Alle organizzazioni internazionali e non governative che battono il pugno sul tavolo chiedendo di fare di più per le donne, il regime saudita risponde con una lista di promesse dove elenca una serie di programmi e di politiche rivolte alla componente meno ascoltata della popolazione. Almeno una di queste è stata mantenuta:il 12 dicembre le saudite hanno potuto finalmente partecipare, attivamente e passivamente, alle elezioni municipali. Ma la strada per la loro partecipazione al mercato del lavoro è ancora in salita.
Visto che solo il 16,4% delle donne dedica parte della sua giornata a faccende extra-domestiche, gli Al-Saud devono ancora impegnarsi per poter dire di aver realizzato la promessa della piena partecipazione rosa al mercato del lavoro.
Quanto fatto dagli anni Novanta ad oggi, soprattutto dal 2005 e durante il regno di re Adbullah, mostra indubbiamente dei progressi. Nel 1992 solo il 5% delle donne lavorava e ora, oltre a quelle nominate dal sovrano nel Majlis al-Shura- il Consiglio consultivo di nomina reale che ha funzioni esclusivamente consultive – alcune hanno iniziato a sedere nei consigli direttivi e in qualche caso – Gedda in primis – sono state elette alle camere di commercio. Ciononostante, quando si sfogliano le classifiche che indicano il tasso di occupazione femminile, l’Arabia Saudita resta nelle posizioni più basse delle classifiche. E il quadro non cambia neanche se ci si limita a guardare i dati provenienti dai paesi del Golfo.
Tra gli 11,9 milioni di persone che compongono la forza lavoro saudita, 1,9 sono donne. Tra queste, molte però sono straniere, e le lavoratrici saudite si riducono a 1,2 milioni. Il numero delle disoccupate (21,8 milioni) è circa dieci volte maggiore a quello dei disoccupati (2,7 miloni).
Vi è poi un’altra considerazione da fare. I sauditi affidano a lavoratori stranieri molte mansioni manuali e gli autoctoni che costituiscono la forza lavoro nazionale sono mediamente ben istruiti. Oltre il 91,8% ha terminato la scuola secondaria e cresce il numero di quanti hanno in tasca una laurea. Se si considera che nel 58.8% dei casi a laurearsi sono donne, queste sembrano aver la strada spianata verso il mondo del lavoro. In realtà però, visto che mancano le opportunità lavorative, le donne istruite – più degli uomini – non hanno modo di mettere a frutto le conoscenze acquisite. Il settore pubblico resta quello nel quale riescono a inseririrsi più facilmente: vi affluisce circa il 90% delle lavoratrici.
In un paese che cerca di diversificare la sua economia basata sul petrolio, puntando su lavoro qualificato, questi numeri mostrano che c’è un grande potenziale bacino dal quale attingere. O almeno ci sarebbe se si creasse un ambiente in grado di accogliere e incoraggiare le donne a fare la loro carriera.
Per modificare questo quadro, l’Arabia Saudita ha ratificato trattati internazionali contro la discriminazione di genere in ambito lavorativo – come la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, “CEDAW” – ed emanato leggi nazionali per rafforzare il loro ruolo nell’economia nazionale. Basta passeggiare per i corridoi della Camera di Commercio di Gedda, dedicata a Khadija, la moglie del profeta Maometto famosa per la sue doti imprenditoriali, per capire come c’è un’azione di lobby sui diversi ministeri per facilitare l’accesso delle donne nel mondo del lavoro. E dal 2005 (anno in cui due donne sono state elette nel consiglio direttivo di questa Camera di Commercio) ad oggi, qualcosa è cambiato. Ad esempio, le donne hanno ottenuto tutte le licenze commerciali e, almeto su questo aspetto, non c’è più discriminazione di genere.
Tali sforzi rischiano però di essere vani alla luce di una serie di limiti sociali e legali ancora esistenti. Da un punto di vista sociale, anche se inizia a diffondersi una certa consapevolezza sul ruolo che le donne potrebbero giocare nel mercato del lavoro, la loro participazione è tuttora vista con scetticismo. Da un punto di vista legale poi, anche se in teoria i diritti esistono, in pratica sono poche le norme specifiche – da quelle sulla maternità a quelle sulla malattia – che tutelano le donne. Se a questo si somma il divieto di guidare e l’obbligo del mahran (il guardiano maschio dal quale dipende la libertà della donna), nei fatti le donne devono confrontarsi quotidianamente con una serie di ostacoli che complicano decisamente la loro attività lavorativa.
Eppure, alla luce delle politiche di “saudizzazione” – attraverso le quali il governo vorrebbe incoraggiare l’ingresso dei sauditi nel mondo del lavoro rimpiazzando progressivamente gli stranieri – le donne potrebbero dare un importante contributo. Questo potrebbe essere ancora più consistente qualora le donne riuscissero ad accrescere la loro presenza nel settore privato.
Il ministero del Lavoro ha già avviato l’attività di uffici destinati a favorire proprio l’inserimento di figure femminili nel settore privato. Dopo anni di attesa, tutti i commessi di negozi di intimo sono stati sostituiti da commesse e le imprese di proprietà di donne saudite hanno superato la soglia di 25.000 alla fine del decennio scorso. Di questa realtà economica hanno dovuto tenere conto anche gli ultimi due piani di sviluppo quinquennale, con specifiche misure destinate a favorire l’attività femminile in campo economico.
Sembra quindi evidente che la macchina delle riforme necessarie si è messa in moto, ma per vederne i risultati bisogna ora cambiare marcia, affrontando con convinzione i diversi ostacoli – sociali, culturali, educativi e legislativi – che impediscono la piena partecipazione femminile alla forza lavoro, rallentando anche il progresso dinamico dell’economia saudita.
Se il regime di Riyad spendesse per il suo capitale umano le energie che per anni ha utilizzato per sviluppare le sue risorse naturali, anche le donne acquisirebbero un ruolo centrale. A beneficiarne sarebbe in primis l’Arabia Saudita nel suo complesso, la cui economia potrebbe contare su nuova e qualificata forza lavoro.