Sharm el-Sheik, ma non era stato ancora “riempito” di impegni concreti. Tuttavia, secondo alcune critiche, è stato approvato anche per la volontà di Al Jaber sia di “ripulire” la propria immagine danneggiata dalle inchieste dei media e sia per appunto di testimoniare di essere in grado di assumere il ruolo di mediatore in uno consesso internazionale. Il fondo è stato anche criticato in quanto, secondo molti, è un meccanismo finanziario difettoso: non vi è in effetti nessun dispositivo che lo renda continuativo. Infatti, ad oggi, molti si domandano se il fondo sia stata più una concessione simbolica che un’azione reale.

Invece, il Fondo Verde per il Clima (Green Climate Fund) – era stato già costituito dall’Accordo di Parigi, allo scopo di supportare la transizione energetica dei Paesi in via di sviluppo. Durante la Conferenza è arrivato a un ammontare di 12,8 miliardi di dollari, con ulteriori contributi previsti, grazie ai finanziamenti (o quantomeno agli impegni di spesa) ricevuti da 31 Paesi.

Infine, il Fondo per l’Adattamento (Adaptation Fund) è stato anch’esso “riempito” durante la COP 28. Istituito durante la COP 3 e lanciato ufficialmente durante la COP 7, ha raggiunto ora l’ammontare di 188 milioni di dollari – poco più della metà dell’obiettivo di 300 milioni di dollari per il 2023, previsto proprio durante la sua formulazione iniziale.

In generale, la Conferenza ha visto anche diversi annunci volti a rafforzare la resilienza dei sistemi alimentari, della sanità pubblica, e a ridurre le emissioni legate all’agricoltura e al metano, prevedendo anche alcune azioni atte a proteggere gli ecosistemi forestali.

Particolarmente importante, in quanto prima dichiarazione in assoluto sui sistemi alimentari, è la Dichiarazione sull’agricoltura sostenibile, i sistemi alimentari resilienti e l’azione per il clima. Firmata da 134 paesi – (Italia inclusa) ha lo scopo di adattare i sistemi alimentari ai cambiamenti climatici già in atto, con particolare attenzione ai piccoli agricoltori e ai gruppi indigeni; migliorare la gestione dell’acqua in agricoltura; proteggere e ripristinare gli ecosistemi e ridurre gli sprechi alimentari.

La COP 28 ha visto anche le Parti concordare su dove svolgere le successive COP: la 29ª sarà ospitata dall’Azerbaigian, dall’11 al 22 novembre 2024; mentre la 30ª dal Brasile, dal 10 al 21 novembre 2025. Quest’ultima Conferenza sarà particolarmente interessante in quanto le Parti dovrebbero presentare gli NDC riformulati in linea con i risultati del bilancio globale.

Una contestazione durante la COP

 

Dunque, sì è stato un passo storico inserire, all’interno del GST, il riferimento ai combustibili fossili e porre le basi per il loro abbandono già a partire da questa decade, al fine di arrivare a zero emissioni nette (Net Zero) nel 2050. Tuttavia, se si analizzano i vari “scandali” che hanno accompagnato Al Jaber durante la COP, si può sospettare che l’inserimento di questo termine sia stato solo un gesto politico.

Infatti, oltre alle indagini di BBC e Center for Climate Reporting, il Guardian, a pochi giorni dall’inizio della Conferenza, ha riportato le affermazioni di Al Jaber secondo cui “non esiste alcuna scienza che indichi che l’eliminazione dei combustibili fossili limiti il riscaldamento globale” e che “rinunciare ora ai combustibili fossili ci riporterebbe nel mondo delle caverne”. Inoltre, l’inserimento dei combustibili fossili all’interno del GST ha fatto sì che i progressi nel settore dell’adattamento siano stati minori e quasi irrisori.

 

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La COP 28 quindi non è riuscita ad inviare un forte segnale politico sulla necessità di intensificare le azioni di adattamento; ma almeno è riuscita a riconoscere che il mondo non è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. In particolare, il “bilancio globale” emerso da Dubai riporta che siamo in ritardo per ridurre le emissioni del livello necessario per limitare l’aumento della temperatura a 1,5° C e che gli impegni finanziari sono ben al di sotto (si stima che siano necessari trilioni di dollari) di quelli necessari per sostenere i Paesi in via di sviluppo e quelli maggiormente colpiti dagli effetti del cambiamento climatico. Inoltre, riconoscere questi aspetti non è abbastanza: sebbene le politiche climatiche nazionali e regionali (come quelle dell’UE) si stiano già muovendo in questo senso, bisogna che i testi delle COP riescano a prevedere sempre più impegni vincolanti a livello internazionale per le Parti per stimolare maggiormente i governi nazionali a rispettare gli impegni di Parigi.

In conclusione, la COP 28 ha messo comunque in evidenza come sia importante coinvolgere attivamente i Paesi produttori di petrolio e gas, perché saranno proprio le loro scelte che permetteranno di ridurre o meno le emissioni di CO2.

 

 

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