Come l’Arabia Saudita volterà le spalle al petrolio – ma non subito

Ahmad Zaki Yamani, ministro del petrolio dell’Arabia Saudita tra il 1962 e il 1986, amava ripetere che “come l’età della pietra non finì perché terminarono le pietre, così l’età del petrolio non finirà per mancanza di petrolio”. Questo è vero anche per il Paese che, più di tutti gli altri, ha basato la sua ricchezza e lo sviluppo dell’economia sull’oro nero. Attualmente, l’Arabia Saudita detiene il 17% delle riserve conosciute di petrolio e soddisfa da sola circa un decimo della domanda mondiale. Tuttavia, le conseguenze della crescente sensibilità delle opinioni pubbliche nazionali verso i temi ambientali e il lento ma inarrestabile processo di sostituzione tecnologica obbligano Riad a riconsiderare i suoi modelli di crescita.

Una raffineria saudita

 

La sfida raccolta dalla nuova classe dirigente saudita, guidata dal principe ereditario e sovrano de facto Muhammad bin Salman, è di ridurre la dipendenza dai proventi della vendita di idrocarburi. Ma tale obiettivo è stato recentemente affiancato dall’ambizioso progetto di fare del Paese un campione globale della lotta al cambiamento climatico, che ha trovato nella Saudi Green Initiative il primo tentativo di sistematizzazione. Recuperare il terreno perduto sul cammino della transizione energetica non sarà però facile né privo di ostacoli e difficoltà.

 

In bilico tra modelli economici superati e futuro

Nel 2021, il settore petrolifero ha generato la metà della ricchezza e ha contribuito per una quota in valore pari al 70 % delle esportazioni. Sebbene il peso degli idrocarburi nell’economia sia in progressiva discesa da più di un decennio, l’Arabia Saudita resta dipendente dai tesori del suo sottosuolo.

Alla fine del 2021, la produzione petrolifera ha superato di nuovo i 10 milioni di barili al giorno, che non toccava da prima della pandemia. La domanda mondiale, dopo il crollo del 2020 legato alla chiusura delle attività economiche per limitare la diffusione del Covid-19, è in forte crescita. Tanto che il ritorno del prezzo del petrolio al di sopra della soglia dei cento dollari non è più un obiettivo che appariva impensabile fino a pochi mesi fa. In questo modo, sarà più facile per Riad completare il piano di riduzione del deficit, arrivato quasi al 12% del PIL durante il primo anno di pandemia. Allo stesso tempo, emerge quanto l’economia saudita sia resa fragile dalla volatilità delle quotazioni degli idrocarburi e dal loro peso come fonte di entrate pubbliche e contributo alla ricchezza privata.

Il Paese è arrivato tardi rispetto ad altri Stati del Golfo alla consapevolezza che il modello economico dimostratosi vincente per decenni non è più sostenibile. Gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar sono impegnati dall’inizio del secolo a diversificare le loro economie. La rendita petrolifera resta fondamentale per la sopravvivenza e contribuisce a circa un terzo del PIL dei due Paesi del Golfo; ma le politiche finalizzate ad attrarre investimenti in settori nuovi hanno ormai acquisito una dimensione strutturale. Questo è vero in particolare per l’Emirato di Dubai, proiettato a diventare un centro globale del commercio, della finanza e del turismo.

L’Arabia Saudita si è dotata di un piano per favorire lo sviluppo di segmenti dell’economia diversi dall’oil&gas solo nel 2016. Si tratta della Saudi Vision 2030, ormai ampiamente conosciuta come prodotto delle ambizioni dell’attuale principe ereditario di rinnovare l’immagine del suo Paese e di intraprendere il lungo cammino di sganciamento dal petrolio. Il piano, oltre a diversificare l’economia con orizzonte temporale fissato al 2030, punta a migliorare la qualità della vita dei cittadini, a rendere più efficace ed efficiente la spesa pubblica, ad accrescere la trasparenza attraverso la lotta alla corruzione e a sfruttare al meglio le risorse naturali disponibili.

