Le due crisi dell’Europa

Ci sono due modi per leggere la crisi dell’Unione Europea. Il primo è – per così dire – “classico”; visto l’impatto della crisi finanziaria e visto che i primi segni di ripresa non hanno ancora prodotto benefici sociali diffusi, il problema europeo è essenzialmente economico. E lo è anche il rimedio: in giugno, i governi del vecchio continente discuteranno di come costruire una Unione economica e monetaria che funzioni – ossia più integrata in campo fiscale e più attenta alla dimensione sociale, anzitutto ai numeri della disoccupazione. D’accordo, ammesso che un accordo si trovi. Nel frattempo però – questa è la seconda lettura – la crisi europea è diventata una crisi politica, prima che economica. Estremizzando un po’, il problema Grecia, con SYRIZA al governo, è anzitutto un caso politico; ed è politico, prima che finanziario, il rischio di contagio.

È probabile, io credo, che la Grecia resterà nell’euro, alla fine dell’estenuante tira e molla con Brussels e con Washington (Fondo Monetario Internazionale). Ma nel frattempo la febbre politica dell’Europa è sempre più alta.

Prendiamo il caso della Polonia, Paese dove l’economia va bene, anzi benissimo dicono a Varsavia. Smentendo ancora una volta i sondaggi (un giorno o l’altro si dovrà capire a cosa servono), il Presidente polacco uscente, il liberale Bronislaw Komorowski, ha dovuto cedere il posto ad Andrej Duda, esponente poco conosciuto del partito di Jaroslaw Kaczynski, nazionalista euro-scettico. Perché? Non solo perché la Polonia agricola dell’est preferisce la destra populista (non è certo una novità), ma perché la gioventù urbana cresciuta nel dopo 1989 non ha dato il suo voto al governo in carica e ha preferito il voto di protesta. La protesta tout court: votare contro e cambiare, cambiare comunque. Vedremo, alle parlamentari di ottobre, se sarà davvero un cambio sostanziale per un Paese decisivo sul delicato fronte Est dell’Unione Europea. Nel frattempo, il risultato è già quello di indebolire in modo evidente il Presidente del Consiglio Europeo, l’ex Premier polacco Donald Tusk. L’Europa, in effetti, ha perso due volte.

Guardiamo adesso alla Spagna: il partito popolare di Mariano Rajoy è ancora il primo partito del Paese, dopo le elezioni amministrative, ma ha perso oltre 10 punti. Soprattutto, Barcellona è stata conquistata da Podemos, il movimento anti-austerità generato dagli Indignados; mentre declina il PSOE socialista e guadagna spazio a Madrid il movimento centrista dei Ciudadanos.

Con colori e in modi molto diversi, i movimenti di protesta – dalla Grecia, alla Polonia, alla Spagna – mettono in forse il quadro politico, colpendo i partiti tradizionali e condizionandone l’agenda. L’Europa è in parte causa e in parte vittima di questo notevole sconquasso. I movimenti anti-establishment sul piano nazionale sono anche movimenti anti-europei o euro-scettici. La crisi delle democrazie nazionali è anche la crisi dell’Unione Europea. Se decisioni intergovernative prese a Bruxelles diventano ostaggio di dinamiche domestiche, l’impianto dell’UE non potrà reggere a lungo.

Anche quando anche i governi in carica vincono – è il caso di Londra, con David Cameron – il prezzo può comunque essere un rischio aggiuntivo per la tenuta del vecchio continente; per quanto lo scenario Brexit (una uscita della Gran Bretagna dall’UE) appaia oggi abbastanza improbabile, il negoziato fra Londra e Bruxelles non sarà certo semplice.  

Se la crisi dell’Unione Europea, nata come crisi finanziaria e sociale, è oggi una crisi politica; se il timore di contagio attraversa i partiti, prima che i mercati, i rimedi si complicano notevolmente. Il caso Grecia, da questo punto di vista, è abbastanza istruttivo; se non altro perché dimostra quanto sia ormai scarsa la fiducia fra le parti negoziali. E l’Europa non avrà certo molto futuro se la fiducia fra i suoi membri, e fra i cittadini e Bruxelles, non verrà rapidamente ricostruita.

L’Europa non è un lusso, nell’epoca della competizione globale fra spazi continentali. Come nota giustamente Henry Kissinger nel suo ultimo libro sull’ordine mondiale (che manca), un’Europa che continui a dilaniarsi nelle proprie difficoltà interne finirà per essere marginale. Non siamo ancora esattamente a questo punto: la lezione degli ultimi anni, tuttavia, è che ci troveremo proprio lì – in una condizione di appendice vulnerabile dello spazio euro/asiatico, per usare i termini brutali di Henry Kissinger – se le forze che credono nell’Unione Europea come bene o almeno come male necessario non avranno il coraggio di affrontare seriamente la sfida del consenso democratico. L’anti-politica nazionale ha questo merito, per paradossale che sia: di richiedere, finalmente, una vera risposta europea.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 26 maggio 2015.

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