Lo Yemen in rovina dopo dieci anni di conflitto
Uno dei conflitti più complessi della storia recente lascia una pesantissima eredità di crimini e di crisi nello Yemen dimenticato. L’organizzazione yemenita indipendente Mwatana for Human Rights ne traccia i tetri contorni lanciando, lo scorso settembre, la mappa interattiva “Legacy of Gunpowder” che nelle parole della presidente Radhya Al-Mutawakel vuole essere “uno spazio per ricordare al mondo le vittime civili yemenite che sono state trascurate per dieci anni e le orribili violazioni che hanno subito”. Ma anche “un promemoria del fallimento della comunità internazionale nell’adempiere al proprio dovere di ritenere i colpevoli responsabili e fornire risarcimento alle vittime, in un sistema globale che spesso consente l’impunità e applica doppi standard nell’affrontare le crisi dei diritti umani“.
Il 2014 è l’anno zero, quello che con l’occupazione della capitale Sana’a da parte della milizia sciita zaidita Ansar Allah (più conosciuta come Houthi) e l’inizio del processo di rovesciamento del governo internazionalmente riconosciuto di Abdu Rabbu Mansour Hadi, segnò l’inizio della guerra civile e in pochi mesi fece dello Yemen anche un nuovo caldissimo fronte strategico nella proxy war del Medio Oriente.
Da allora sono oltre 16 mila le violazioni dei diritti umani meticolosamente documentate da Mwatana, in un resoconto che è ancora ben lontano dal potersi considerare esaustivo. Poco meno di 30 mila i civili yemeniti direttamente da esse colpiti, su tutti i 21 governatorati del Paese. 32 i modelli di violazione classificati, dalla detenzione arbitraria fino al saccheggio. Passando per il reclutamento e uso di bambini come soldati nel conflitto, la sparizione forzata, l’assalto mirato contro scuole e ospedali o la loro occupazione a uso militare. L’attacco aereo e il bombardamento indiscriminato come anche quello deliberato contro i civili, la violenza sessuale e la tortura, il diniego di accesso umanitario. Le uccisioni extragiudiziali, l’impiego diffuso di mine antiuomo, la repressione delle libertà di movimento e di espressione.
In Yemen, come in altre parti del Medio Oriente, si confrontano e si scontrano “in piccolo” tutte le potenze locali e internazionali che si contendono il controllo sulla regione. E così sono dieci gli attori principali, coinvolti a vari livelli nel conflitto, che le indagini di Mwatana individuano come responsabili degli abusi. Gli Houthi e il governo centrale, soprattutto. Ma anche la coalizione militare arabo-sunnita anti-Houthi a guida emiratina/saudita, intervenuta nel 2015 nell’obiettivo dichiarato di ripristinare il governo Hadi e il cui coinvolgimento ha cercato giustificazione anche nel ruolo riconosciuto agli insorti sciiti all’interno della rete di proxies intessuta nel più ampio quadro dello scacchiere mediorientale da Teheran (che ufficialmente ha sempre negato alcuna implicazione nella questione yemenita). E poi il Consiglio di Transizione del Sud, le forze congiunte che operano sulla costa occidentale del Paese, i gruppi jihadisti come Al-Qaeda nella Penisola Arabica, le forze navali eritree. E ancora gli Stati Uniti, l’alleanza britannico-americana, Israele.
La mappa segnala oltre 1140 gravi violazioni solo per quest’anno, benché il 2024 di certo non sia stato il peggiore. Erano state quasi 600 di più nel 2023. E così nell’anno addietro. Se è vero insomma che il numero delle vittime dirette del conflitto è fortemente diminuito da quando, nel contesto di una de-escalation de facto, le iniziative militari massive ad ampio raggio sono cessate nella gran parte del Paese (salvo per gli scontri localizzati nelle aree di prima linea, che comunque restano letali per molti), non è valso altrettanto per le violazioni, eclatanti, dei diritti umani.
