Da un po’ di tempo, e in gran parte a causa dell’impulso di Emmanuel Macron, ogni discussione su una possibile politica estera comune dell’Unione Europea ruota intorno al concetto di “autonomia strategica”; si tratterebbe della condizione necessaria per dotare l’UE di una politica estera.
A prima vista sembrerebbe un’affermazione logicamente quasi banale, come il personaggio di Molière che scopriva di parlare in prosa. Ogni organizzazione politica, quindi anche l’UE, per avere una politica estera deve in primo luogo definire in modo autonomo i propri obiettivi e i propri interessi; questi sono del resto dettati dalle priorità di politica interna; un paese diviso sul piano interno può difficilmente creare consenso intorno alla politica estera. Non è però così che i principali attori sembrano porre la questione dell’autonomia strategica. Ne possiamo infatti identificare almeno tre versioni.
La visione “neo-gollista”
La prima, che possiamo chiamare neo-gollista, consiste nel definire le ambizioni dell’UE in termini di autonomia dall’America. Questa prospettiva è stata per un certo periodo sostenuta dal trauma provocato in Europa dalla politica di Donald Trump. Ci siamo sentiti soli, abbandonati e obbligati a divenire “adulti”. Per usare le celebri parole di Angela Merkel, spinti a “prendere il destino nelle nostre mani”. Non è un caso che questa sia la versione che più piace a russi e cinesi.
Ma la situazione è cambiata. Da un lato, Trump non è più alla casa Bianca; ciò non vuol dire che tutto è risolto, ma il problema non è più lo stesso. Dall’altro, la consapevolezza di non poter più necessariamente contare sugli USA in tutte le circostanze, non risponde ancora alla domanda principale: che atteggiamento avere rispetto a chi è, dopo tutto, il nostro principale alleato?
Facciamo un breve panorama delle principali sfide di politica internazionale che dobbiamo affrontare, procedendo da ovest a est: il Sahel, la Libia, la Turchia, l’Iran, la Russia, la Cina. Non ce n’è uno solo che l’Europa possa affrontare prescindendo dalla politica americana e senza avere interesse a trovare una convergenza con gli USA. In alcuni casi possiamo essere più o meno in prima linea, ma mai del tutto autonomi. Ciò non significa che il confronto e la ricerca di convergenza non saranno mai problematici. Tuttavia, una cosa è mettere in conto la possibilità di un dissenso, un’altra è porre l’autonomia come obiettivo.
A torto o a ragione, questa visione “neo-gollista” viene attribuita alla Francia. Si tratta probabilmente di un giudizio ingeneroso, che è però purtroppo a volte confermato dalla retorica di alcune affermazioni di Macron, dalla sua propensione alle iniziative unilaterali e dalla vistosa volontà di emarginazione delle istituzioni dell’UE. È un fatto che nessun altro paese membro sarebbe disposto a seguire la Francia su questa strada; troppo forte è ancora la dipendenza dagli USA sul piano militare e la percezione degli interessi e dei valori che ci legano all’alleato.
Può darsi che si tratti largamente di pregiudizi anti-francesi, che tuttavia sono duri a morire. Alcuni paesi, soprattutto a Est, non sono solo scettici sulle prospettive di una difesa europea di fronte alla minaccia russa, ma ritengono la Francia un alleato non pienamente credibile alla luce delle sue ripetute aperture unilaterali alla Russia. Finché la Francia non leverà ogni equivoco su questo aspetto, è difficile che si possa andare avanti. È un vero problema perché, come non si può progredire in campo economico senza la Germania, così è difficile immaginare che si possa fare qualcosa di serio nella politica estera e di sicurezza senza la Francia.
La “sindrome svizzera”
Definirei la seconda versione dell’autonomia strategica, come “sindrome svizzera” o “economy plus”. Essa è popolare soprattutto in Germania, ma sicuramente attraente anche in paesi come l’Italia. Consiste nel riaffermare il legame atlantico in materia di sicurezza, ma cercando di pagare il minimo sindacale in termini di sforzo per la difesa. Consiste soprattutto nel cercare di ricavare il massimo di spazio di autonomia nei rapporti economici; in primo luogo con la Cina ma anche con la Russia.
