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Afghanistan: le forze in campo dopo il ritiro

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Sulla pagina del sito ufficiale dell’IEA, l’Emirato Islamico dell’Afghanistan (il website dei Talebani), campeggia un video realizzato con tecniche moderne e colori vivaci sull’addestramento dei combattenti islamisti. Se la finalità è fare paura e dare dei Talebani l’idea di un gruppo armato addestrato con il tradizionale training comune a tutte le forze armate nel mondo, l’obbiettivo è riuscito: anziché i soliti barbuti in turbante e sandali con l’AK47 a tracolla, appaiono soldati in mimetica, scarponi tutti uguali, bandane che coprono il volto e magliette su cui sta scritto “IEA-Quick Assault Team-Special Force”. L’armata talebana si propone come un esercito moderno (con le T-shirt scritte in inglese) che sembra rappresentare quello che dalla sua prospettiva potrebbe essere l’avanguardia delle nuove forze armate islamiche.

Un fotogramma del video

 

Ma se l’arma della propaganda via web ormai è da tempo anche nell’armamentario telematico di un gruppo che si propone come futura guida politico-militare, le forze in campo non giocano così tanto a favore di una guerriglia che ha sostituito l’elmetto al turbante soltanto nei video di auto-promozione. I Talebani non sono in realtà l’unica forza che si oppone al governo di Kabul e costituiscono solo uno dei pericoli dell’evoluzione del Paese dopo che anche l’ultimo soldato straniero avrà lasciato l’Hindukush. Quali e quante sono le forze reali in campo? Cosa pensano di fare gli ormai ex occupanti? E quali sono gli altri attori che, fuori e dentro il Paese, si preparano al “dopo”?

 

Andarsene ma rimanere: la scelta degli americani

L’amministrazione Trump aveva previsto una riduzione iniziale della presenza militare USA da 13.000 a 8.600 uomini entro luglio 2020, seguita da un ritiro completo entro il 1° maggio 2021. L’Amministrazione Biden ha poi annunciato in aprile che avrebbe continuato il ritiro, ma oltre maggio e con una data finale che coincide con l’11 settembre. Decisione cui è seguita quella dei Paesi aderenti alla coalizione NATO che, sempre in aprile, ha deciso di iniziare il ritiro delle forze della missione Resolute Support il 1° maggio 2021 per completarlo entro la prima metà di luglio, come in gran parte dovrebbero fare anche gli americani. Nel febbraio 2021, il personale NATO ammontava a 9.592 uomini – di cui 2500 americani – da 36 Paesi. E dopo? La NATO si impegnerebbe a proseguire l’addestramento in Europa di soldati afgani e i governi della coalizione dovrebbero (ma il condizionale è d’obbligo) continuare a sostenere finanziariamente le forze armate afgane (gli americani lo hanno già previsto a bilancio).

Oltre al sostegno finanziario, gli americani però non intendono esattamente uscire del tutto dal Grande Gioco. Dovrebbero dunque rimanere all’erta su due fronti: quello dell’intelligence (la CIA sta preparando nei Paesi confinanti basi da cui operare, anche se non è impresa facile) e quello di un aumento dell’impegno della marina nel Golfo da cui “controllare” quanto avviene in Afghanistan. Sia per eventuali attività terroristiche non per forza talebane (Isis, Al-Qaida) ma anche in caso le cose dovessero precipitare e i Talebani dovessero tentare di far cadere Kabul. Si tratterebbe di un lavoro di droni, aerei spia e caccia da impiegare nel teatro afgano in modalità che non sono ancora chiare, ma comunque con opzioni interventiste non escluse dal segretario alla Difesa Lloyd J. Austin – secondo cui le operazioni di sorveglianza aerea sono già iniziate assai prima del ritiro completo.

 

I numeri dei Talebani

Alla durezza d’impianto nella tattica politica, i Talebani aggiungono la pressione sul terreno. Per ora vogliono arrivare a un possibile tavolo negoziale intra-afgano (per adesso ancora lontano) da una posizione di forza. Posizione di forza espressa politicamente col rifiuto di partecipare alla Conferenza internazionale che si doveva tenere in maggio in Turchia (hanno anzi detto ai turchi che anche i loro soldati se ne devono andare come previsto dall’accordo di Doha tra USA e guerriglia del febbraio 2020). La pressione militare si esprime invece col controllo o il semi-controllo soprattutto delle aree rurali in quasi una ventina delle 35 province afgane.

Il passato sembra però raccontare di una spallata difficile se i Talebani volessero tentare una scalata militare al potere. Non ci riuscirono i mujahedin quando i sovietici abbandonarono il Paese nel 1989 anche se contavano molti più uomini di quanti non ne abbiano oggi i Talebani. I mujahedin dovettero aspettare il taglio dei fondi che Mosca smise di versare a Kabul dopo alcuni mesi. Fu solo a quel punto che, senza più salario, l’esercito che faceva capo al governo filosovietico di Najibullah si sciolse come neve al sole e la guerriglia prese la capitale. Secondo l’ultima stima delle Nazioni Unite, i Talebani potrebbero contare su una forza militare che va da 55 a 85mila uomini. Un “esercito” che arriverebbe a 100mila unità contando anche i non combattenti. La metà circa dei soldati dell’esercito nazionale afgano (ANSF) che a sua volta può contare su 150mila poliziotti e personale di intelligence. Con questo rapporto di forza, prendere le città è un’impresa impossibile.