Al contrario, informano dall’organizzazione, dall’ottobre 2022, quando cadde la tregua siglata nell’aprile dello stesso anno con la mediazione delle Nazioni Unite, sono emersi nuovi modelli di violazione. A disegnare uno schema implacabile prova di quello che Al-Mutawakel, a margine del briefing annuale sulla situazione dei diritti umani nello Yemen per il 2023, lo scorso gennaio, aveva definito “un palese disprezzo per le vite dei civili e i loro diritti fondamentali su larga scala” che persiste continuo “a causa dell’impunità prevalente e dell’assenza di meccanismi investigativi completi, indipendenti e trasparenti”.
Fatta invero eccezione per la breve parentesi di vita del Group of Eminent Experts, istituito dal Consiglio ONU per i diritti umani nel settembre 2017 e sospeso nell’ottobre 2021 a seguito delle fortissime pressioni diplomatiche e politiche dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati, nessun organismo internazionale indipendente per il monitoraggio delle violazioni del diritto internazionale nello Yemen ha mai visto la luce. Né tantomeno si è mai riusciti a ottenere alcun meccanismo di responsabilità, come invece è accaduto per diverse altre zone di conflitto, dall’Ucraina al Myanmar. E questo, sottolinea sempre Al-Mutawakel, “per ragioni politiche”.
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Nei suoi rapporti, il Gruppo aveva chiaramente affermato quanto non ci fossero “mani pulite” in questo conflitto intriso di “livelli dilaganti” di gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario. Ne aveva dettagliato una lunga serie, “molte delle quali potrebbero costituire crimini di guerra”. E persino avvertito, inascoltato, di quanto i trasferimenti di armi e il supporto militare, logistico e d’intelligence alle parti in conflitto potesse rischiare di tradursi in una potenziale complicità dei Paesi Terzi fornitori, inclusi (per ordine alfabetico) Canada, Francia, Regno Unito, Iran e Stati Uniti, nelle violazioni contro il popolo yemenita – la questione è peraltro largamente documentata anche da diversi altri rapporti, compresi quelli del Panel of Expert delle Nazioni Unite. Eppure, quella “pandemia di impunità” tante volte denunciata non è mai finita.
Gli appelli, numerosissimi, delle organizzazioni della società civile yemenita e non solo, come delle associazioni di vittime e sopravvissuti, perché si esca dal pantano dell’indifferenza, si ripetono ignorati. Considerato poi che la Corte Penale Internazionale non ha giurisdizione sullo Yemen (non avendo nessuna delle parti sottoscritto lo Statuto), viste anche le possibilità irrisorie che la questione gli sia deferita da parte del Consiglio di Sicurezza ONU per mancato consenso tra i membri permanenti, e con la creazione di un tribunale internazionale per lo Yemen che non pare neanche all’orizzonte, un decennio di atrocità e di diritti umani violati resta impunito. E perdura.
Intanto, stando al più recente rapporto del Programma ONU per lo Sviluppo, la guerra ha ucciso, per causa diretta o indiretta, almeno 250 mila yemeniti, il 60% dei quali erano bambini che non avevano ancora spento le 5 candeline. Ha già fatto regredire lo sviluppo umano di oltre 20 anni in un Paese che si piazzava da tempo tra i più poveri del Medio Oriente. E i suoi impatti a lungo termine sono tanto vasti quanto devastanti da collocarlo “tra i conflitti più distruttivi dalla fine della Guerra Fredda”.
Oltre 25 mila raid aerei, tanti ne conta lo Yemen Data Project, sono stati sferrati contro lo Yemen, spesso quantomeno sproporzionati e indiscriminati (il 28% è stato indicato come diretto contro obiettivi chiaramente civili). Solo dalla coalizione capeggiata dalla doppia (e non poco problematica) leadership di Riyadh e Abu Dhabi, partecipata dai Paesi del Golfo (meno l’Oman fermo nella sua posizione di neutralità tra Arabia Saudita ed Iran) come anche da Egitto, Marocco, Giordania e Sudan, e sostenuta, tra le altre potenze occidentali, da Stati Uniti e Regno Unito. Solo tra l’avvio dell’operazione “Decisive Storm”, che il 26 marzo 2015 elevò il conflitto a una questione delicatissima nella geopolitica regionale, e l’Aprile 2022.
