Nelle scorse settimane si è molto scritto e parlato del disaccordo tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama sul dossier iraniano. Il possibile intervento militare che Israele proclama come opzione legittima, e l’atteggiamento parecchio prudente di Washington, sono da imputare ai complessi rapporti che intercorrono tra le due amministrazioni rispetto a un unico comune denominatore: lo sciismo.
Alcune ragioni storiche spiegano lo scenario attuale. I risultati ottenuti da Stati Uniti e Israele negli approcci con il mondo sciita sono infatti di segno opposto. Washington patì la frustrazione della Rivoluzione islamica iraniana del 1979, con la vittoria di Khomeini e la successiva crisi degli ostaggi, dalla quale l’amministrazione Carter uscì completamente umiliata. Nel 1983, Hezbollah in Libano ottenne di fatto il ritiro dei marines dopo l’attentato di Beirut che costò la vita a 241 militari americani e 58 francesi. E in Iraq, prima della loro definitiva partenza, gli Stati Uniti non sono riusciti ad arginare la violenza settaria che ormai divide la maggioranza sciita dalla minoranza sunnita.
Israele dal canto suo, in tutti gl’interventi diretti in Libano – ad eccezione del più recente, nel 2006 – ha invece sempre ottenuto l’efficace mortificazione operativa dei gruppi rivali. La stessa Siria alawita (un ramo dello sciismo), retta dalla famiglia Assad, è stata ridimensionata sin dal lontano 1967 grazie all’occupazione israeliana delle alture del Golan. E infine il trentennale Egitto di Mubarak, alleato costante di Gerusalemme, ha rappresentato nell’arco di tutti gli anni del suo mandato un continuo scacco alle aspirazioni regionali della teocrazia sciita di Teheran, come dimostrano ancora oggi i limitati rapporti diplomatici tra i due paesi (un ambasciatore iraniano al Cairo è stato designato solo nella primavera 2011).
La fase attuale può essere letta come il frutto di due errori di prospettiva, o abbagli, nel quadro dell’evoluzione dello sciismo. Il primo risale al 2003, quando in Iraq il previsto rovesciamento degli equilibri tra sciiti e sunniti – che aveva fatto correre fiumi d’inchiostro – si è rivelato meno epocale e destabilizzante di quanto si pensasse. Il secondo errore risale al 2006, quando l’ultimo conflitto libanese, dall’esito militare non risolutivo, ha minato l’autostima d’Israele e accresciuto il rango regionale di Hezbollah e dei suoi pubblici sostenitori (soprattutto Iran e Siria).
Lo sciismo resta quindi una nebulosa indecifrabile, che sfugge a ogni semplice ipotesi strategica. Sul piano ideologico, il mondo sciita condivide coi gruppi sunniti più oltranzisti – al-Qaida in testa – la denuncia per la presenza di forze occidentali sul sacro suolo dell’Islam. In questa prospettiva le monarchie sunnite di Arabia Saudita e Bahrein, di Qatar e Oman, di Kuwait ed Emirati, sono responsabili di un compromesso geopolitico assai poco coerente con una lettura coranica della realtà. In alcune occasioni il compromesso si è infatti dimostrato fragilissimo, anche perché le idee varcano i confini senza bisogno di lasciapassare: fu così per l’assassinio del premier libanese, il sunnita Rafiq Hariri nel 2005 da parte di Hezbollah. Hariri era molto vicino alla monarchia saudita, e quindi additato come oppressore degli sciiti del Golfo che vivono sotto il giogo di Riad.
Il cuore pulsante del mondo sciita è naturalmente rappresentato dall’Iran. I problemi che ruotano attorno a Teheran hanno implicazioni che abbracciano appunto la vasta comunità sciita dell’Arabia Saudita, quelle ampiamente maggioritarie di Iraq e Bahrein, del Libano e infine della Siria alawita. La valenza di questi problemi è tale che, nei rapporti già poco rilassati tra Obama e Netanyahu, la repubblica islamica ha addirittura scalzato dal primo posto in agenda la questione palestinese. Sul piano geostrategico, le incomprensioni sulla Road Map in Terra Santa sono all’acqua di rose se paragonate a quelle sullo stretto di Hormuz e sul programma nucleare iraniano.