 

Il ritorno dei mujahedin

Le vecchie famiglie di signori della guerra e capi bastone dell’epoca della resistenza contro i sovietici – o se si preferisce una riedizione della vecchia Alleanza del Nord – tornano alla ribalta. Baldanzosi e soprattutto armati, pronti a gestire quella che chiamano “seconda resistenza” (moqawamat-e do).

Lo spiega molto bene un’inchiesta di Afghanistan Analyst Network dal titolo inequivocabile (“Preparing for a Post-Departure Afghanistan”), firmata dal ricercatore Ali Yawar Adili. La parte più interessante dell’analisi riguarda il fatto che, nelle settimane successive all’annuncio del ritiro, diversi gruppi di potere periferico si sono impegnati in manovre armate per posizionarsi come attori “negli sforzi di guerra o di pace” e per controllare il teatro politico e militare: “Sebbene queste mosse abbiano principalmente lo scopo di radunare e rassicurare specifici collegi elettorali – scrive Adili –  hanno contribuito a un generale sentimento di incertezza e hanno alimentato i timori dell’opinione pubblica che il conflitto possa degenerare in una guerra a più livelli”. In altre parole una guerra civile, che l’Afghanistan ha già visto in passato, capeggiata da leader islamisti ottuagenari, conservatori e con le mani sporche di sangue del calibro di Abdul Rasul Sayyaf o dell’ex maresciallo Abdul Rashid Dostum.

Quanto a Muhammad Ismail Khan, già ministro con Karzai e noto come l’”emiro di Kabul”, il vecchio mujahedin sostiene di avere a disposizione una milizia di addirittura 500mila uomini. In sostanza un altro esercito: disomogeneo ed “etnico”, con lo scopo di combattere i Talebani e difendere sia le identità delle province che controllano sia le rendite di posizione personale dei vari leader la cui concezione dello Stato non è molto diversa da quella dei Talebani, da cui li divide giusto qualche divergenza teologica e appunto la provenienza etnica (sono tutti non pashtun). Con loro c’è anche un giovane: il trentenne Ahmad Massud, figlio del famoso comandante del Jamiat, Ahmad Shah Massud. In un’intervista ha detto che i suoi seguaci sono “pronti per la pace quanto per il suo fallimento”.

Una stanza al Museo della Jihad di Herat mostra una riproduzione di un consiglio di guerra di mujahedin

 

Il governo

A fronte di questo quadro, un elemento ulteriore di rischio viene proprio dall’esecutivo afgano o meglio dal presidente Ashraf Ghani, che non vuole mollare la presa e rifiuta sia un governo di transizione sia l’idea di farsi da parte. Ghani, che non ha brillato nei tentativi negoziali coi Talebani, è in rotta di collisione in diverse province dove la nomina dei governatori (a lui fedeli) ha sollevato malumori che si sono tramutati anche in incidenti. Né riscuote grandi consensi l’ultima trovata di un Supremo Consiglio di Stato, una sorta di super-organo consultivo che accontenti anche chi è fuori dal governo o si senta politicamente escluso. Ci dovrebbero essere l’ex presidente Hamid Karzai e il leader di Hizb-e-Islami Gulbiddin Hekmatyar così come Salahuddin Rabbani, il capo di una fazione del Jamiat-e-Islami, assieme ad altri 15 influenti personalità politiche.

Ma proprio Karzai, Rabbani ed Hekmatyar hanno storto il naso subodorando una manovra di Ghani per far finta di condividere decisioni che in realtà vuol prendere da solo. Ghani è a capo dell’apparato militare e può contare sulle persone che ha nominato ai vertici dello Stato e nelle province in questi anni ma, nella situazione attuale, servirebbe più spirito patriottico che una conta dei fedelissimi. Una debolezza che rischia di riflettersi anche sul piano militare – dove adesso si sono aggiunti i vecchi mujahedin – e che ha contribuito al fallimento dell’iniziativa turco qatariota, ONU, di una Conferenza internazionale che doveva a maggio far partire il dialogo tra afgani.

 

Le schegge di Isis e Al Qaeda

Il quadro non sarebbe completo dimenticando quel che rimane dello Stato Islamico o meglio della Provincia del Khorasan dell’autoproclamato ed ex Stato Islamico di Raqqa. Schegge impazzite (circa un paio di migliaia) che continuano a colpire e ad attrarre quando possono ex talebani in rotta coi vertici o ex miliziani stranieri (Iraq, Siria) in cerca di nuovo soldo. Fenomeno in parte residuale, come la presenza di Al Qaeda, ma che non fa che creare caos ulteriore confondendo acque già torbide. Si teme che tutte queste variabili possano essere comprate dal miglior offerente, discorso che vale anche per Talebani e mujahedin.

Come in passato, la presenza di più forze in campo, che necessitano di finanziamenti esteri, può rialimentare le ceneri del conflitto interno per servire l’agenda di chi vuole condizionare da fuori il futuro dell’Afghanistan. Una lista lunga: dai russi ai pachistani, dagli indiani ai cinesi, dall’Iran alle potenze piccole e grandi del Golfo.