Una terra troppo spesso promessa
Correva l’anno 1978: l’attuale primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dichiarò per la prima volta che “la Giordania è la Palestina”. Ciò che intendeva dire è che i palestinesi hanno già una loro patria storica e che essa è sita nell’attuale Giordania.
Nelle ultime settimane, sullo sfondo della catastrofe epocale ancora in corso, la tesi in oggetto è tornata in auge. A suggerirla, tra molti altri, sono stati Yair Netanyahu (figlio del premier israeliano), così come numerose altre figure pubbliche israeliane ed europee, a cominciare da Geert Wilders, il capo del partito anti-islamico ed euroscettico uscito trionfatore dalle ultime elezioni in Olanda.
Per comprendere ciò che la storia e il diritto internazionale ci dicono riguardo a questo tema, – e più nello specifico a un presunto diritto esclusivo (storico e legale) sull’intera Palestina da parte di Israele – è utile iniziare da un testo dell’VIII secolo attribuito allo studioso medievale Abū Khālid Thawr Ibn Yazīd al-Kalā‘ī: “Il luogo più sacro [al-quds] della terra”, scrisse al-Kalā‘ī, “è la Siria; il luogo più sacro in Siria è la Palestina; il luogo più sacro in Palestina è Gerusalemme [Bayt al-maqdis]”.
Cenni circostanziati alla Palestina – termine ricollegabile a quella stessa “Palashtu” a cui fece riferimento il re assiro Sargon II (705 a.C) e che in seguito ritroviamo nella cultura greca dei tempi di Erodoto (425 a.C.) – non necessariamente di carattere religioso, li ritroviamo in centinaia di altri lavori antecedenti e posteriori, compreso il Kitāb al-masālik wa al-mamālik (“Libro delle vie e dei regni”) del geografo al-Istakhri (957 d.C.): “Al massimo della sua lunghezza [Filastīn va] da Rafah fino al confine di Al Lajjûn, a un viaggiatore occorrerebbero due giorni per transitarla; e [questo è] il tempo verosimilmente necessario per attraversare la provincia nella sua larghezza da Giaffa a Gerico”.
Non stupisce che anche in un’epoca più tarda ci fosse tra i suoi abitanti una percezione piuttosto definita della Palestina. Un’analisi dettagliata dei testi del muftì Khayr al-Dīn al-Ramlī, influente giurista islamico nella Palestina ottomana del XVII secolo, nato e morto nella città da cui trae origine il suo cognome (appunto Ramla), conferma ad esempio che il concetto di Filastīn, da lui indicata come “bilādunā” (“il nostro paese”), fosse molto più di un’idea astratta.
Si tratta di un sentire comune peraltro confermato anche da quello che è considerato uno dei più noti classici della storia gerosolimitana del Medioevo: al-Uns al-Jalil bi-tarikh al-Quds wa’l-Khalil (“La gloriosa storia di Gerusalemme ed Hebron”). Nelle pagine del manoscritto, composto intorno al 1495, il suo autore, il qadi di Gerusalemme Mujīr al-Dīn al-‘Ulaymī, fece un uso sistematico (22 citazioni) del termine “Filastīn”, alternato sovente con Al ‘Arḍ al Muqaddasa. L’indicazione “Siria meridionale”, per contro, non fu mai menzionata.
Ancora una volta non dovrebbe dunque sorprendere che “Arz-i Filistin” (la “Terra di Palestina”), coincidente all’area posta a occidente del fiume Giordano, fosse la denominazione che le autorità ottomane usavano nel XIX secolo nella corrispondenza ufficiale per indicare la Palestina. Essa, la “Arz-i Filistin”, non rappresentava un’area politicamente autonoma, anche se manteneva, tanto nell’uso popolare quanto in quello ufficiale, un’accezione peculiare non trascurabile. La formula “Arz-i Filistin ve Suriye” (la “Terra di Palestina e la Siria”) era peraltro utilizzata nella corrispondenza ufficiale ottomana, così come nelle mappe stampate a Istanbul nel 1729 dal tipografo del sultano Ibrahim Müteferrika.
Non è dunque una coincidenza, come ha notato Beshara Doumani, che il governo centrale ottomano “stabilì nel corso dell’Ottocento un’entità amministrativa con confini praticamente identici a quelli del Mandato di Palestina in tre distinte occasioni: nel 1830, nel 1840 e nel 1872”. Proprio il 1872 è peraltro l’anno in cui il console Noel Temple Moore scrisse un dispaccio a commento della “recente elevazione della Palestina in un distinto Eyalet [governatorato]” (una decisione accolta con giubilo dalla popolazione locale), sottolineando altresì che “molti viaggiatori ed esploratori britannici visitano il paese a est del Giordano [the country east of the Jordan]”.
Mezzo secolo più tardi, in una fase storica in cui i 9/10 degli abitanti presenti tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano erano Palestinesi (musulmani e cristiani), la Palestina entrò al centro dei dibattiti portati avanti dalle potenze che riuscirono a imporsi nella Prima guerra mondiale: le opinioni della quasi totalità dei rappresentanti dei popoli assoggettati al sistema dei mandati introdotto dalla Società delle Nazioni non vennero in alcun modo prese in considerazione.
La Conferenza di San Remo, in particolare, venne convocata dalle potenze vincitrici nell’aprile 1920 con lo specifico intento di decidere il futuro di Siria, Palestina e Iraq. Per quanto concerne la Palestina, nella risoluzione che risultò dai colloqui di San Remo venne inclusa ciò che George Curzon, ministro degli Esteri britannico dal 1919 al 1924, definì “una ripetizione letterale della dichiarazione Balfour del Novembre 1917”.
