Le Olimpiadi del 1992, assieme alla diffusione delle compagnie aeree low cost, hanno fatto sí che Barcellona sia divenuta negli ultimi decenni una destinazione assai battuta dagli italiani. Per turismo, soltanto nel 2016, ci sono andati più di mezzo milione di nostri connazionali. Ma sono più di trentamila gli italiani (censiti) che vivono e lavorano in città ormai da anni. Probabilmente per questo negli ultimi tempi sono stati in molti a voler raccontare le vicessitudini di questa città nell’assai movimentato “processo” catalano verso l’indipendenza. Tutte le impressioni e tutti i racconti apparsi in Italia avranno una parte di verità, perché in definitiva le vicende di questa metropoli non sono altro che uno specchio rotto, nei frammenti del quale tutti ci affanniamo a voler scorgere l’insieme. Il mio frammento, ormai collaudato (vivo a Barcellona da quasi vent’anni) rimanda un’immagine della città negli ultimi sette-otto anni assai complessa, apparentemente di difficile lettura.
Il primo atto veramente clamoroso del movimento independentista ebbe luogo proprio nel centro della capitale catalana: un enorme corteo attraversò Barcellona nel caldissimo luglio del 2010 contro la sentenza del Tribunale Costituzionale che, dopo una furiosa campagna del Partito Popolare,sforbiciava il nuovo “statuto d’autonomia” approvato nel 2006 dal parlamento catalano. Quella manifestazione –ancora unitaria, ancora piena di bandiere catalane e non di bandiere indipendentiste-, finì però con le contestazioni all’allora President de la Generalitat – il socialista José Montilla, catalano di origine andaluse– e i primi cori davvero eclatanti a favore dell’indipendenza. Ma in quella stessa città e in quello stesso caldissimo luglio, due giorni dopo una gran folla scendeva per le strade per festeggiare la vittoria della Spagna ai mondiali di calcio.
Le due cose allora non sembrarono troppo contraddittorie, anche perchè in quei mesi la piazze erano sempre piene. Il contesto era quello degli effetti devastanti della crisi economica e della crisi dei mutui, che spinsero letteralmente per strada migliaia di persone. In più, proprio nell’autunno del 2010 si insediava a Barcellona un governo regionale nazionalista (non ancora independentista) e conservatore che applicò le politiche di austerità più dure d’Europa.
La risposta non si fece aspettare: la città in poco tempo si trasformò nel centro di una fitta rete di movimenti sociali. Poco dopo se ne ebbe una prova evidente: gli indignados barcellonesi occuparono (o liberarono?) la grande e centrale Piazza Catalogna per più di un mese. Fu un movimento spontaneo, ma non sarebbe esistito senza le mille lotte dei mesi precedenti contro i tagli al bilancio regionale.
In quella piazza non si parlò mai dell’indipendenza. Non se ne parlò neppure quando venne sgomberata violentemente dalla polizia della Generalitat o quando una parte del movimento accerchiò il Parlamento regionale contro l’approvazione di una finanziaria lacrime e sangue. Gli indignados lasciarono infine la Piazza Catalogna ma si distribuirono in modo capillare nei quartieri dove prese sempre più forza la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (la PAH), probabilmente il movimento sociale più consistente degli ultimi decenni.
Dunque una Barcellona refrattaria alle suggestioni indipendentiste? Non proprio: fu ancora Barcellona il teatro delle grandi mobilitazioni indipendentiste del 2012 e del 2013, che continuarono ad essere però ancora una delle molte forme d’espressione di uno scontento che non era necessariamente legato alla questione territoriale.
In parte fu cosí pure per la consultazione referendaria informale – di fatto tollerata dal governo centrale – del 9 novembre del 2014: per Barcellona nello specifico si trattò più di una giornata di festa-protesta contro il governo conservatore di Mariano Rajoy che un giorno di affermazione nazionale. Probabilmente per l’insieme del “processo” e per il suo impatto sulla città il momento di svolta fu proprio la fine del 2014, subito dopo l’exploit di Podemos alle elezioni euopee e i primi scricchiolii del sistema politico tradizionale, alla vigilia delle elezioni comunali previste per la primavera successiva.
Vale la pena ricordare come la conquista del comune di Barcellona da parte dei nazionalisti di CiU (la formazione del decano leader nazionalista Jordi Pujol) nel 2011 era stata una specie di “anomalia” dopo più di trent’anni di governo delle sinistre catalaniste – che riconoscono il carattere nazionale catalano senza però mettere in discussione l’integrazione nello stato spagnolo – e federaliste. Nel 2015, l’obiettivo diventava sconfiggere una volta per tutte le “resistenze” cosmopolite della città, mantenere l’amministrazione ed integrarla definitivamente in un progetto nazionalista che si stava tramutando in indipendentista.