Tali obiettivi programmatici, a quasi sei anni dalla loro enunciazione, sono stati realizzati solo in minima parte. Alcune iniziative di evidente impatto mediatico hanno cercato di fornire rassicurazioni all’opinione pubblica sulla determinazione della Casa reale a riformare l’economia e la società. È il caso della retata anticorruzione del novembre 2017, che portò all’arresto di duecento persone, tra principi, ministri e uomini d’affari, tra l’altro con accuse formali e prove mai pubblicate. È il caso anche delle accattivanti campagne pubblicitarie lanciate in diversi Paesi occidentali per far conoscere il patrimonio storico e paesaggistico saudita, in seguito alla recente introduzione di procedure semplificate per ottenere i visti turistici e attrarre visitatori. L’esempio più eclatante è quello della futuristica città di Neom, che prevede investimenti per 500 miliardi di dollari nella regione poco popolata di Tabuk, nel nord-ovest saudita per la costruzione di un centro, pensato come incubatore di imprese high-tech sul modello di una Silicon Valley in salsa mediorientale.

Il progetto della città ottagonale e galleggiante di Neom

 

Il difficile abbandono del petrolio

Nonostante gli sforzi finora messi in campo, l’Arabia Saudita resta dunque ancora dipendente in misura decisiva dall’oro nero, sia come vettore principale del commercio estero sia come carburante per il funzionamento del mercato interno. Nel 2020, il Paese ha consumato in media 3,5 milioni di barili di petrolio e gas al giorno – una quota doppia rispetto ad esempio a quella dell’Italia Quasi tutte le risorse sono impiegate per la produzione di energia e l’autotrazione, che assorbe un terzo del fabbisogno, e nel trasporto aereo. Le emissioni di anidride carbonica pro capite si attestano a 15 tonnellate annue, paragonabili a quelle di un cittadino americano, e superiori del 30 % rispetto agli abitanti dei Paesi dell’Unione Europea.

La Saudi Electricity Company, la società che controlla e gestisce gli impianti e le infrastrutture di generazione, trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica, utilizza al 99 % combustibili fossili per la produzione di corrente. Tra l’altro, quasi tutte le centrali bruciano ancora olî minerali, ricorrendo a tecnologie ormai ampiamente sostituite dalle turbine a gas in altri Paesi. Ad esempio, l’Italia ha abbandonato progressivamente le centrali funzionanti con idrocarburi liquidi già a seguito degli shock petroliferi degli anni Settanta del secolo scorso.

Lo stesso Public Investment Fund, il fondo sovrano del Regno istituito nel 1971 da re Faysal, che gestisce asset per un valore di oltre 430 miliardi di dollari, è impregnato di petrolio. Questo controlla infatti anche la Saudi Aramco, la compagnia nazionale degli idrocarburi che, con un valore stimato di circa 2 trilioni di dollari, si contende con le americane Apple e Microsoft il primato di azienda più grande al mondo in termini di valore. Nei progetti del principe ereditario, Saudi Aramco sarà la cassaforte da cui prelevare le risorse necessarie a finanziare la diversificazione dell’economia e la transizione energetica.

Già alla fine del 2019, fu presentata una offerta pubblica iniziale (IPO) per vendere parte delle quote della compagnia in borsa a investitori pubblici. Le azioni immesse sul mercato corrispondevano a poco meno del 2% del totale e permisero di raccogliere quasi 30 miliardi di dollari. L’operazione non assunse le dimensioni sperate, poiché coinvolse solo la borsa di Riad. Lo sbarco su un listino di rilevanza internazionale, pensato come seconda fase del progetto, non ebbe luogo a causa del disaccordo tra autorità saudite e advisor finanziari. Questi ultimi fissavano il valore dell’azienda a 1,2 trilioni di dollari, mentre Riad affermava che questo fosse di 1,8 trilioni. Negli ultimi giorni è stata annunciata una nuova IPO con l’obiettivo di attrarre investimenti per almeno 50 miliardi di dollari. Non è chiaro se questa volta l’operazione verrà portata avanti anche su una grande piazza occidentale o asiatica, ma il governo ha già dichiarato che i fondi saranno impiegati in larga parte negli sforzi del Paese contro il cambiamento climatico.