L’impulso non manca di logica; dopo tutto l’UE è molto più dipendente dal commercio internazionale di quanto lo siano gli USA. Tuttavia neppure questa visione ha molte probabilità di funzionare, anche se può essere attraente per alcuni. Se ci riferiamo alla lista di questioni prioritarie che ho elencato poc’anzi, non ce n’è quasi nessuna per cui gli aspetti economici siano facilmente separabili da quelli legati alla sicurezza. Sarebbe una grave illusione credere che, soprattutto con l’amministrazione Biden, gli USA rinuncino all’esigenza di una convergenza anche su questi aspetti.
La cosa è particolarmente cruciale in rapporto alla Cina, sicuramente la principale questione della politica estera americana (e mondiale) dei prossimi decenni. Molti hanno ormai spiegato con dovizia di argomenti perché una nuova guerra fredda America-Cina non è concepibile. Tuttavia ciò vuole solo dire che praticamente nessuna delle condizioni che hanno caratterizzato la guerra fredda con l’URSS è replicabile con la Cina. Resta comunque che, anche se il problema è del tutto diverso, si tratta pur sempre di un potenziale conflitto. Come Biden deciderà di giocare la partita, è ancora poco chiaro; alcuni alleati si interrogano sul senso da dare alla decisione di ritirarsi completamente dall’Afghanistan. Ancora più importante è l’interpretazione che ne daranno i potenziali avversari.
Se è difficile immaginare una politica economica europea verso la Cina decisa in totale autonomia, non potremo nemmeno evitare di essere coinvolti anche negli aspetti strategici. L’apporto militare europeo può essere evidentemente solo limitato, ma nessuno può credere che possiamo cavarcela con l’invio periodico di qualche unità navale nel Mar Cinese Meridionale.
Acquisito che in nessun modo possiamo considerarci neutrali, non potremo restare del tutto estranei alla rete di alleanze che gli USA tentano di costruire in Asia. Come pure non potremo restare estranei ai tentativi di dialogo strategico con la Cina se e quando si svilupperanno. Separare economia e sicurezza è reso del resto sempre più difficile dalla crescente e rabbiosa forza con cui le autorità cinesi (e sempre di più anche quelle russe) reagiscono a ogni tentativo occidentale di criticare la loro politica in materia di diritti umani; una reazione che non coinvolge solo i governi ma anche le imprese.
L’effetto Bruxelles
C’è infine una terza definizione dell’autonomia strategica, che sono tentato di attribuire alla Commissione Europea. Essa consiste nell’affidare all’UE la missione di diffondere in modo pacifico nel mondo i propri valori fondanti: il multilateralismo, la democrazia, il rispetto dei diritti umani, la sostenibilità e la lotta al cambiamento climatico. Lo strumento principale a questo fine è costituito dal nostro “potere regolatorio”, spesso chiamato “Brussels effect”.
Tutto ciò è eminentemente lodevole e anche giustificato. Tutto ciò avrà un impatto notevole non solo sulla politica commerciale dell’UE, ma anche e soprattutto sulla delicata questione della riorganizzazione delle filiere internazionali di produzione. È vero che la congiunzione dell’attrattiva del nostro grande mercato, e la nostra capacità di elaborare regole attraenti anche fuori dalle frontiere, hanno trasformato l’UE in una vera potenza in questo campo. Dobbiamo tuttavia renderci conto che il contesto attuale è molto diverso da quello in cui abbiamo operato in passato.
L’UE non può allo stesso tempo rivendicare autonomia dagli USA in nome della sua più grande esposizione al commercio mondiale e credere di poter autonomamente imporre al resto del mondo le proprie regole. Molte delle tecnologie di cui stiamo parlando – l’intelligenza artificiale, la robotica, tutto ciò che è legato a internet – non solo hanno necessariamente una dimensione globale ma rivestono anche un’importanza cruciale in campo militare. È inoltre sempre più difficile regolare tecnologie di cui non si controlla lo sviluppo.
