La corsa dei BRICs ai posti che contano

Sconfitti nella corsa alla Banca Mondiale e obbligati a digerire un compromesso al Fondo Monetario Internazionale: i BRICs sono stati protagonisti di due prove di forza finite non troppo bene nelle ultime settimane, ma le conseguenze potrebbero essere di ben differente tenore.

I paesi emergenti economicamente più forti (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) si sono imposti all’indomani della tempesta finanziaria del settembre 2008 grazie alla loro crescita in grado di trainare il pianeta, riuscendo a incassare un doppio importante risultato: l’assegnazione al summit del G20, di cui sono parte, del ruolo di più importante foro economico internazionale (prima di allora attribuito al G8) e l’accettazione nel 2010 da parte del FMI di una riforma della governance interna che assegna proprio a quei paesi un maggiore potere di voto a scapito dei paesi europei, divenuti assai più deboli. Ma la riforma del FMI fino a questo momento è rimasta sulla carta per la parallela ritrosia americana a versare nuovi aumenti di fondi e l’ostilità europea a cedere una quota del proprio potere decisionale. Il malumore davanti al ritardo dell’applicazione di un’intesa già approvata è degenerato in aperta irritazione quando, la scorsa estate, la defenestrazione del direttore esecutivo dell’FMI, Dominique Strauss Kahn, ha portato alla sua quasi automatica sostituzione con Christine Lagarde, anch’essa francese. I BRICs infatti ritenevano, in base alla riforma del 2010, di aver diritto a partecipare ad una selezione del successore “nella massima trasparenza” e “con la presentazione di più candidature”, come la riforma prevede, ma nulla di simile è avvenuto.

È noto da tempo che le grandi economie emergenti puntano al superamento degli equilibri di Bretton Woods, siglati fra Stati Uniti ed Europa alla fine della Seconda Guerra mondiale, i quali prevedono l’assegnazione della guida della Banca Mondiale ai primi e del FMI alla seconda. Ironia della sorte ha voluto che il nuovo smacco subito con la nomina di Lagarde è stato seguito in autunno e inverno dal divampare della crisi del debito europeo che ha ulteriormente rafforzato il ruolo dei BRICs di traino del PIL planetario. Alla sessione autunnale del FMI a Washington, come al summit del G20 di Nizza in novembre, i BRICs sono stati veri protagonisti, chiedendo all’eurozona di sanare in fretta una crisi del debito che rischiava di travolgere anche le nuove economie. Così, il 22 marzo hanno tentato ancora una volta di incassare dei risultati capaci di aumentarne la statura economica internazionale. Sul fronte della Banca Mondiale ciò è avvenuto con la candidatura alla presidenza di Ngozi Okonjo-Iweala, ministro delle Finanze della Nigeria, e José Antonio Ocampo, ex ministro delle Finanze della Colombia. Ciò nella speranza che uno di loro potesse raccogliere il sostegno dei paesi industriali, spingendo la Casa Bianca a rinunciare a reclamare il posto lasciato scoperto da Robert Zoellick, arrivato alla fine del mandato. Ma il presidente Barack Obama non ha prestato attenzione alle richieste dei BRICs, scegliendo piuttosto un candidato americano con il profilo tale da poter rivendicare di essere in qualche modo “globale”: Jim Yong Kim, di origine sudcoreana. L’annuncio della candidatura di Jim Yong Kim, avvenuto alla vigilia della partenza per Seul, ha chiuso la partita della successione di Zoellick mettendo i BRICs nella condizione di dover battere ancora una volta in ordinata ritirata.

È in questo clima che si è svolta la sessione primaverile del FMI con Christine Lagarde addirittura in pressing sui quattro emergenti per ottenere almeno 100 miliardi di dollari in prestiti da adoperare come “firewall” in difesa di un euro assai malconcio. Cina e Brasile durante i lavori a porte chiuse hanno guidato il fronte del dissenso affermando che non avrebbero garantito dollari in assenza di progressi sull’applicazione della riforma. In realtà hanno poi accettato la cifra complessiva di circa 70 miliardi che dovrebbe essere annunciata dai leader dei BRICs in maniera congiunta prima del summit del G20 che si svolgerà in giugno a Los Cabos, in Messico.  A conferma dell’asprezza dello scontro avvenuto al FMI i BRICs nel comunicato finale non hanno esplicitamente parlato di firewall del FMI, limitandosi a non far mancare l’unanimità. L’impressione è che siamo giunti all’ultima fermata di questa partnership Occidente-BRICs condizionata dagli equilibri del dopo-1945. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, infatti, in base all’intesa di Washington, hanno la possibilità di decretare il successo o il fallimento del FMI perché un eventuale passo indietro sui fondi condannerebbe la moneta unica europea ad un vortice di pericolose speculazioni. Da qui il fatto che sebbene i BRICs appaiano una sorta di coalizione-brancaleone, segnata dai dissensi interni, in realtà si stanno avvicinando all’obiettivo di avere un peso specifico più adeguato alla porzione di PIL globale che rappresentano. Passando di sconfitta in sconfitta, si stanno avvicinando alla vittoria tanto a lungo attesa perché a giocare in loro favore è il fattore tempo: USA ed Europa possono riuscire a ritardare ma non ad impedire la nascita di un nuovo assetto della finanza internazionale.

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