 

Politiche climatiche e ruolo del gas

La Penisola araba è particolarmente vulnerabile alle conseguenze dell’aumento repentino della temperatura media globale legato alle attività antropiche. L’area, già in gran parte desertica, potrebbe presto diventare ancora più inospitale. Il superamento dei 50° C durante la stagione estiva ha assunto le caratteristiche di un fenomeno sempre più frequente e duraturo. Temperature così elevate mettono a dura prova le reti di distribuzione elettrica, con il rischio di lunghe interruzioni di corrente, che renderebbero inabitabili molti edifici arroventati dal sole. Tante attività produttive dovrebbero perfino essere sospese, con gravi ripercussioni sul sistema economico.

 

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Per contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici, a ottobre dell’anno scorso Riad ha annunciato la Saudi Green Initiative nel quadro del Middle East Green Initiative Forum. L’appuntamento, svoltosi poco prima della Cop26 di Glasgow alla fine del 2021, ha visto la partecipazione di una trentina di Stati. L’invito è giunto proprio dall’Arabia Saudita con lo scopo di sensibilizzare i governi nazionali sull’importanza di ridurre le emissioni inquinanti e per istituire un fondo di 10 miliardi di dollari per investimenti in tecnologie verdi e in progetti di rimboschimento e recupero di terreni degradati. In quell’occasione Muhammad bin Salman ha annunciato che il suo Paese ha fissato al 2060 il raggiungimento della carbon neutrality – la formula che indica il bilanciamento tra le emissioni residue e le attività di rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera. L’impegno in tal senso è stato ribadito in Scozia, allineando così Riad a Mosca e Pechino, mentre Washington e l’Unione Europea hanno puntato alla data del 2050.

In vista della XXVII Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che avrà luogo verso la fine di quest’anno in Egitto, Riad ha dunque concepito un piano d’azione sistematico nella lotta al cambiamento climatico. Alcuni timidi passi erano stati fatti già nei mesi scorsi. Ad aprile 2021, il governo ha annunciato l’apertura della prima centrale fotovoltaica, realizzata nel deserto di Sakaka, nel nord del Paese. Si tratta di uno dei sette impianti solari o eolici, che forniranno energia a 600mila abitazioni nel giro di tre anni. L’obiettivo fissato nella Saudi Green Initiative è di arrivare a generare metà della corrente elettrica da fonti rinnovabili entro il 2030. La parte di energia prodotta con combustibili fossili avrà un impatto ambientale decrescente, nella misura in cui le centrali a olio minerale saranno riconvertite a gas.

Proprio il gas costituisce la fonte di energia su cui Riad punta con decisione per coprire il fabbisogno interno nei decenni necessari a diventare carbon neutral. Il suo contributo in termini di emissioni è minore rispetto al petrolio e derivati e il Paese dispone di grandi riserve. A novembre dell’anno scorso, Saudi Aramco ha annunciato l’avvio della prima fase delle operazioni di sfruttamento del giacimento di gas di scisto di Jafurah, nell’entroterra della costa affacciata sul Golfo. Si tratta del più grande deposito di questo tipo in tutto il Medio Oriente, esteso per 170 Km lungo la direttrice nord-sud e con una larghezza massima di 100 Km. Si stima che contenga 200 trilioni di metri cubi di gas e, una volta a regime, permetterà di estrarre 5,5 milioni di metri cubi di gas al giorno, equivalenti a mezzo milione di barili di petrolio risparmiati. Grazie a questo giacimento e al progresso tecnologico, che ha abbattuto i costi e reso più efficienti le modalità di estrazione, l’Arabia Saudita punta a diventare il terzo produttore mondiale di gas entro la fine di questo decennio.

