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Africa: l’epicentro dei migranti climatici

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Viviamo in un mondo dove la vaniglia batte ormai l’argento, se è vero che a maggio 2018 la sua quotazione ha raggiunto quota 600 dollari al chilo contro i 530 del metallo, E le temperature sempre più calde stanno compromettendo la produzione etiope di caffè per un pronostico, quello della stampa specializzata, di una bevanda in futuro molto più cara e naturalmente molto meno buona. E così, a volte ci si dimentica che gli esseri umani, prima ancora delle merci, sono le principali vittime del cambiamento climatico.

Calando il problema in termini geopolitici, l’attenzione si concentra sui migranti economici e qui, mentre le persone tornano al centro della questione, l’orizzonte, purtroppo, s’intorbidisce. Che essi esistano è un’evidenza della ragione; ma che abbiano ragione di esistere e in quale “forma”, per il diritto internazionale, è già più controverso; che siano infine un falso problema – o peggio il cavallo di troia della sostituzione etnica (teoria sovranista tanto rozza quanto seducente per alcuni) – rischia ormai di affermarsi come pregiudizio in ampi strati dell’opinione pubblica occidentale.

L‘aberrazione rappresentata dalla sostituzione etnica è al momento una vera e propria blue chip della propaganda politica. Diffusa tra i primi dal francese Renaud Camus all’inizio degli anni Dieci, l’idea di Grand Remplacement è riconducibile, per banalità, al trito motto del dito che indica la luna e dello stolto che si concentra appunto sul dito. La luna, in questo caso i migranti economici, si misurano oggi, e si misureranno domani, nell’ordine dei milioni.

Qui occorre tuttavia far chiarezza. Perché il dibattito sulle cifre – chi parla di 140 milioni entro il 2050, chi ritiene invece questa cifra sproporzionata – è tutto sommato secondario. Mancando una definizione univoca di migrante climatico, gli esperti svariano dai migranti forzati dall’ambiente (environmentally motivate migrant) ai rifugiati climatici (climate refugee). E ancora, dai rifugiati a causa del cambiamento climatico (climate change refugee) agli individui dislocati a causa delle condizioni ambientali (environmentally displaced person), ma anche ai rifugiati a causa di disastri (disaster refugee); infine, abbiamo gli eco-rifugiati (eco-refugee).

Molta meno incertezza, invece, sulla provenienza. Qui l’Africa, trainata dal motore demografico, gioca un ruolo determinante. Se il pioniere dei migranti climatici appartiene al Pacifico (ma l’uomo fuggito dagli atolli di Tuvalu minacciati di essere sommersi dall’oceano perse la sua battaglia legale per entrare in Nuova Zelanda) sarà l’Africa subsahariana a prendersi la scena, al netto di qualsiasi definizione scientifica la comunità internazionale vorrà dare a questo flusso annunciato.

La fortezza Europa, divenuta tale a causa di una serie di scelte difensive e miopi incardinate sulla disciplina dell’ormai infausto Regolamento di Dublino (in vigore dal 1° gennaio 2014 nella sua terza versione), vacilla di fronte ai rifugiati. Ma rischia il collasso di fronte all’urto dei migranti climatici, o economici che dir si voglia, essendo il clima il principale fattore di molte crisi economiche. Clima e crisi economica, ma anche in molti casi la  condizione femminile, sono evidentemente fattori interconnessi. Nel comparto agricolo africano, ad esempio, le donne producono la quasi totalità dei prodotti alimentari di base. Stime Onu dicono inoltre che degli 1,3 miliardi d’individui attualmente in condizione di povertà nel mondo,  il 70% sono donne.

In sintesi, dei 140 milioni di migranti climatici stimati dalla Banca Mondiale, ben 86 milioni si muoveranno all’interno dei paesi dell’Africa sub-sahariana, 40 milioni nell’Asia centro-meridionale, e 17 milioni in America Latina. I primi, con “solo” il deserto del Sahara a separarli dal Mediterraneo, si dirigeranno verso l’Europa.

Un tribunale italiano, a L’Aquila, ha appena accolto il ricorso di un cittadino bengalese – il climaticamente sfortunatissimo Bangladesh è un altro focolaio potenzialmente esplosivo per l’Europa – la cui richiesta di asilo era stata rigettata in prima istanza. Riconoscendogli la protezione umanitaria per danno ambientale, si è creato il precedente che rappresenta una sfida per la politica e il legislatore.

Il ruolo del legislatore, con i rapporti di forza che esso comporterà, sarà decisivo alla luce di uno studio capace di ribaltare il paradigma della narrazione attuale. Secondo le ricerche svolte col criterio peer-review (riesame paritario) di Richard Heede e del Climate Accountability Institute, sono le pratiche commerciali di appena 90 aziende produttrici di combustibili fossili le responsabili di due terzi degli aumenti osservati delle temperature globali tra il 1751 e il 2010.

Questa evidenza scientifica ha portato gli attori del mercato a un curioso atteggiamento in campo di comunicazione. Promuovere cioè, a livello di pubblica opinione, un messaggio di corresponsabilità collettiva rispetto al surriscaldamento globale; una visione che investe il comportamento quotidiano del singolo quando, banalmente, accende o spegne una lampadina o quando, con un occhio al budget familiare, sceglie un’auto diesel invece di una a benzina.

Molti attivisti, soprattutto nel mondo anglosassone, hanno capito che sacrificare un poco all’educazione civica (peraltro una battaglia sempre in salita) potrebbe aumentare la pressione sui grandi gruppi e quindi sulla politica, dandole modo, nel corso dei Summit internazionali sul clima, d’imporre quelle regole ferree alle emissioni sinora miseramente fallite.

I ricercatori di InfluenceMap hanno stabilito come l’attivismo pubblicistico di sole 35 società ha avuto, negli ultimi anni, un ruolo consistente nello stallo sulle politiche contro il cambiamento climatico. L’elenco include nomi di assoluto primo piano del mercato, compresa la società di un campione dell’anti-conformismo finanziario come Warren Buffett: la Berkshire Hathaway.

Ma a questo punto due considerazioni s’impongono. La prima è l’evidente principio che il problema non possa essere affrontato in termini di buoni e cattivi. Questa dicotomia intransigente è l’opposto di una fotografia verosimile e soprattutto di una via al negoziato dove le parti in causa possano giungere a una soluzione sostenibile per tutti, con precedenza scontata al pianeta.

La seconda considerazione è relativa al convincimento, sempre più diffuso tra i legali statunitensi, che unicamente le cause legali possano aprire la strada a una specie di grande inversione di tendenza sulla gestione dei cambiamenti climatici. In caso di singola condanna, anche su uno scenario minore (come una comunità locale, una città, uno Stato dell’Unione), i grandi player dell’energia potrebbero scendere a più miti consigli, in questo coadiuvati dalla politica (la politica tutta, senza distinzioni di bandiera) per una soluzione davvero transatlantica, nel senso che dagli avanzatissimi Stati Uniti essa possa raggiungere le sponde dell’Africa. E contagiare, positivamente, perfino la Cina.

Il surriscaldamento globale, d’altronde, non rispetta i confini nazionali. Le nazioni e i loro rappresentanti, pubblici e privati, troppo spesso lo dimenticano.