La televisione ai tempi di Internet – Conversazione con Moeed Ahmad e Peter Bale

Moeed Ahmad è New Media Department Manager – Al Jazeera Network -Qatar
Peter Bale è Vice President and General Manager – CNN International Digital – Londra

I venti anni della rivoluzione di Internet ci hanno consegnato un mondo della comunicazione molto diverso. Cosa ha significato e significa per due grandi network televisivi come CNN e Al Jazeeera l’avvento del mondo 2.0?

Moeed Ahmad – La tecnologia digitale ha certamente cambiato radicalmente il modo di generare, produrre e distribuire informazione. Oggi chiunque può girare un video con telecamere e telefonini e caricarlo poi su un social network. La televisione è quindi facilitata dal mondo 2.0: seguiamo i fatti in modo più produttivo ed efficace. Teatri di instabilità come ad esempio la Palestina sono più decifrabili grazie anche ai i nuovi media che ci consegnano un racconto preciso e tempestivo. Il nostro mestiere acquista una prospettiva al tempo stesso più larga e più accurata rispetto al recente passato.

Peter Bale – Aggiungerei un altro elemento importante: Internet e la tecnologia hanno portato più onestà e trasparenza nel mondo dell’informazione e hanno influito in modo radicale sull’aspetto organizzativo della produzione e sul rapporto con l’opinione pubblica. Oggi pubblicare una notizia su Internet vuol dire sottoporsi ad un giudizio immediato – di approvazione o critica, ma in ogni caso tempestivo. A mio avviso la circolazione Internet mette a disposizione di una larga fetta di utenti un’informazione qualificata e di alto contenuto intellettuale. Si diffonde una dose superiore di conoscenza dei fatti e di consapevolezza che ci rende meglio informati ma impone anche a noi giornalisti un racconto più dettagliato e contestualizzato: in sostanza siamo costretti a raccontare meglio le notizie.

Televisione e web non sono quindi antagonisti. Il futuro allora è nella sinergia?

Moeed Ahmad – Il sito Web di Al Jazeera è concepito come un canale completamente diverso dal network televisivo. I tempi della televisione sono ovviamente molto ristretti mentre quelli della rete ci permettono di andare nel dettaglio di una storia di copertina che sul canale televisivo ha spazi ridotti. Quando un gruppo di lavoro di Al Jazeeera affronta una “top story” ovviamente accumula moltissimo materiale che non viene utilizzato in un prodotto finale della durata di pochi minuti. Di conseguenza il sito diventa il luogo di approfondimento, oltre che di lancio, delle notizie: sostanzialmente un modo efficace per rafforzare il brand.

Peter Bale – CNN.com è sicuramente un ottimo strumento per rafforzare l’immagine della nostra rete televisiva. Dobbiamo però imparare ad essere più sofisticati nel nostro modo di raccontare le storie. Tramite web possiamo rivolgerci al nostro utente in modo diverso da come facciamo in televisione, creando un’interessante interazione tra il network e i suoi utenti che porterà grandi cambiamenti nel modo di costruire il prodotto multimediale. Il brand CNN può esprimersi, dunque, in spazi differenti: mentre la tv è sempre di più il luogo dello sport e dell’intrattenimento, il web diventa sempre più il luogo delle news. In una sorta di divisione dei compiti che rende il media multitasking, l’interazione portata dal web è fondamentale.   

Nel nuovo ecosistema della comunicazione come cambiano le strategie pubblicitarie?  

Moeed Ahmad – Nei paesi in via di sviluppo gli “old media” sono ancora i ricettori della pubblicità tradizionale : intorno al 95% della spesa pubblicitaria viene pianificata sui vecchi media e il restante 5% su Internet. Nel mondo occidentale postindustriale il rapporto è 60% a 40%.

Peter Bale – Penso che in futuro dovremmo essere molto più creativi. Certo i vecchi media non possono fare a meno della pubblicità. Però  i nuovi media ci consentono di arrivare ad un target molto più preciso: è più facile associare l’utente a una marca particolare non solo mediante il consumo, ma catalogando tramite il traffico internet i suoi gusti e le sue scelte. Noi come network televisivi dobbiamo prendere atto della realtà ed essere molto innovativi per offrire ai pubblicitari prodotti consoni a questo nuovo tipo di utente.

La rivoluzione digitale ha cambiato e  cambierà i rapporti tra comunicazione e politica. Il mondo 2.0 porterà, nel lungo termine, a un’idea diversa di democrazia?

Moeed Ahmad – La questione si pone diversamente se parliamo di paesi sviluppati, di paesi in via di sviluppo o estremamente poveri. In alcune aree dell’Africa, ad esempio, esistono priorità diverse rispetto alla rete o ai social network: nel ridisegnare la democrazia conterà molto di più sconfiggere fame e sottosviluppo piuttosto che scambiarsi messaggi su Twitter.
Anche laddove esiste una crescente abitudine alla rete (in Iran ad esempio), la democrazia non è certo una realtà. I social network hanno avuto un ruolo importante nelle proteste di piazza ma non hanno prodotto un sistema politico alternativo.

Resta però il fatto che la rete  è sempre di più un mezzo di sostegno alla libertà di espressione che aiuta la costruzione di società più democratiche. Internet ha certamente cambiato i rapporti di forza tra politica, informazione e comunicazione. Il potere  – sia esso autocratico o democratico – cerca una qualche forma di controllo sulla rete, ma con efficacia diversa in base ai contesti: un conto sono, infatti, i poteri centralizzati molto forti come quello cinese, altra cosa sono gli ex autocrati spazzati via dalla primavera araba. La capacità censoria ha certo una grande efficacia se gestita da Pechino,meno se esercitata a Tunisi o Tripoli.

Peter Bale – Penso che nel rapporto tra potere e informazione esistano ancora molte storie da raccontare. Non molto si è saputo ad esempio sui bombardamenti Nato in Libia,anche per la scarsa informazione fornita dall’Alleanza Atlantica. E in Afghanistan siamo di fronte ad una situazione duale, direi sbilanciata: mentre i media occidentali hanno a disposizione molte informazioni da parte americana e britannica, molto meno si sa sulla realtà talebana. Uno squilibrio che va colmato. Non è solo una problema di rapporto con i nuovi media, ma attiene alla capacità del giornalista di raccontare storie.

E, al tempo stesso, cresce sempre più nelle società civili  una richiesta di assunzione di responsabilità da parte dei media, un’esigenza di qualità dell’informazione. Pensiamo a fenomeni come Occupy Wall Street e come gli Indignados in Spagna: se da una parte dimostrano la capacità aggregatrice della rete, fanno anche emergere nuovi rapporti tra società civile e informazione, ad esempio una profonda insoddisfazione verso i grandi media. Non si tratta solo di filmare e mandare in rete scene di piazza. Se volessi essere particolarmente pessimista, direi soprattutto che i leader politici sembrano poco interessati ad ascoltare e capire realmente questi fenomeni. Esiste il rischio concreto di perdere il contatto con un’intera generazione.

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