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L’incriminazione di Donald Trump: il possibile senso politico di un atto giudiziario

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Donald Trump è il primo ex-Presidente americano ad aver subito un’incriminazione. Ovviamente la domanda principale da porsi è se questa situazione possa o meno avvantaggiarlo durante la campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2024. Ricordiamo infatti che l’ex inquilino della Casa Bianca si è ufficialmente ricandidato alla nomination del Partito Repubblicano lo scorso 15 novembre e che il procedimento giudiziario che lo vede coinvolto a Manhattan inizierà assai probabilmente tra diversi mesi, quando le primarie presidenziali repubblicane saranno, cioè, già in corso.

 

Attenzione: qui il punto non riguarda tanto l’agibilità politica dell’ex-Presidente. Trump può infatti continuare ad essere candidato sia da incriminato sia, in caso, dovesse addirittura finire in carcere (il socialista Eugene V. Debs partecipò d’altronde alle presidenziali del 1920, mentre si trovava detenuto nel penitenziario federale di Atlanta). Inoltre, secondo il famoso avvocato (e sostenitore del Partito Democratico) Alan Dershowitz (che difese Trump ai tempi del primo impeachment nel febbraio del 2020),  il diretto interessato potrebbe teoricamente servire come presidente anche qualora venisse a trovarsi in stato di reclusione. Il punto è quindi semmai puramente politico. Quale impatto può avere l’incriminazione, promossa dalla procura distrettuale di Manhattan, sulla corsa presidenziale del 2024?

Trump, non è un mistero, sta cavalcando la tesi della persecuzione, facendo soprattutto leva sul fatto che, rispetto ad altri casi giudiziari che dovrà presto affrontare, l’impianto accusatorio presentato dalla procura di Manhattan appare piuttosto debole e traballante. Ebbene, adottando tale strategia, l’ex-Presidente punta almeno a tre obiettivi. Innanzitutto, vuole galvanizzare la sua base elettorale, spingendola a serrare i ranghi. Per il momento, sembra che stia riuscendo in questo intento. Da quando la notizia dell’incriminazione è stata diffusa lo scorso 30 marzo, la squadra elettorale di Trump ha reso noto di aver raccolto almeno 12 milioni di dollari in finanziamenti. Inoltre, i sondaggi continuano a dare l’ex- Presidente come favorito alle primarie repubblicane.

In secondo luogo, l’altro obiettivo è di certo quello di andare all’attacco di Joe Biden e dei democratici. Trump sta infatti ripetutamente tacciando il procuratore di Manhattan, Alvin Bragg, di faziosità politica, mentre i deputati repubblicani hanno avviato un’indagine parlamentare che punta a capire se quest’ultimo si sia coordinato con il Dipartimento di Giustizia nel predisporre l’incriminazione.

In terzo luogo, l’ex-Presidente sta cavalcando la tesi della persecuzione per ridurre i margini di manovra dei suoi rivali interni (attuali e potenziali) per la nomination repubblicana del 2024. Anche su questo fronte, almeno per ora, pare che il magnate stia avendo successo. A difenderlo da Bragg sono infatti state varie figure che nutrono notoriamente ambizioni presidenziali: dall’ex-Vicepresidente Mike Pence all’ex-ambasciatrice all’ONO, Nikki Haley. Piuttosto emblematico si è poi rivelato, sotto questo punto di vista, il comportamento di Ron DeSantis. Se in un primo momento si era mostrato piuttosto tiepido nel sostenere Trump contro possibili mosse della procura di Manhattan, il Governatore della Florida ha cambiato improvvisamente registro dopo la notizia ufficiale dell’incriminazione, arrivando a dire che, qualora l’ex presidente si fosse rifiutato di consegnarsi, non avrebbe cooperato con le autorità di New York nelle procedure di estradizione (Trump è infatti attualmente residente nello Stato della Florida). Ricordiamo che DeSantis è considerato al momento il principale (ancorché potenziale) avversario dell’ex-Presidente per la nomination del 2024.