Inoltre, i sondaggi geologici hanno evidenziato la presenza di altre sostanze nel deposito di Jafurah, tanto che si punta a estrarre anche 630mila barili al giorno di gas liquidi e condensati nonché grandi quantità di etano. Tali risorse sono indispensabili per lo sviluppo di un’industria chimica e petrolchimica nazionale di nuova generazione. Questa non sarà più basata esclusivamente sulla raffinazione del petrolio, ma sulla produzione, ad esempio, di ammoniaca, su cui punta il settore del trasporto marittimo per sostituire la nafta pesante. Oppure per dare energia agli impianti per la costruzione di batterie, turbine a basso impatto ambientale e pannelli fotovoltaici, in modo da non dipendere dall’estero per le forniture di tali apparecchiature.

Una parte consistente della Penisola Arabica potrebbe presto essere troppo calda per la vita umana

 

Le prospettive di successo

L’Arabia Saudita dispone quindi di abbondanti risorse naturali e di strumenti economici poderosi per recuperare il terreno perduto nella lotta ai cambiamenti climatici. Gli obiettivi ambiziosi fissati da Riad negli ultimi mesi, se realmente perseguiti, consentiranno al Paese di avviare una rapida transizione energetica e di ridurre drasticamente le emissioni di anidride carbonica. A Glasgow, il principe ereditario ha dichiarato che l’Arabia Saudita vuole portare i tagli nel rilascio di questo gas in atmosfera da 130 a 278 milioni di tonnellate entro il 2030. Inoltre, il governo ha avviato la piantumazione di 450 milioni di alberi, insieme alle attività di ripristino di 8 milioni di ettari di terreni degradati. Riad è all’avanguardia anche nelle tecnologie di stoccaggio sotterraneo del biossido di carbonio, grazie al know-how acquisito in decenni di prospezioni petrolifere. La presenza di impianti industriali sviluppati in pochi distretti, soprattutto lungo la costa, permetterebbe di catturare con maggiore facilità le emissioni.

Impegnarsi seriamente nel processo di transizione energetica è vantaggioso anche per garantire all’Arabia Saudita una crescita dell’economia meno esposta alle fluttuazioni del prezzo del barile. Gli impegni assunti da Riad sono molto ambiziosi e non privi di una certa componente propagandistica. Muhammad bin Salman è impegnato in un’opera di promozione del suo Paese e della sua azione politica per accreditarsi come futuro sovrano attento ai temi sociali e ai diritti delle persone, compreso quello a un ambiente più salubre. Inoltre, il principe sta cercando faticosamente di liberarsi da un grave problema di immagine – soprattutto dopo la dura condanna morale inflittagli dalla comunità internazionale, che continua a vederlo, se non come il mandante diretto, almeno come l’ispiratore politico dell’omicidio di Jamal Khashoggi, ucciso nell’ottobre 2018 all’interno del consolato saudita a Istanbul in circostanze mai del tutto chiarite.

 

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Terminata la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti di Biden non sono più disposti a firmare assegni in bianco a Riad, anche sulla base della linea politica dei Democratici, che trova in politica estera espressione nella maggiore sensibilità ai temi dei diritti dell’uomo e della democrazia. Bin Salman non può quindi mantenere quella retorica sfrontata e il gusto per le mosse azzardate, sgradite a molti partner mediorientali, nel momento in cui sa che Washington non lo appoggerebbe. Principale di conseguenza è il tentativo cauto di trovare un modus vivendi con gli iraniani, attraverso vari round di colloqui sponsorizzati dal governo iracheno. Pochi giorni fa, diplomatici iraniani si sono recati a Gedda per avviare il processo di riapertura dell’ufficio di Teheran presso l’Organizzazione della Cooperazione islamica, chiuso dal 2015 a causa del grave deterioramento dei rapporti tra i due Paesi.

 

Al di là di tali considerazioni, investire seriamente nella transizione energetica può essere un grande vantaggio per l’Arabia Saudita e per la sostenibilità della sua crescita economica nel lungo periodo. Non a caso, l’agenzia di rating Moody’s, a fine 2021, ha portato l’outlook del Regno da negativo a stabile, basandosi non solo sull’aumento dei prezzi del greggio, ma tenendo conto anche degli impegni per la differenziazione dell’economia, considerati credibili. E lo sganciamento dal petrolio passa necessariamente per la transizione energetica. Che potrebbe essere più rapida di quanto si possa pensare.

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