A meno di un mese dall’inaugurazione di Donald Trump come 47° presidente degli Stati Uniti, si stanno definendo i contorni della politica estera ispirata al concetto “America First”. Varie dichiarazioni ufficiali dello stesso presidente, ma anche del suo Segretario di Stato, Marco Rubio, e del suo Segretario alla Difesa, Pete Hegseth, chiariscono alcuni punti centrali sul metodo e sulle priorità adottati dall’amministrazione.
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In preparazione di un possibile processo negoziale sul conflitto russo-ucraino – quando ancora non c’è un vero tavolo delle trattative e i combattimenti continuano – Washington ha fatto tre concessioni a Vladimir Putin, senza contropartita: la prima, avviare un dialogo diretto tra il presidente Trump e il presidente Putin, da pari a pari; la seconda, non aver richiesto espressamente che Kiev sia coinvolta nei negoziati; la terza, annunciare che la membership NATO per l’Ucraina non è realistica.
Ora, si noti bene che nessuna di queste concessioni era indispensabile. C’era un’alternativa a colloqui diretti con Putin, ad esempio ricorrendo ad emissari di rango inferiore che avrebbero comunque rappresentato il capo del governo russo, in modo da rendere il dialogo “tecnico” e non rinunciare a una delle sanzioni politiche imposte ai vertici russi, cioè appunto l’interruzione dei rapporti ufficiali ai livelli più alti. Si poteva poi evitare il senso di emarginazione del presidente Zelensky, attivando con lui consultazioni in tempo reale da pubblicizzare in modo esplicito, per confermare che l’Ucraina è, e deve restare, un’entità pienamente sovrana che non può essere scavalcata da intese stipulate da altri.
Infine, c’era un’alternativa pragmatica sull’eventuale ingresso nella NATO, consistente in una dichiarazione deliberatamente ambigua che tenesse quantomeno aperta questa possibile decisione autonoma dell’Alleanza sulla propria futura membership. Non a caso, è ancora questa la posizione ufficiale ribadita recentemente dal Segretario Generale, Mark Rutte (oltre che dei Paesi-membri europei). Va aggiunto che il ruolo della NATO è decisivo per le garanzie di sicurezza che dovranno accompagnare una cessazione delle ostilità, ma nel frattempo l’amministrazione Trump ha già avvertito che saranno gli europei a dover schierare le necessarie truppe sul terreno senza un contributo americano.
Non si può dunque sfuggire a una prima valutazione complessiva: l’amministrazione Trump ha scelto di impostare un negoziato bilaterale con Mosca su una base di relativa debolezza, pur di avviare una conversazione – il contrario del principio “peace through strength” spesso evocato.
A ben guardare, è stata offerta un’ulteriore concessione importante, che tuttavia era probabilmente inevitabile e che anche quasi tutti gli europei considerano già un dato di fatto: una significativa perdita territoriale per lo Stato ucraino come prezzo per un qualche cessate il fuoco. Anche in questo caso, si poteva quantomeno ridurre fin da subito la valenza politica e giuridica del delicato passaggio, precisando che non si tratterebbe di eventuali cessioni territoriali permanenti, ma soltanto di temporanee rinunce al fine di consentire la sospensione delle ostilità, lasciando poi a negoziati successivi la definizione dei confini. Dettaglio secondario, per chi considera irrilevante il diritto internazionale, ma forse non per tutti. E’ sempre utile ricordare che l’origine della guerra in Ucraina (e da alcuni mesi in alcuni territori della Federazione Russa) sta nell’invasione del Paese vicino decisa da Mosca, non in qualche forma di “corresponsabilità” o in un evento naturale come l’impatto di un meteorite.
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Allargando la prospettiva, si possono valutare le prime conseguenze dell’approccio americano per la NATO. Il Segretario alla Difesa Hegseth ha tenuto a ribadire l’impegno di Washington nei confronti dei partner europei nell’ambito dell’Alleanza, ma ha subito aggiunto che d’ora in poi quegli stessi alleati dovranno assumersi la piena responsabilità per la difesa convenzionale sul continente – il che sembra limitare sostanzialmente l’impegno degli USA alla deterrenza nucleare. Si pone poi una questione generale di fiducia reciproca, soprattutto se si colloca il rapporto di sicurezza nell’ottica più larga delle pressanti richieste di Trump alla UE per una netta riduzione dello squilibrio commerciale (che peraltro sembra non tenere conto del settore dei servizi): è comprensibile una certa confusione da parte europea a fronte di un alleato che pretende al contempo un aumento massiccio della spesa militare e una serie complessa di interventi in campo commerciale (che sono largamente al di fuori delle prerogative dei governi).
