Nelle elezioni per il parlamento turco del 1° novembre, la cui regolarità sarà probabilmente oggetto di contestazioni, il Partito Democratico dei Popoli (HDP) di Selahattin Demirtaş è riuscito per un soffio a superare la soglia di sbarramento, con il 10,5% dei voti. Nonostante la perdita di 2,6 punti percentuali e di 21 seggi rispetto alle ultime elezioni, questo risultato non rappresenta una sconfitta per il partito, dato che le particolari condizioni in cui è maturato hanno reso la campagna elettorale dell’HDP estremamente difficile.
Da un lato, il partito è stato oggetto dell’attenzione del presidente Erdoğan, che ha esplicitamente individuato nell’HDP il principale responsabile per la mancata conferma della maggioranza assoluta dell’AKP nel giugno scorso, attaccandolo più volte nei suoi discorsi. A questi attacchi verbali, il partito di governo ha accompagnato una campagna che, a livello nazionale, ha cercato di accostare l’immagine del partito al terrorismo del PKK; mentre nello stesso tempo investiva considerevoli risorse per strappare voti all’HDP nelle sue roccaforti nel sud-est curdo del paese. Il partito di Demirtaş, forse in misura ancora maggiore rispetto agli altri partiti di opposizione, ha avuto d’altra parte scarse occasioni per fare sentire la propria voce: sia nei media radiotelevisivi, fortemente sbilanciati a favore del partito di governo, e intimiditi dalle operazioni condotte negli ultimi giorni di campagna elettorale contro alcuni media anti-governativi; sia nella campagna elettorale sul terreno, condotta in tono minore e in un clima di paura dopo gli attentati di Ankara del 10 ottobre.
Nello stesso tempo, l’HDP ha dovuto gestire un difficile rapporto con il gruppo armato PKK, che tuttora ha un’influenza cruciale sulla popolazione curda della Turchia, in un difficile momento caratterizzato da un’intensificazione della violenza nel sud-est turco. Questo non solo a causa dell’imbarazzo che crea l’associazione con il PKK agli occhi dell’opinione pubblica, accresciuto nelle ultime settimane dall’escalation di violenza tra la formazione armata curda e l’esercito turco; ma anche per la latente ostilità di una parte del PKK stesso, che nel Partito Democratico dei Popoli vede un pericoloso competitore per l’egemonia tra la popolazione curda. Questa situazione di tensione, accresciuta dagli eventi nella vicina Siria, è culminata appunto nell’attentato suicida del 10 ottobre ad Ankara, ancora senza un colpevole ufficiale, che ha causato almeno 102 vittime proprio tra i partecipanti ad una manifestazione per la pace sostenuta dall’HDP. Un evento, questo, che è risultato probabilmente cruciale nello spingere alcuni elettori a dare il proprio voto al partito di Erdoğan, nella speranza che garantisse sicurezza e stabilità.
Nonostante il relativo ridimensionamento, la conferma in parlamento del partito di Demirtaş riveste un’importanza storica, in quanto il partito rappresenta l’affermazione sulla scena politica turca di due forze tradizionalmente emarginate e represse. La prima è proprio la componente curda, che – fino alle riforme promosse dal partito di Erdoğan – era sottoposta a forti limitazioni, non avendo nemmeno il diritto di usare la propria lingua in pubblico. Le severe leggi sul terrorismo e sull’integrità dello stato, in particolare, erano state usate spesso contro i partiti curdi, che erano stati a più riprese chiusi dalla Corte costituzionale (l’ultimo caso è stato, nel 2009, il Partito della Società Democratica), a causa dei presunti legami con il PKK. Le formazioni curde sono inoltre sempre state penalizzate da una legge elettorale fortemente distorcente con una soglia di sbarramento del 10%, che aveva sempre costretto i parlamentari curdi a presentarsi come indipendenti per riuscire ad essere eletti.
La seconda componente del partito è quella della sinistra socialista e socialdemocratica, che era stata di fatto sradicata dal sistema politico e dalla società turca dal colpo di stato del 1980. L’HDP è infatti riuscito, molto efficacemente, ad uscire dalla caratterizzazione di partito rappresentante della minoranza curda, per rivendicare, a livello ideologico, le istanze della sinistra emersa dalle manifestazioni di Gezi Parki, con forti componenti egualitarie, ambientaliste, e di attenzione alle minoranze. Questo non solo in senso etno-culturale, ma anche in termini di gender issue: il partito di Demirtaş sostiene la parità tra uomo e donna, ma anche i diritti della comunità LGBT, alla quale è riservata una quota del 10% nelle liste del partito.
Quali sono dunque le prospettive per queste forze all’indomani di un voto che non solo ha frustrato le speranze di cambiamento politico, ma ha persino riconsegnato all’AKP la maggioranza assoluta dei seggi? Per i sostenitori dell’HDP resta sicuramente il sollievo di avere evitato per poco lo scenario peggiore, quello del non superamento della soglia di sbarramento, che avrebbe condannato il partito all’uscita dal parlamento. La riconferma della rappresentanza parlamentare può rappresentare, per l’HDP, un punto di partenza per costruire, nella prossima legislatura, un’autentica alternativa all’HDP di Erdogan: magari con un’alleanza più organica con i repubblicani del CHP. Un’opzione che implica, necessariamente, una risoluzione del rapporto con il partito armato PKK, che non sarà facile se nel sud-est della Turchia, e nella vicina Siria, persisterà l’attuale situazione di tensione. Ma che, soprattutto, implica la condizione che nella Turchia dei prossimi quattro anni la dialettica democratica possa proseguire su binari normali: una circostanza sulla quale, oggi, non tutti scommettono.