 

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L’incriminazione rischia, almeno al momento, di mettere in difficoltà DeSantis. Il suo duello con Trump si è finora consumato sempre nell’alveo ideologico del trumpismo e infatti talvolta le posizioni politiche dei due si sovrappongono. Tuttavia, il Governatore ha cercato di presentarsi come un “trumpista di destra”, puntando cioè molto sul deciso contrasto all’ideologia progressista e su politiche di libertà (anche economica), improntate al “modello Florida”. Trump, di contro, ha per ora cercato di coprire l’area più “a sinistra” dell’elettorato repubblicano: l’ex-Presidente si sta infatti proponendo come il baluardo della previdenza sociale e della sanità pubblica e ha già accusato DeSantis e Nikki Haley di volerle tagliare. Una strategia, quella di Trump, che probabilmente mira ad accattivarsi soprattutto le simpatie degli Stati operai della Rust Belt: area, in cui non è al momento chiaro se DeSantis possa risultare effettivamente competitivo. È abbastanza evidente che il Governatore scommette molto sull’età più giovane e sul fatto di non essere gravato dalle numerose grane giudiziarie che pesano invece sull’ex-Presidente. Il punto è l’incognita che queste grane rappresentano sul piano elettorale. Per ora, lo abbiamo visto, l’incriminazione di Trump sembra aver ridotto i margini di manovra del Governatore (anche se non è detto che la situazione non possa cambiare nei prossimi mesi: in fin dei conti, il Super Pac di DeSantis ha raccolto 30 milioni di dollari da inizio marzo).

Inoltre, elemento ancor più significativo, anche alcuni atavici nemici interni di Trump hanno accusato Bragg di faziosità politica: in tal senso si sono per esempio espressi l’ex-Governatore della Florida, Jeb Bush, il senatore dello Utah, Mitt Romney e l’ex-Consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton. Questo poi ovviamente non significa che l’intero Grand Old Party appaia del tutto compatto. Se gran parte dei parlamentari repubblicani ha finora fatto quadrato attorno all’ex-Presidente, si registrano alcune ragguardevoli eccezioni. Il potente capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell, è per esempio rimasto silente, mentre si è recentemente candidato alla nomination Asa Hutchinson: ex Governatore repubblicano dell’Arkansas, che ha chiesto a Trump di ritirarsi dalla corsa elettorale a causa dei suoi guai giudiziari. Tutto questo, senza trascurare che in ambienti democratici si nutrono dei timori: qualcuno ritiene infatti che questo caso giudiziario possa alla fine indirettamente rafforzare l’ex-Presidente.

Eppure le incognite sul suo destino continuano ad aleggiare. Bisognerà innanzitutto capire se Trump riuscirà a cavalcare efficacemente la tesi della persecuzione giudiziaria anche nei mesi a venire. La strada verso la General Election di novembre 2024 è ancora lunga e questo tema potrebbe alla fine tediare l’elettorato americano. Il punto è che, se vuole realmente riconquistare la Casa Bianca, Trump non può fare riferimento soltanto alla propria base storica, ma dovrebbe cercare di allargare il consenso agli elettori indipendenti e ai democratici delusi, evitando di trasformare la campagna elettorale in un nuovo referendum su sé stesso. Ora, sotto questo aspetto, i sondaggi restituiscono un quadro piuttosto contraddittorio e, almeno al momento, difficile da decifrare. Secondo una recente rilevazione della Cnn, il 60% degli americani approverebbe la recente incriminazione di Trump, ma – al contempo – il 76% degli interpellati riterrebbe tale incriminazione motivata (almeno in parte) politicamente.

 

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Un’ulteriore incognita è poi rappresentata dagli altri casi giudiziari che pendono sul capo dell’ex-Presidente: dall’indagine del procuratore speciale Jack Smith sui documenti classificati a quella della procura distrettuale di Fulton sulla sua presunta interferenza nelle elezioni del 2020. In particolare, sembra che in quest’ultimo caso la procura stia ipotizzando di incriminare Trump con le accuse di estorsione e associazione a delinquere. Il quadro complessivo, insomma, resta per ora avvolto dall’incertezza.