Il dilemma in cui si trova l’UE è quindi duplice. Uno dei due grandi attori nella tecnologia del futuro, la Cina, è palesemente molto poco sensibile ai temi etici che stanno alla base della prospettiva europea. Gli USA invece, mentre possono sicuramente condividere molte nostre preoccupazioni, ma hanno chiaramente definito la tecnologia come il principale terreno di confronto, economico e strategico con la Cina. Siamo con ogni probabilità alla vigilia di uno di quei periodici salti tecnologici a cui l’America ci ha abituato da un secolo a questa parte. L’UE non può restare assente, altrimenti rischiamo di elaborare le migliori regole per difenderci dai potenziali effetti nocivi di tecnologie che non possediamo. Ciò pone l’UE di fronte alla necessità di una nuova politica industriale, ma anche di ricercare la massima convergenza con gli USA per quanto riguarda le regole.
Il problema di fondo: la mancata convergenza politica
Quanto precede dovrebbe mostrare che il concetto di autonomia diventa facilmente evanescente se non è riferito ai singoli problemi concreti che sono stati appena elencati. A questo punto, la vera questione non è definire l’autonomia, ma chiedersi se, in che misura e dove esistano i presupposti per una politica comune.
La risposta probabile è la seguente. Non c’è nessun ostacolo di carattere strategico; gli europei hanno fondamentalmente gli stessi interessi di medio e lungo periodo. Ciò che impedisce di progredire è il conflitto fra gli interessi, reali o solo percepiti, di breve periodo. Un esempio fra tutti sono gli effetti deleteri della rivalità franco-italiana in Libia che ha reso impossibile una posizione comune dopo la caduta di Gheddafi nel 2011 e ha condotto alla disastrosa situazione attuale. Un gravissimo stallo oggi condizionato da numerose potenze straniere, da cui forse si comincia faticosamente a uscire, ma da cui l’Europa è per il momento emarginata. È probabile che, come sempre è successo nel processo d’integrazione, la contraddizione fra interessi di breve e lungo termine sia risolta solo sotto la pressione degli avvenimenti.
Certo, la debolezza del sistema istituzionale è un grave ostacolo. Molte cose andrebbero meglio se le istituzioni comuni avessero più potere e soprattutto se non si fosse vincolati all’unanimità. Il problema è che le prospettive di una riforma istituzionale che richiederebbe una profonda riforma del trattato sono al momento nulle. Perché se ne possa parlare, sarebbe necessario aver realizzato una massa critica di progressi sul terreno.
Ciò ci riporta al problema della disponibilità dei governi a convergere. Un problema che emerge con sempre più evidenza, in questo come in altri campi, è che i piccoli paesi tendono sempre più a cantonarsi in una forma di egoismo che li trasforma esclusivamente in consumatori di integrazione al minimo costo. Proprio i paesi che più dovrebbero sentire la necessità di una solidarietà europea in un mondo dove contano solo le grandi dimensioni, sembrano i meno sensibili alla minaccia. La verità è che nulla cambierà senza un deciso movimento da parte dei paesi maggiori: la Francia, la Germania, ma anche l’Italia, la Spagna e la Polonia.
Come abbiamo visto, malgrado la moltiplicazione dei gesti retorici, Francia e Germania sono ancora ancorate a prospettive fra loro distanti e alimentate da diffidenza reciproca. In queste condizioni non deve sorprendere che un gran numero di piccoli paesi, soprattutto a Est ma anche a Nord, consideri molto più utile contare esclusivamente sulla continuazione della protezione americana nella speranza di potersela assicurare al minimo costo.
D’altro canto, altri piccoli paesi possono invece essere tentati dalle sirene russe o cinesi, nella speranza o nell’illusione di poter impunemente passare nelle maglie dei dissidi fra i grandi. In questa situazione di stallo, l’Italia dal rinnovato europeismo e dal ribadito incollabile atlantismo, secondo i punti di vista piccola fra i grandi o grande fra i piccoli come se fosse un gatto europeo di Schroedinger, avrebbe probabilmente molto da dire. Ma questo è un altro discorso.