La Germania e la “exit strategy” dei tagli fiscali

Il rigore di bilancio sembra non essere più di moda in Germania. A poco più di un mese dalle elezioni, il nuovo governo ha annunciato un cospicuo piano di sgravi fiscali. Una mossa prevedibile, in linea con le promesse fatte durante la campagna elettorale, soprattutto dai liberali. Ciò che sorprende, invece, è la totale assenza di copertura finanziaria. Nonostante il disavanzo superi abbondantemente la soglia del 3 per cento del prodotto interno lordo, l’obbiettivo di pareggio di bilancio è rimandato, per ora. Almeno nel breve periodo, Angela Merkel vuole puntare sulla crescita. Risparmiare in questo momento potrebbe a suo avviso acuire ancor di più la già delicata situazione dell’economia tedesca. Con una contrazione del 5 per cento attesa per l’anno in corso, la cancelliera non vuole rischiare. E quindi, via con i tagli fiscali.

Il piano prevede per l’anno prossimo 21 miliardi di euro di riduzione delle imposte (inclusi i 14 già decisi dalla Grosse Koalition) di cui 2 miliardi alle imprese, 1 miliardo di tasse di successione e 4 miliardi di maggiori detrazioni per famiglie con figli a carico. Ulteriori tagli sono previsti per il successivo triennio.

Un programma ambizioso, subito ribattezzato dalla stampa “il terzo pacchetto fiscale” che va ad aggiungersi ai primi due, varati tra ottobre e gennaio scorsi, per un totale complessivo di oltre 100 miliardi di euro.

Lo scopo del governo è stimolare la domanda interna, anello debole dello sviluppo tedesco basato essenzialmente sulle esportazioni. Nel contempo l’alleggerimento fiscale sulle imprese dovrebbe liberare produttività, generando un riassorbimento della disoccupazione e quindi una riduzione della spesa pubblica. Stime recenti indicano che 100mila disoccupati in meno significano 2 miliardi di risparmio per il welfare state. “Non ci sono garanzie che questi interventi funzionino, ma ci sono buone possibilità e dobbiamo provare”, ha dichiarato la Merkel con il suo solito piglio pragmatico.

Quella che sembra la più popolare delle decisioni, però, non a tutti piace. A cominciare dai Länder. Gli Stati federali temono di essere coloro che alla fine pagheranno il conto, dal momento che la maggior parte degli sgravi riguardano tasse che alimentano i bilanci regionali. La città-Stato di Berlino, amministrata dalla sinistra e fortemente indebitata, ha minacciato di fare ricorso alla Corte Costituzionale. Sul piede di guerra pure la regione della Sassonia-Anhalt, guidata invece da un cristiano-democratico. Il pacchetto di sgravi deve ancora essere approvato dal Bundestag, e soprattutto dal Bundesrat, la Camera Alta del Parlamento dove siedono i rappresentanti delle regioni. Si preannuncia un dibattito non facile. 

Aspre critiche provengono dal mondo dell’industria. La Confindustria tedesca, per voce del presidente, Hans-Peter Keitel, ha dichiarato che tagli fiscali privi di copertura finanziaria rischiano di minare la credibilità del paese, scoraggiando innanzitutto gli investitori esteri. La priorità del governo dovrebbe essere, a suo parere, il consolidamento fiscale, con un piano di rientro del disavanzo e del debito che passi anche attraverso la riforma dello stato sociale. Gran parte del risparmio della spesa pubblica potrebbe provenire proprio da lì, visto che in Germania la maggioranza delle uscite è di natura assistenziale.
 
Le reazioni dell’esecutivo, per ora, sono prudenti, e trapelano scarsi dettagli sui tagli da attuare. Wolfgang Schäuble, il neo-Ministro delle Finanze, non si sbilancia, e non perde occasione per sottolineare il suo ruolo di “guardiano dei conti”. Ecco perchè sono in pochi a credere che la Cancelliera – che ha fatto del rigore un asset del suo precedente mandato e ama ripetere “un pfenning risparmiato è un pfenning guadagnato” – intenda veramente mettere da parte l’obbiettivo del bilancio in pareggio. Secondo un’inchiesta del canale televisivo ZDF, ad esempio, solo il 29% dei tedeschi si aspetta un’effettiva riduzione delle imposte non associata ad un’adeguata copertura.

All’estero la ricetta tedesca sembra raccogliere maggiori consensi. In Francia innanzitutto. Sarkozy ha deciso per l’abolizione, a partire dal 1° gennaio prossimo, della Taxe professionelle. Nonostante le proteste degli enti locali che verranno privati di un gettito rilevante, il presidente francese è intenzionato ad andare avanti: dopo l’approvazione dell’Assemblea Nazionale, aspetta fiducioso il passaggio al Senato.

Le misure tedesche piacciono, quindi, ma continuano a sollevare critiche e perplessità. Un programma che cerca di far ripartire l’economia oggi – attraverso tagli alle imposte – e rinvia al domani il consolidamento funziona solo se quest’ultimo è credibile; altrimenti, l’incertezza sullo stato delle finanze pubbliche future e il timore che le immediate riduzioni di tasse si traducano in aumenti nei prossimi anni, rischiano di far venir meno l’effetto di stimolo sulla crescita. Sotto questo aspetto la Germania parte avvantaggiata. La Merkel, la credibilità se l’è guadagnata sul campo riportando nel 2008 il bilancio in pareggio dopo anni di finanze allegre del precedente governo Schröder. Ha peraltro blindato i conti federali di medio termine imponendo al disavanzo, con una modifica della Costituzione, un tetto dello 0,35 per cento del Pil entro il 2016.

Altrove, invece, dove i conti pubblici non sono stati risanati prima della crisi, la promessa di correggere il disavanzo nel tempo, dopo aver ridotto la pressione fiscale, rischia di non essere altrettanto credibile. E il differenziale dei tassi di interesse tra i titoli di stato tedeschi e quelli, più elevati, degli altri paesi, è una riprova che, nonostante l’annuncio di tagli fiscali, le finanze tedesche rimangono più solide. 

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