Hegseth ha infine sottolineato che la priorità per Washington non è più il continente europeo ed è invece dissuadere la Cina da uno scontro militare nel grande quadrante indo-pacifico; qui la situazione si amplia ulteriormente introducendo altri elementi di grave incertezza.
Era cosa ben nota, almeno dai due mandati di Barack Obama, che il baricentro strategico americano si è spostato verso il Pacifico. Il problema è che questo “pivot” geografico è ora interpretato apertamente da Trump come una rinuncia ad un ruolo attivo in Europa, nell’ottica di una NATO ridotta ai minimi termini. C’è da chiedersi quale messaggio recepiranno da tale scelta gli alleati asiatici degli USA – Giappone, Corea del Sud, e soprattutto Taiwan – in vista di circostanze in cui dovranno contare a loro volta sul concreto appoggio americano. Insomma, si potrebbero presto testare, proprio in Asia, pregi e difetti del metodo “transattivo” privilegiato da Trump.
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Intanto, un test parziale è già in corso in Medio Oriente, nel modo in cui Washington cerca di orientare i difficilissimi rapporti tra Israele e i suoi vicini dopo le iniziative militari su vasta scala intraprese dal governo Netanyahu. Se l’idea di fondo è tornare agli “Accordi di Abramo” del 2020, rimasti comunque sulla carta, conviene ricordare che da allora non c’è stata alcuna collaborazione tra Israele e Arabia Saudita sulla questione palestinese né sui principali dossier regionali, ed è difficile immaginare che essa si realizzi ora per un piano di deportazione di massa degli abitanti di Gaza.
Intanto, non soltanto l’Iran ha proseguito sulla strada del suo programma nucleare ma ha parallelamente aperto un canale di dialogo proprio con i sauditi. Nessuna forma di cooperazione economica è fiorita su questo sfondo, non sorprendentemente. Dunque, l’intero impianto degli Accordi di Abramo è stato smontato – almeno finora – dai fatti, sul piano militare, diplomatico, economico. All’amministrazione Biden si può certamente imputare di non essere riuscita ad influenzare granchè l’alleato israeliano; l’amministrazione Trump appare intenzionata a risolvere il problema sposando in pieno tutti gli obiettivi della componente più radicale del governo Netanyahu. Sarà interessante verificare gli esiti di questa scelta tattica.
Sul piano più propriamente globale, l’atteggiamento assunto dalla nuova amministrazione prefigura il ruolo degli USA come quello di una “potenza revisionista” – non solo in termini di soft power (uscita dagli Accordi di Parigi sul clima, abbandono del WHO, etc.) ma anche in termini di hard power (rivendicazioni territoriali rispetto a Groenlandia, canale di Panama, Gaza, e più indirettamente all’intero Canada). Si potrà ritenere che si tratta soltanto di auspici e forse di stratagemmi negoziali per ottenere concessioni in settori specifici; ma resta il fatto che le dichiarazioni di un presidente e del suo Gabinetto vanno sempre e comunque prese sul serio. Come quando Trump ha ricordato, pochi giorni fa, che le due sponde dell’Atlantico sono appunto separate da un oceano – dato geografico incontrovertibile. Si può magari aggiungere che quell’oceano era lì anche nel settembre 2001, quando gli alleati degli Stati Uniti concordarono nell’attivare l’art.5 del Trattato Nord Atlantico a seguito di un attentato terroristico sul suolo americano, per poi partecipare attivamente ad una missione militare in Afghanistan durata vent’anni.
Tornando così alle difficili scelte che si prospettano per gli europei, sia in quanto membri della NATO che della UE, i governi e gli analisti dotati di buon senso conoscono perfettamente e da molto tempo le cose da fare; ciò è vero sul piano della difesa, ma anche della capacità decisionale rapida e della piena messa in comune delle politiche energetiche e di almeno alcune linee di bilancio. Se vorranno e sapranno farle ora, sotto la fortissima pressione esercitata dall’amministrazione Trump, si vedrà. Intanto, tutti gli europei devono guardare agli USA per quello che sono diventati: il più potente alleato-avversario al mondo.