Si dirà che le dinamiche politiche hanno un impatto relativo sulla vita quotidiana dei cittadini, ma in questo caso non fu affatto cosí. Lo dimostrarono le celebrazioni per il tricentenario dell’11 settembre 1714, giorno che ha dato origine alla festa nazionale catalana, trasformato dal Comune (e dal governo nazionalista della regione) in una vera e propia operazione culturale sulla città. Il simbolo fisico di quell’offensiva fu l’inaugurazione in pompa magna del Museo del Born, una struttura culturale sorta dalle ceneri di un antico mercato nel centro della città, e che da allora gli indipendentisti hanno rivendicato quasi come un luogo sacro.
Barcellona però – la sua storia lo dimostra – è soprattutto una città laica, e infiammabile: nel maggio del 2015 l’ex attivista della PAH Ada Colau vinceva le elezioni sospinta da quella corrente di fondo che aveva animato le mobilitazioni del 2011 e che si era fatta viva pure nei grandi eventi indipendentisti, magari senza del tutto esser d’accordo con gli slogan ufficiali.
Da allora in poi la città è stata lo scenario di un progressivo conflitto di immaginari, e della sua escalation. Barcellona, la città dei prodigi del romanziere Eduardo Mendoza, la città del sindaco Maragall reso famoso dalle Olimpiadi del 1992, la città globale, la grande capitale del Mediterraneo, sotto la guida di Colau diventava ancor di più una Babilonia in un certo qual modo incomprensibile per gli indipendentisti. Barcellona non nega l’immaginario nazionale catalano ma lo inghiotte e lo digerisce in un immaginario più ampio, fatto di identità felicemente sovrapposte, di lingue, culture e stili di vita diversi e di connessioni che vanno al di là degli stati, delle nazioni, addirittura dei continenti. Come dimostrano le mille iniziative condotte a braccetto con tante città del mondo, da Parigi a New York.
Certo, negli ultimi anni la città ha sofferto la pressione dei due nazionalismi contrapposti: quello catalano sempre più invadente e a volte aggressivo, e quello spagnolo – più lontano certamente, ma che ha avuto nel Partito Popolare e soprattutto in Ciudadanos (partito centralista, ma nato in Catalogna) un megafono assai potente. I due nazionalismi si retroalimetano, e hanno bisogno l’uno dell’altro.
La doppia pressione si è tradotta in manifestazioni di piazza imponenti, o, nella politicizzazione dei terribili attentati dell’estate 2017, che ferirono la città in un modo mai visto. Ma anche nella politicizzazione identitaria di enti e organizzazioni importanti, come per esempio l’Ateneu Barcelonès, il centro culturale più antico e prestigioso della città.
Per entrambi i fervori patriottici però, Barcellona continua ad essere una specie di rebus: nelle ore più calde del referendum illegale del 1° ottobre e delle cariche della polizia, la resistenza alla forza pubblica è stata più forte nei quartieri in cui gli indipendentisti praticamente non raccolgono voti. E’ un dato inspiegabile, se visto solo attraverso le coordinate dei due nazionalismi.
Ora, con un occhio alle elezioni comunali dell’anno prossimo, si torna alle grandi manovre: proprio in questi giorni si sta diuscutendo della possibilità di fare liste unitarie dell’indipendentismo catalano; mentre l’ex primo ministro francese (di origine catalana) Manuel Valls ha chiesto come condizione per candidarsi a sindaco per Ciudadanos la costruzione di un fronte antindipendentista. Nè l’una nè l’altra proposta per ora hanno attecchito: Babilonia resiste.
Il suo atipico patriottismo autonomo – fatto soprattutto di biblioteche e di di palestre pubbliche, di feste di quartiere e di grandi eventi culturali globali, di una tradizione municipalista e progressista che viene da lontano e sembra andare al di là del colore politico di chi occupi lo scranno più alto del consiglio – è ontologicamente la negazione di qualsiasi patriottismo classico, grande o piccolo che sia, con o senza uno stato alle spalle.
Chissà se Barcellona riuscirà ad evitare di finire nel tritacarne delle vecchie identità. C’è da sperare di no. La città ha di fronte a sè delle sfide importanti: dall’impulso definitivo alla sua area metropolitana (la Barcellona del domani sarà quella attuale di neppure due milioni di persone o quella dei quattro milioni del suo hinterland?), al governo di un turismo economicamente vantaggioso ma assai vorace, invadente e poco distribuito, al completamento delle infrastrutture della viabilità, al freno alla tremenda speculazione sugli affitti, alla riduzione delle disuguaglianze economiche fra le diverse zone della città o, ancora alla definizione del suo ruolo nei nuovi equilibri spagnoli ed europei.
E chissà se invece Babilonia sarà capace, su tutti questi temi, di dare risposte soddisfacenti in quella sua lingua strana, eterodossa ma comprensibile oltre molte frontiere.