USA-Iran: il momento di non sbagliare tempo

La politica americana verso l’Iran è spesso apparsa contro tempo. Nel 2002-2003, con Khatami ancora presidente, un accordo sulla questione nucleare sarebbe forse stato possibile (anche se è un forse grande come una casa, vista l’ambiguità di Teheran). Secondo fonti autorevoli, sia iraniane che americane, uno spazio di trattativa allora esisteva. Ma l’amministrazione di G.W. Bush puntava sul regime change, il cambiamento del regime. E quindi escluse ogni forma di dialogo diretto con un esponente dell’asse del male, lasciando che a negoziare fossero Francia, Germania e Gran Bretagna. Il fallimento degli europei era scontato: per Teheran, il vero interlocutore è sempre stata l’America.

Barack Obama ha compiuto la scelta opposta a quella di Bush: ha teso la mano all’Iran per arrivare a un accordo sul nucleare. Ma lo ha fatto proprio quando stava per aprirsi –  con la contestazione delle elezioni del giugno scorso – la più grave crisi politica interna dalla rivoluzione khomeneista in poi. Insomma: Bush avrebbe forse potuto trattare sul nucleare ma ha invece scommesso sul cambio di regime; Obama si trova di fronte a una crisi di legittimità del regime ma ha invece puntato le sue carte iniziali su un accordo relativo al nucleare. Hanno sbagliato entrambi: Bush per eccesso di idealismo (il regime change come prodotto scontato dell’isolamento), Obama per eccesso di realismo (la trattativa con i regimi avversari come metodo che avrebbe di per sé garantito dei risultati).

Oggi, anche chi ha appoggiato la svolta di Obama riconosce che l’apertura è fallita. E’ il caso di un “realista patentato” come Richard Haass (il Presidente del Council on Foreign Relations si auto-definisce così), ormai convinto che sia indispensabile un radicale aggiustamento dell’approccio di Washington: dal tentativo di dialogo con il regime, al tentativo di favorirne il crollo interno. Back to the future.

Il gioco al rialzo di Ahmadinejad sulla questione nucleare rende più semplice, in un certo senso obbligata, la revisione di Obama. Ma se il pendolo della politica di Washington si limitasse ad oscillare fra un estremo e l’altro, non sarebbe un grande progresso. Perché l’Iran è le due storie insieme: aspirazione nucleare e natura del sistema politico.

Combinate, le due storie conducono a queste conclusioni provvisorie. Primo: il regime iraniano ha in parte cambiato volto. Il potere del clero tradizionale è in declino; mentre è in ascesa una casta para-militare, populista e nazionalista, che controlla larga parte dell’economia pubblica, fra cui il settore energetico. Ciò rende essenziali sanzioni più mirate agli interessi della Guardia Rivoluzionaria, perno del nuovo asse di potere. Senza la Cina a bordo e dato il peso del canale Dubai (circa il 20% del prodotto lordo di Dubai è legato al commercio con l’Iran), è difficile che nuove sanzioni internazionali, occidentali e russe, bastino a modificare l’atteggiamento di Teheran e tanto meno a provocare il crollo del regime. Ma sanzioni mirate potranno complicare lo sviluppo del programma nucleare, ritardandolo. Anche perché – questa la seconda conclusione – il tentativo iraniano di avvicinarsi alla fatidica soglia è sempre più esplicito: il recente Rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica lo conferma.

L’AIEA non dice niente sui tempi del programma nucleare iraniano. Secondo fonti americane, l’Iran avrà comunque dei problemi tecnici per passare dall’arricchimento dell’uranio al 20% (una capacità raggiunta, secondo il Rapporto di Vienna) a quel 90% necessario a costruire una bomba nucleare. Avrà quindi bisogno di tempo:  Dennis Blair, Direttore del National Intelligence americano, lo misura in un paio di anni piuttosto che in mesi. Barack Obama, alle prese con la guerra in Afghanistan e con la crisi economica, ha da parte sua un interesse evidente a guadagnare tempo. E l’America non esclude del tutto uno scenario di contenimento (lo indicano i nuovi accordi militari con le monarchie del Golfo), la cui premessa implicita è che un Iran nucleare potrà essere bilanciato e controllato. La sensazione, tuttavia, è che Ahmadinejad rischi di ripetere lo stesso errore di Saddam Hussein: il gioco al rialzo può sfuggirgli di mano. E un intervento israeliano (o israeliano con appoggio americano) resta un’opzione sul tavolo. Perché Israele percepisce un rischio esistenziale vero; e d’altra parte non ritiene che una strategia di contenimento – che ha funzionato con URSS e Cina – possa invece funzionare con la leadership iraniana di oggi.

Terza conclusione: l’opposizione esiste e in qualche modo persiste nonostante la brutalità della repressione ma non ha la forza (per ora) di trasformare il movimento di protesta della società urbana in un cambiamento di potere. Non solo, gli antagonisti di Ahmadinejad difendono a loro volta il programma nucleare, anche per non lasciare al presidente in carica il monopolio del nazionalismo. 

Tutto questo preclude risposte semplici. Ma se la scommessa è che l’orologio del programma nucleare batta più lentamente dell’orologio della crisi interna iraniana, gli Stati Uniti e l’Europa (si spera) devono concentrare gli sforzi su entrambi. Sul problema nucleare ma anche, finalmente, sui diritti umani e la democrazia in Iran. In questa duplice chiave, lo strumento sanzioni è quanto mai delicato: perché sanzioni volte a colpire i regimi, rischiano sempre – per definizione – di isolare le società. Di conseguenza, è decisiva la loro gestione: la proposta del Dipartimento di Stato (finora non accolta dal Tesoro) è di combinare a sanzioni economiche più dure l’abolizione di vecchie sanzioni americane sulla licenza di esportazione in Iran di prodotti Microsoft utili al funzionamento di Internet e dei “social network”. Perché questo tipo di sanzioni,  come è evidente, facilitano il controllo interno di un regime più fragile di quanto sia mai stato dal 1979.

Sarebbe nefasto se, ancora una volta, la politica americana e internazionale si dimostrasse contro tempo.

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Marta Dassù è Direttore Generale – Attività Internazionali di Aspen Institute Italia e Direttore di Aspenia. Ha pubblicato di recente Mondo privato e altre storie (Bollati Boringhieri, 2009).

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