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Il mid-term di Biden: da Capitol Hill a Kyiv

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 C’è la regola storica: il partito del presidente in carica perde quasi sempre le elezioni di mid-term. E’ successo, per stare agli ultimi decenni, a Bill Clinton, Barack Obama e Donald Trump, con la sola eccezione di Bush figlio nel 2002. E poi ci sono gli ultimi sondaggi, secondo cui i Repubblicani, dati in difficoltà nell’estate scorsa, sono avviati al sorpasso e prenderanno il controllo della Camera dei Rappresentanti. Sul Senato, dove sono in ballo un terzo dei seggi circa (in maggioranza repubblicani), è più difficile prevedere. Conteranno un pugno di voti negli Stati contesi: Pennsylvania, Georgia, Nevada, Arizona.

Il presidente americano Joe Biden

 

Joe Biden, che ha un tasso di gradimento di poco superiore al 40%, ha provato a dire agli americani di prendere queste elezioni sul serio: è in ballo, ha affermato giovedì scorso da Capitol Hill, la salute del sistema democratico in quanto tale, messo a dura prova dalla contestazione dei risultati elettorali del 2020. E’ dubbio che questo argomento possa rovesciare il trend che si profila. Le preoccupazioni centrali degli americani, indicano i sondaggi di opinione, hanno tutte a che fare con l’inflazione, il costo della benzina, lo spettro di una recessione economica. Poi vengono criminalità e immigrazione, solo dopo i diritti – incluso il tema dell’aborto, la cui rilevanza è sfumata nei mesi dopo la famosa sentenza della Corte Suprema contro la legge vigente.

 

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Il problema, per Biden, è che una parte maggioritaria dell’elettorato ritiene che i Repubblicani siano in grado di gestire l’economia meglio dei Democratici. E se questo mid-term sarà “economy-first”, come pare, la Casa Bianca avrà di fronte un Congresso in mano al partito rivale: un ennesimo caso di “governo diviso”, formula che blocca nei fatti gran parte dell’agenda legislativa. E che produce il fenomeno degli “ordini esecutivi”: un governo attraverso decreti presidenziali che vengono poi regolarmente revocati dal successore.

La regola storica sui mid-term contiene però una postilla: perdere le elezioni legislative non significa che il capo della Casa Bianca perda poi anche le elezioni presidenziali. Basti guardare ai precedenti, in casa democratica, di Bill Clinton o Barack Obama. Questa volta, tuttavia, lo scenario del 2024 è complicato da due fattori. Da una parte, Joe Biden è un candidato democratico debole, se non altro per ragioni anagrafiche (compie 80 anni fra due settimane); ma non si vede, per ora almeno, un candidato alternativo all’orizzonte. L’estrema debolezza politica di Kamala Harris, la Vicepresidente, segnala che il problema della leadership democratica, dopo la fine del partito dei Clinton, è grande come una casa.

Dall’altra esiste il fattore Trump, con tutta la sua carica ideologica, l’appoggio a gran parte dei candidati repubblicani che sono prevalsi nelle primarie, le due indagini in corso (sull’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio e sui documenti riservati “custoditi” a Mar-a-Lago). Esiste insomma un’incertezza di fondo sul futuro politico di un uomo che continua a tenere in mano i destini del Grand Old Party. Fra mezze promesse di Donald (“è molto, molto, molto probabile che mi candidi”) e tentativi di trovare figure alternative (Ron DeSantis, governatore della Florida), il Partito Repubblicano è prigioniero dell’influenza del trumpismo ma avrebbe anche mille motivi per liberarsi di Donald quale candidato ideale per il 2024. Da questo punto di vista, i risultati del mid-term segneranno di fatto l’avvio della campagna elettorale per le presidenziali: se i candidati di Trump vinceranno, il trumpismo segnerà comunque anche la prossima fase della democrazia americana. Cosa che rende il discorso di Biden sulle fragilità del sistema politico una sorta di “profezia” destinata ad auto-avverarsi: non è proprio secondario che alcuni dei candidati repubblicani abbiano già detto che non riconosceranno i risultati del voto in caso di sconfitta, facendo della narrazione trumpiana sulle “elezioni rubate” del 2020 una sorta di paradigma applicabile ai singoli Stati.

 

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Economia in difficoltà (anche se le percezioni sembrano più gravi dell’andamento reale) e sistema politico contestato e polarizzato: nell’America alle prese con se stessa, Joe Biden finirà per occuparsi essenzialmente di politica estera. Ma non avrà neanche qui, su un terreno per lui naturale, una vita così semplice. Per ora – sull’appoggio all’Ucraina e sulla competizione con la Cina – la Casa Bianca ha potuto avvalersi di un consenso bipartisan tacito.

Nel Congresso futuro sarà meno agevole, l’accordo interno terrà sulla Cina ma si complicherà sull’Ucraina, con una parte dei Repubblicani che spingeranno per ridurre e condizionare gli aiuti a Kyiv. In che senso si muoverà Biden? Una doppia pressione – della destra repubblicana e della sinistra democratica – spingerà nei prossimi mesi il Presidente a prendere in mano la conduzione politica della guerra, esortando Kyiv a trattare. Vedremo se Joe Biden giudicherà che sia venuto il momento per farlo.

 

 


Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 6 novembre 2022