La svolta di Erdogan verso la distensione regionale
Il tempo cura tutte le ferite. Anche in politica estera, quando a prevalere è il pragmatismo. L’approdo della fregata turca Kemalreis al porto di Haifa – il 3 settembre – è solo l’ultima di una serie di immagini che spiegano meglio di tante parole la nuova traiettoria intrapresa dal presidente Erdogan, in vista del voto del prossimo giugno.
L’annuncio, il 17 agosto, della normalizzazione delle relazioni tra Ankara e Tel Aviv – con la nomina dei nuovi ambasciatori – ha posto fine a una crisi durata circa 12 anni, iniziata con il blitz di Israele sulla nave turca Mavi Marmara e alimentata soprattutto dal sostegno che Erdogan ha garantito a Hamas e, più in generale, alla causa palestinese. Riappacificandosi con Tel Aviv, Erdogan sembra in primo luogo parlare a suocera perché nuora intenda. Il messaggio più urgente è quello da mandare alla Casa Bianca e riguarda i tanto attesi F16. In aggiunta, riallacciare con Israele vuol dire anche affrontare la questione del gas scoperto negli ultimi anni nel Mediterraneo orientale. A causa proprio delle sue frizioni soprattutto con la Grecia, Ankara è rimasta infatti esclusa dall’ambizioso progetto di Eastmed (con un forte ruolo propulsivo dell’Italia). La sfida ora è recuperare il terreno perduto.
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La Turchia oggi è Paese strangolato da un’inflazione record. Per dare un impulso all’economia Erdogan si è quindi visto costretto a rivedere la relazione anche con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, Paesi verso i quali lui – protettore dell’Islam politico regionale – aveva alzato un muro, vista la loro avversione alla Fratellanza Musulmana. Divisioni ideologiche profonde che avevano causato una vera e propria fitna, una guerra fredda intra-sunnita. Per inaugurare la nuova fase di cooperazione politica, economica e militare con Riad, Erdogan ad aprile è volato in Arabia Saudita. Il vero biglietto da pagare è stata la stretta di mano con Mohammed Bin Salman, il principe ereditario che Ankara ha ritenuto il mandante dell’omicidio – sul suo territorio – del giornalista saudita-statunitense Jamal Khashoggi.
Del pragmatismo turco, diventato evidente negli ultimi mesi, si era avuto un primo assaggio nella primavera 2021, quando l’arrivo al Cairo di una delegazione turca, guidata dal viceministro degli Esteri sembrava stemperare la retorica incendiaria che da entrambe le parti aveva reso impossibile ogni tipo di dialogo. Il sostegno incondizionato della Turchia alla Fratellanza Musulmana aveva portato il Cairo non solo a rompere le relazioni bilaterali, ma addirittura a boicottare una serie di prodotti turchi, persino delle musalsalat, le soap opera del Ramadan che proprio dopo le primavere arabe sono diventate un efficace strumento di soft power neo-ottomano, registrando peraltro un certo successo di pubblico egiziano. Ankara, a sua volta, aveva permesso agli esuli islamisti in territorio turco di organizzarsi come forza di opposizione al regime egiziano, consentendogli anche di aprire le loro televisioni, dalle quali questi hanno condotto campagne contro le istituzioni reinsediatesi in Egitto.
A causa del – o forse grazie anche al – pantano libico, negli ultimi mesi sia Ankara che il Cairo hanno rivisto parte di queste politiche. La Turchia ha nei fatti scaricato l’opposizione egiziana e tentato quindi una distensione. La stretta di mano tra Erdogan e Al Sisi – uomo definito in precedenza dal presidente turco golpista e despota – non c’è ancora stata, ma le relazioni economiche tra i due Paesi godono di un’ottima salute. Lo scambio commerciale nei primi otto mesi di quest’anno è aumentato del 17% rispetto al 2021. Dati che sembrano un presagio.
Negli ultimi mesi, l’attivismo e il pragmatismo di Erdogan si sono visti soprattutto nel conflitto russo-ucraino, un contesto dove Erdogan è riuscito – più di altri – a negoziare, garantendo alla Turchia il flusso continuo di gas da Mosca e sperando ora di ricevere anche uno sconto sul suo prezzo. Facendosi percepire come un potere non solo regionale ma globale, Erdogan è riuscito anche a farsi invitare a Samarcanda a metà settembre, dall’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. E’ l’unico leader di un Paese della Nato che ha chiesto di diventare membro di un organismo dominato da Russia e Cina.
Avvicinandosi a Mosca, Ankara spera anche di farsi dare il via libera per una nuova operazione in Siria che dovrebbe concentrarsi sulla regione curda. Il dibattito sulla Siria è stato uno dei temi più accesi della stagione estiva della politica turca e non solo da un punto di vista militare. Sono infatti mesi che in Turchia continua a crescere il sentimento antisiriano, ora cavalcato da tutte le forze di opposizione, convinte che, chiedendo il rientro, se non addirittura la deportazione, dei migranti potranno guadagnare punti su Erdogan alle prossime elezioni. Alcuni partiti – in primi quello del Bene e quello della Vittoria – fanno della deportazione dei siriani (attualmente circa tre milioni e mezzo secondo i dati ufficiali dell’Onu, addirittura 5 milioni secondo altre stime) il loro primo punto in programma.
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Pur essendo un “difensore dei diritti dei migranti”, utilizzati da lui come merce di scambio con l’Europa, Erdogan ha dovuto in parte rivedere il suo tono. Dopo aver messo un limite ai permessi di residenza per gli stranieri nei quartieri più popolati da migranti, ha iniziato a lavorare su un progetto di rimpatrio – volontario – dei siriani. In tale ottica Erdogan è pronto a interloquire direttamente con Bashar al Assad – come del resto promettono di fare i suoi avversari politici interni. Pochi anni fa lo aveva definito un terrorista responsabile della morte di milioni di cittadini, ma ad agosto Erdogan ha detto che alla Turchia non interessa sconfiggere o meno il leader siriano, chiarendo che in politica non c’è spazio per il risentimento. Aprire un canale con Assad potrebbe essere anche utile ad Erdogan per affrontare la questione del futuro del nord della Siria, un nodo spinoso per entrambi e che per Ankara vuol dire ridiscutere della questione curda. In aggiunta, i due dovrebbero parlare del futuro dell’opposizione siriana, sostenuta dalla Turchia. Secondo la stampa turca, a metà settembre ci sarebbe già stato un incontro tra il capo dei servizi turco e il suo omologo siriano. Alcune fonti russe dicono che Mosca sarebbe pronta a spendersi per mediare.
Difficile capire quando il pragmatismo di Erdogan lo porterà a stringere anche la mano di Assad, ma le recenti aperture anche sul dossier siriano sono l’ennesimo passo verso il ritorno a una politica estera turca meno bellicosa. Una svolta che riflette l’intenzione di Erdogan di uscire dall’isolamento in cui si è trovato, per incrementare le opportunità economiche e dare un impulso all’economia di un Paese strangolato da un’inflazione record a tre cifre. Quella che può sembrare una capriola sembra in realtà una ricetta ben studiata per far lievitare le chance di sopravvivere al voto che lo aspetta nel 2023.
Non un anno casuale, ma il centenario della nascita di quella Turchia che Erdogan vuole presentare non più come un potere regionale, ma come una potenza globale, con una grandeur simile a quella dell’Impero Ottomano.