Le differenze tra Washington e Gerusalemme, come anche i diversi accenti tra i paesi europei, non devono però far dimenticare l’oggettiva baldanza dell’Iran rispetto a diversi aspetti strategici e diplomatici, a fronte del suo atteggiamento opaco sul programma nucleare. In sostanza, Israele non è una voce isolata dal coro: semmai è solo la più alta, e ben si comprende perché. Il resto del coro è rappresentato dall’AIEA, il cui ultimo dossier lascia intendere come il programma nucleare civile iraniano sia in realtà anche un piano militare.
Tuttavia la posta in gioco è tanto strategica quanto politica, nel senso più ampio del termine, perché in campo non ci sono unicamente i governi ma anche i popoli. Quando Obama, come ha fatto più volte, lancia un appello alle masse di Iran e Bahrein, lo lancia appunto a milioni di sciiti che rappresentano il tassello chiave per la futura e auspicata democratizzazione della regione.
Intanto, la scommessa fondamentale per la supremazia del paradigma sciita di riferimento si sta giocando probabilmente in Iraq: questo dato geografico ci ricorda come la grande differenza che connota la “fazione di Ali” sia proprio di natura etnica – la componente araba di fronte alla componente persiana. Najaf contro Teheran dunque? Gli sciiti iracheni appaiono più secolarizzati dei fratelli iraniani, anche perché sotto Saddam Hussein, dittatore sunnita e baathista, un clero ortodosso non avrebbe potuto sopravvivere.
Questa visione dell’Islam non è solo dettata da pragmatismo ma anche da differenze dottrinarie. La massima autorità sciita dell’Iraq, l’ayatollah Ali al-Sistani, continua a vedere anche oggi, nel paese del dopo raìs, clero e politica come componenti nettamente separate. E’ una dottrina totalmente opposta a quella concepita e messa in pratica da Khomeini in Iran. Dietro queste due autorevoli figure, entrambi marjà al-taqlid (la massima autorità morale e giuridica per gli sciiti duodecimani) la confessione si divide tra una componente “non interventista” (quietist) e una “interventista” (activist).
Da una parte troviamo quindi figure interventiste quali Ali Khamenei (Iran), Hassan Nasrallah (Libano), Moqtada al-Sadr (Iraq), mentre dall’altra troviamo figure aperte al dialogo, come Ali al-Sistani (Iraq), Mohammad Khātami (Iran) e tutta la gioventù di mezzo persiana, non solo quella dell’onda verde. Paradossalmente anche Mahmud Ahmadinejād appartiene a questa generazione, che ha ricevuto in eredità un Iran teocratico con il quale si trova oggi a fare i conti nella lotta per il potere in aperta sfida contro la Guida Suprema. Ecco perché alcuni analisti hanno indicato il Presidente iraniano, nonostante le tante contraddizioni e provocazioni, come un possibile interlocutore per l’Occidente.
Chi rappresenterà dunque il paradigma del futuro sciita? l’Iran vetero-khomeinista di Khamenei o l’Iraq secolarizzato di al-Sistani? Se Ahmadinejād dovesse uscire sconfitto dal confronto con la Guida è probabile che l’Iran sciita teocratico degli ayatollah continuerà a considerarsi il depositario del dogma rispetto al clero arabo sciita più conciliante, e tenterà di estendere ulteriormente la sua influenza sull’intera galassia sciita. Se per gli Stati Uniti la questione è dirimente per decifrare nel medio periodo il levante mediorientale e la Mesopotamia, per Israele il quesito – in questo particolare momento storico – rischia di suonare solo accademico: dargli torto è intellettualmente legittimo, ma nella consapevolezza delle responsabilità in gioco.