Alcuni ricercatori hanno sostenuto che gli esiti della conferenza di San Remo, ma soprattutto l’inclusione dei principi contenuti nella Dichiarazione Balfour nel testo del Mandato di Palestina, garantirono al popolo ebraico il diritto esclusivo di creare un “focolare nazionale” su “tutta la Palestina e non solo su una parte di essa”.
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La tesi dell’“esclusività” sull’intera Palestina, oltre ad essere ingiustificata da un punto di vista demografico e storico (la Palestina non è mai appartenuta in modo esclusivo ad alcun popolo della storia), è errata anche nell’ottica legale imposta da Londra.
Hubert Young, figura di rilievo del Foreign Office, scrisse nel novembre 1920 che il solo impegno preso da Londra “riguardo la Palestina è la Dichiarazione Balfour [che prevede di] trasformarla in un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Lo corresse proprio Curzon: “No. ‘Istituire in Palestina un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina’ – una proposta molto differente”.
In un memorandum redatto dal gruppo paramilitare sionista dell’Irgun nell’agosto del 1947 venne avanzata la tesi secondo la quale con la nascita della Transgiordania “la Gran Bretagna ha derubato il popolo ebraico dei tre quarti della sua patria”.
In realtà, il Mandato di Palestina, nel quale vennero incluse le disposizioni contenute nella Dichiarazione Balfour, ebbe la diretta, completa ed esplicita giurisdizione sulla zona che nel 1921 divenne l’emirato di Transgiordania (regno di Giordania dal 1949) per otto mesi: dal luglio 1920, quando Fayṣal (re della Siria dal 1918 al 1920) fu espulso da Damasco, al 12 marzo 1921, il giorno della conferenza del Cairo che, per bocca di Winston Churchill, sancì “la politica da adottare nei riguardi della Transgiordania”.
Si trattò peraltro di un lasso temporale parzialmente legale anche dalla prospettiva giuridica imposta dalle potenze europee, dal momento che il Mandato britannico venne formalmente confermato/attribuito dalla Lega delle Nazioni solo il 24 luglio 1922, divenendo poi operativo nel settembre del 1923.
È opportuno sottolineare che il “Libro Bianco” pubblicato dalle autorità britanniche nel giugno del 1922 chiarì che la Dichiarazione Balfour “non contempla che la Palestina nel suo insieme debba essere convertita in un focolare nazionale ebraico, bensì che un tale focolare dovrebbe essere fondato ‘in Palestina’”.
Precisò inoltre che il “congresso sionista” tenuto a Carlsbad nel settembre del 1921 aveva accettato in via ufficiale “la determinazione del popolo ebraico a vivere con il popolo arabo in termini di unità e rispetto reciproco, e insieme a loro di trasformare la casa comune in una fiorente comunità, la cui edificazione possa assicurare a ciascuno dei suoi popoli un indisturbato sviluppo nazionale [each of its peoples an undisturbed national development]”.
La “casa comune” era quella in cui vivevano ebrei e palestinesi: non, dunque, l’area ad est del Giordano, priva di comunità ebraiche e già chiaramente distinta dalla Palestina ben prima della pubblicazione del “Libro Bianco” del giugno 1922.
Si noti – ed è un aspetto dirimente – che l’interpretazione ufficiale contenuta nel “Libro Bianco” del 1922 fu sottoposta al benestare della leadership sionista prima che il testo mandatario venisse confermato dalla Lega della Nazioni.
Nella parole del leader sionista, nonché futuro primo presidente dello Stato di Israele, Chaim Weizmann: “Ci venne chiarito [It was made clear to us] che la conferma del Mandato [di Palestina] sarebbe stata subordinata alla nostra accettazione della linea di condotta così come interpretata dal Libro Bianco [del 1922], e io e i miei colleghi eravamo dunque tenuti ad accettarla, cosa che facemmo, sia pur non senza alcune esitazioni [my colleagues and I therefore had to accept it, which we did, though not without some qualms]”.
È certamente vero che, nei decenni successivi, alcune figure politiche giordane e palestinesi hanno sostenuto che “la Giordania è la Palestina”. Tali affermazioni, tuttavia, non possono essere comprese se non nel contesto di precise strategie propagandistiche e dichiarazioni di intenti ostili. Questo aspetto è stato ampiamente dimostrato anche da studiosi da sempre poco simpatetici con la causa palestinese, compreso Daniel Pipes: “Come minimo”, ha osservato lo stesso Pipes, tale slogan “serve ad affermare posizioni diplomatiche nell’arena inter-araba. Al massimo servono invece a rivendicare il diritto di espandersi e a governare altre regioni; l’OLP ambisce a rivendicare un territorio che non controlla; Amman aspira invece a proteggere un territorio (la Cisgiordania) che controlla o spera di controllare nuovamente in futuro”.
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Le tesi, più volte ripetuta in queste settimane, secondo cui la “Giordania è la Palestina”, nonché quella stando alla quale la partizione della Palestina decisa dall’Onu nel 1947 privò Israele di una porzione di terra che “sarebbe dovuta appartenere, de jure, allo Stato ebraico dal 1922”, non sono dunque inconsistenti solo da un punto di vista storico, legale e demografico, ma anche, e forse soprattutto, morale.