Biden-Harris: il ticket del realismo

 Con la scelta di Kamala Harris – che era uscita nettamente sconfitta dalle primarie democratiche – Joe Biden ha dato una configurazione chiara alla corsa per la Casa Bianca. Da una parte c’è appunto il “ticket” formato da un candidato-presidente molto esperto ma poco brillante e che non appassiona i suoi stessi elettori naturali, assieme a una senatrice ed ex-magistrato della California che garantisce conoscenza delle istituzioni e una rappresentanza delle minoranze più importanti per il Partito Democratico. Tutti sanno che la Harris deve dimostrare, ben più di un “normale” aspirante alla Vicepresidenza, di avere già ora le capacità per sostituire il suo capo – se non altro perché quella di Biden è comunque una candidatura “one term”, che dunque proietta il suo numero due quasi automaticamente verso il voto del 2024.

Siparietto tra Joe Biden e Kamala Harris alla presentazione della loro candidatura congiunta

 

Dal lato repubblicano troviamo, in sostanza, un vero referendum su Donald Trump: è così infatti – come un referendum quotidiano – che il Presidente ha impostato fin dall’inizio la sua gestione della carica più alta, ed è così che sta conducendo la campagna elettorale. In questo caso, la figura del Vicepresidente è del tutto secondaria se non irrilevante, come ha confermato l’attribuzione a Mike Pence, in modo che si può definire al più cosmetico, di un ruolo diretto nella gestione della pandemia. L’amministrazione Trump non si è dotata di alcun meccanismo collegiale vero e proprio, ed è dunque quasi impossibile valutarne l’operato in modo collettivo: tutto poggia sulla personalità, le promesse e le prospettive di un uomo al comando.

Spilletta della campagna Trump 2020

 

La visione trumpista si scontra ora con un’offerta politica che è certamente “progressista” ma certo non radicale, e ciò probabilmente aumenta le chance dei Democratici. Nonostante si sia discusso a lungo di una deriva a sinistra del Partito rispetto agli anni di Barack Obama, la realtà è che l’accoppiata Biden-Harris è del tutto rassicurante e piuttosto tradizionale. La loro campagna sta puntando proprio sull’eredità più centrista e cautamente riformatrice di Obama, non su quella movimentista e ovviamente non sull’ala “socialista” che è stata rappresentata in questi anni da Bernie Sanders, in parte da Elizabeth Warren, e in prospettiva lo sarà dalla generazione di Alexandria Ocasio-Cortez.

Gli elettori non sembrano sconvolti da questa scelta, e il Partito si sta pragmaticamente stringendo attorno a un “ticket” su cui nessuno scommetteva pochi mesi fa. E’ plausibile che il motivo stia in un diffuso desiderio di prudenza, raziocinio e competenza nell’affrontare perfino questioni di per sé “radicali”, come i gravi danni economici del Covid-19, la politica sanitaria e l’incancrenita questione razziale – che è al contempo questione socio-economica, culturale, di giustizia e di ordine pubblico.

Il Partito Democratico resta indubbiamente diviso al suo interno, e ciò causerà problemi a un’eventuale amministrazione Biden; eppure, la presunta spaccatura tra un’anima radicale e una progressista-liberale in questo momento può essere ricomposta grazie soprattutto alla volontà di riconquistare la Casa Bianca. C’è anche la possibilità di riconquistare un vasto terreno politico (al Congresso e nei governatorati) reso disponibile dalla trasformazione del Partito Repubblicano  – che avrà difficoltà interne ben maggiori per ricostruirsi in una fase post-Trump.

In questo quadro, il “ticket” democratico ha fatto una scelta lineare: lasciare che la campagna si sviluppasse effettivamente come un grande referendum in cui l’assoluto protagonista è Donald Trump, con la sua irrefrenabile pulsione a esagerare, a contraddirsi, a provocare reazioni forti.

I punti di debolezza del Presidente sono piuttosto evidenti, dagli attacchi alle istituzioni ai repentini cambi di rotta su quasi tutti i dossier, dalla gestione confusionaria della pandemia fino a una politica economica che già prima del Covid-19 aveva raggiunto risultati modesti pur sfruttando l’onda lunga della ripresa avviata sotto la presidenza Obama. Agli avversari basta elencare le promesse non realizzate e proporre alternative moderate, fondate su una modalità di azione che rispetti le istituzioni e cerchi un minimo di consenso anche al centro dello spettro politico – invece che soltanto sul proprio versante ideologico. Tale tecnica non assicura la vittoria, ma la rende realistica: i sondaggi (pur con i loro limiti ben noti) suggeriscono che sta funzionando, soprattutto se i Democratici riusciranno a portare molti elettori a votare nei 10-12 Stati in bilico.

L’esito del voto del 3 novembre – che assai probabilmente verrà comunicato e sancito con notevole ritardo, a causa delle molte contestazioni “preventive” annunciate esplicitamente dal Presidente in carica – è certo importante anche per noi europei. E’ vero che una serie di mutamenti strutturali e profondi della politica estera americana sono in corso da circa un quindicennio, e in parte erano emersi già durante i due mandati di Obama; ma l’effetto del “metodo Trump” è stato macroscopico, e ce ne accorgeremo a posteriori se e quando ci sarà un cambio di amministrazione.

Si pensi alle misure, sanitarie ed economiche, di contrasto al Covid-19, in cui ogni traccia di leadership americana è scomparsa totalmente, o alle questioni ambientali ed energetiche. Anche rispetto ai rapporti con la Cina, in quanto maggiore fattore “sistemico” sul piano globale, una presidenza diversa sarebbe davvero un’altra storia. Un po’ di sano realismo alla Casa Bianca darebbe nuovamente un senso alla parola “alleanze”.

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