Washington e Riyād: una diversa relazione speciale?

L’incontro del 4 novembre tra il segretario di Stato americano e il re dell’Arabia Saudita, Abdullah, è stato il più atteso nell’ambito del viaggio di John Kerry in Medio Oriente e Nord Africa. Un incontro che si era fatto particolarmente urgente alla luce della clamorosa decisione saudita di rinunciare al seggio di Membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, organo che Riyād ha definito “incapace di porre fine alle guerre e trovare una soluzione ai conflitti”. Secondo la versione ufficiale rilasciata dal ministro degli Esteri Saud Faisal al-Saud alla Saudi Press Agency (SPA), la scelta avrebbe due motivazioni principali: la crisi siriana e la questione palestinese. La mossa di Riyād ha sì generato stupore a livello internazionale – e perfino ottenuto una certa solidarietà da parte di Francia e Turchia – ma rischia ora di incrinare quella che fino a poco tempo fa veniva considerata una partnership indissolubile con Washington, visti i reciproci interessi delle due potenze nell’area del Golfo.

Sebbene, formalmente, le dichiarazioni di Faisal fossero rivolte alle Nazioni Unite, il messaggio è sembrato in effetti indirizzato agli Stati Uniti e alla loro politica in Medio Oriente. I primi segnali del malumore saudita si erano percepiti già in occasione del regime change in Egitto – quando Riyād aveva rimproverato a Obama prima di avere appoggiato la piazza egiziana contro Mubarak, poi di aver sostenuto i Fratelli musulmani del presidente Mohammed Morsi, e infine di essersi opposto (almeno a parole) al golpe che lo ha estromessolo scorso luglio. Malumori confermati poi quando la delegazione saudita ha cancellato il discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in settembre.

Riyād non gradisce il tentativo di rapprochement in corso tra Stati Uniti e Iran, né tantomeno l’accordo russo-americano sulla questione delle armi chimiche siriane (che ha di fatto evitato l’attacco militare americano contro le forze di Assad). Entrambi questi punti sono stati discussi dal capo dell’intelligence del Regno, il principe Bandar bin Sultan al-Saud, in un discorso molto critico nei confronti dell’amministrazione Obama fatto a diplomatici europei a Riyād pochi giorni dopo il gran rifiuto alle Nazioni Unite. In tale occasione, Bandar ha rimproverato agli Stati Uniti il frettoloso appoggio alle rivolte arabe e il mancato sostegno politico all’azione saudita nel vicino Bahrein. Sempre il principe Bandar avrebbe minacciato inoltre un ridimensionamento della cooperazione in materia di sicurezza e di intelligence con gli USA, sottolineando che “l’allontanamento da Washington è di grandi proporzioni”. A rincarare la dose si sono aggiunte poi le affermazioni del principe Turki al-Faisal, ex responsabile dello spionaggio e ambasciatore saudita a Washington, che in un’intervista ad al-Monitor del 22 ottobre scorso ha espresso tutto il suo disappunto per come l’amministrazione Obama ha gestito la politica estera mediorientale in questi anni. Esternazioni, queste, espresse da personalità molto influenti all’interno del regime saudita e che rispecchiano un livello di frustrazione molto profondo nei rapporti con gli americani.

Questa alleanza storica, che affonda le proprie radici nella nascita stessa dello Stato saudita (1932), ha vissuto momenti di difficoltà in passato, in particolare con la crisi petrolifera del 1973, ma ha poi ripreso quota allo scoppiare della rivoluzione iraniana (1979) e, nuovamente, della guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein (1990-91). Il contesto sembra essere radicalmente mutato.

Per anni la politica estera dei due paesi ha mostrato una forte convergenza, fondandosi su pochi ma chiari pilastri: lotta al terrorismo e al qaedismo, opposizione alla Fratellanza musulmana e intransigenza nei confronti dell’Iran. Punti questi che, peraltro, trovavano convergenze anche con alcune delle priorità di sicurezza di Israele. A rendere indissolubile l’asse Riyād-Washington c’era inoltre il petrolio, principale forma di assicurazione e protezione saudita contro qualsiasi avventurismo iraniano nel Golfo.

Oggi, però, con il quadro regionale cambiato, sia per via dei nuovi orizzonti strategici statunitensi e del pivot to Asia, sia per via delle rivolte del 2011, anche la relazione tra USA e Arabia Saudita sta prendendo un nuovo corso.

La Siria, il nucleare iraniano e le vicende egiziane hanno indotto Riyād a porre quantomeno dei paletti nel rapporto con Washington, nel tentativo di ricondurre l’alleato americano verso strade più sensibili alla diplomazia saudita. Al centro di tutte queste questioni sta lo scontro silenzioso tra Arabia Saudita e Iran che dura da oltre trent’anni. I Saud ritengono inaccettabile un’apertura eccessiva di Washington verso Teheran poiché favorirebbe gli interessi iraniani negli equilibri del Golfo e del Vicino Oriente. Di conseguenza, un possibile accordo sul nucleare e l’ulteriore rinvio di un attacco contro il regime alawita di Damasco sono visti negativamente in prospettiva saudita, giacché concederebbero maggiore spazio di manovra all’Iran nel Golfo e in Siria, facendo dello Stato levantino un suo nuovo satellite come è già diventato l’Iraq. Situazione, questa, che amplierebbe anche le tensioni in altri paesi terzi della regione e che vedono Riyād e Teheran in prima linea a supporto dei vari attori locali (Libano, Palestina, lo stesso Iraq, ma anche Bahrein e Yemen).

Tali differenze di vedute sull’Iran, la Siria e l’Egitto sono motivi di apprensione e, paradossalmente, stanno allineando sempre più la posizione dei sauditi con quella degli israeliani, anch’essi scontenti dall’approccio di Obama verso i principali dossier regionali. Le medesime preoccupazioni, come ha sottolineato David Ignatius sul Washington Post, sono condivise anche da Egitto, Giordania, Turchia ed Emirati Arabi Uniti, anch’essi fidati alleati statunitensi nell’area.

Ad incrinare ulteriormente l’asse Riyād-Washington potrebbe intervenire infine il fattore energetico. Il recente boom nella produzione di riserve fossili non convenzionali (shale gas e shale oil) sta rendendo Washington meno dipendente dalle forniture estere, e in particolare da quelle saudite, che per anni hanno rappresentato il principale fattore di stabilità nelle relazioni bilaterali (oltre che sui mercati mondiali dell’energia). Secondo le più recenti rilevazioni dell’International Energy Agency (IEA), entro la fine del 2013 gli Stati Uniti diventeranno il più grande produttore di greggio e gas naturale al mondo a discapito degli attuali leader, rispettivamente, Arabia Saudita e Russia.

Data la profondità delle incomprensioni tra Washington e Riyād, è difficile supporre che un semplice incontro possa ricucire lo strappo o tanto meno indurre gli USA a modificare la propria politica estera nel Golfo e nella regione mediorientale. Al di là delle dichiarazioni ufficiali di Kerry circa la “coincidenza degli obiettivi strategici” con l’Arabia Saudita, l’incontro non sembra aver sanato le divergenze esistenti fra i due alleati, pur avendo rasserenato in qualche misura il clima. Faisal, rispondendo alle domande dei giornalisti dopo l’incontro, ha precisato che la distanza tra Washington e Riyād risiede “in gran parte nelle tattiche e in misura minore riguarda gli obiettivi” delle politiche attuate in Siria e in Medio Oriente. I prossimi contatti con l’Iran nel formato “5+1” saranno un primo banco di prova per la tenuta complessiva degli equilibri regionali e per il ruolo degli attori esterni.

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