Nelle intenzioni della presidenza yemenita, che l’aveva richiesta al Consiglio di Cooperazione del Golfo per impedire la capitolazione del Paese in mano Houthi, la campagna avrebbe dovuto essere una breve e chirurgica azione di eliminazione manu militari delle milizie ribelli. Nei fatti, sono stati in media dieci attacchi aerei al giorno, ogni giorno, per sette anni. Senza contare i sanguinosi combattimenti su terra, gli attacchi di artiglieria, gli attentati suicidi, le sparatorie e le altre violenze armate guidate dagli altri molti gruppi impegnati sul territorio.
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Matrimoni e mercati affollati, aree residenziali, moschee, università, siti sportivi e culturali, fattorie, campi. Nessun luogo di raduno o infrastruttura civile, critica o no, è stata risparmiata. Secondo i più aggiornati dati Unicef sono almeno 11.500 i bambini vittime dirette delle azioni militari, rimasti uccisi o mutilati dall’inizio delle ostilità nello Yemen.
Poi c’è la fame usata come fosse un’arma di guerra, e l’acqua assediata anch’essa nello Yemen che soffre tra le più gravi crisi di scarsità idrica del pianeta. E le mine e gli altri ordigni esplosivi, tanti che solo l’anno scorso hanno ucciso o ferito un bambino ogni due giorni. Lo stato di polizia degli Houthi che soffoca il Nord del Paese, dove persino i tredicenni finiscono agli arresti anche solo per un post di troppo sui social, e dove da alcuni mesi è in corso una campagna senza precedenti di repressione del personale umanitario. I diritti umani delle donne brutalizzati e gli ostacoli alle consegne degli aiuti umanitari salvavita, da tutte le fazioni sul terreno. E così avanti di tormento in tormento.
Ormai dieci anni di uno spietato conflitto armato che si è fatto anche silenzioso e catastrofico conflitto economico, fortemente intessuto anch’esso dell’immensa sofferenza dei civili, e una profondissima trascurata crisi dei diritti umani, hanno fatto dello Yemen uno dei più gravi disastri umanitari manmade del mondo. Che peggiora costantemente, in portata e gravità.
L’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari conta attualmente più di 4,5 milioni di sfollati interni e 18 milioni di persone in urgente bisogno di assistenza umanitaria, quasi tutti in condizioni di grave insicurezza alimentare, tra cui 2,7 milioni di madri incinte o in allattamento e 5 milioni di bambini sotto i 5 anni in malnutrizione acuta. Con quasi il 30% della popolazione – vale a dire oltre 10 milioni di persone – negate dell’accesso ad acqua pulita e potabile e solo il 50% delle strutture sanitarie del Paese ancora funzionanti, spesso anche parzialmente, le epidemie di colera, difterite, poliomielite, tra le altre, corrono veloci e impietose, e uccidono.
Per non parlare poi dell’inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari, che ha toccato anche picchi del 45%, e della correlata svalutazione del Rial yemenita, che hanno contribuito a spingere alla miseria l’80% della popolazione che ora sopravvive al di sotto della soglia di povertà. A questo punto, quasi il 40% dei bambini yemeniti non frequenta più le scuole, il 30% di tutte le bambine è già sposa, e sono 6,3 milioni le donne gravemente esposte alla violenza di genere. Solo per dare qualche numero.
Questo è lo Yemen oggi. Un Paese frammentato e fratturato, intrappolato in un fitto intreccio di conflitti combattuti tutti sullo sfinimento del suo popolo, per i quali nessuno è chiamato a rispondere. Non c’è pace nello Yemen, men che meno c’è giustizia.
Certo le grandi battaglie si sono placate, almeno fin qui. Ma il processo per una soluzione negoziata del conflitto resta in stallo, punteggiato da fiammate di violenza, anche all’ombra dell’escalation militare che ora infuoca il Medio Oriente (non meno pesano le vicende che si sviluppano attorno al Mar Rosso). E in mezzo a tanto caos, le violazioni contro i civili continuano a ripetersi, a migliaia, senza fare gran clamore.