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Il nuovo attivismo politico della Türkiye in Medio Oriente

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Il 2 giugno scorso la Turchia ha cambiato nome, o meglio ha ottenuto dalle Nazioni Unite il riconoscimento ufficiale del proprio appellativo in lingua turca: Türkiye. Questo “cambio di immagine” internazionale rivela una strategia a più ampio raggio, tesa a conferire al Paese una nuova identità politica meno islamista (o, piuttosto, ikhwanista, cioè legata al filone della Fratellanza Musulmana) e più neo-kemalista.

Non che la Turchia intenda tornare alla politica estera di “zero problemi con i vicini” – promossa nel 2004 dall’allora braccio destro di Erdoğan, Ahmet Davutoğlu, oggi passato all’opposizione con il suo “Partito del Futuro” e candidato alle prossime presidenziali del 2023.Ma il rebranding del Paese è indice della rinnovata intenzione del governo turco di voltare pagina e riallacciare relazioni meno conflittuali e più cooperative con i vicini del Medio Oriente, in particolare dopo il rientro della crisi tra Qatar e Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) nel gennaio 2021.

La Turchia e il Medio Oriente

 

Tale decisione risponde ad una pressante necessità economica interna, in una difficile congiuntura che ha visto nell’anno in corso il valore della lira turca crollare del 40%, l’inflazione montare al 60%, i prezzi al consumo impennarsi al 54% e le tariffe di gas e elettricità schizzare del 40%, in un quadro generale di vulnerabilità degli approvvigionamenti – data la dipendenza del Paese per il 45% dal gas e per il 70% dal grano russi, determinando una grave crisi finanziaria.

Ankara vede come possibile soluzione il rilancio di massicci investimenti da parte delle monarchie del Golfo, ma anche il miglioramento delle condizioni politiche generali attraverso il ripristino di buone relazioni diplomatiche con la maggioranza dei Paesi dell’area. Queste si erano deteriorate in maniera decisiva dopo che nelle manifestazioni popolari del 2011 la Turchia e i principali Paesi arabo-sunniti si erano trovati schierati su fronti opposti (della Fratellanza Musulmana, la prima, e dell’esercito o dei partiti di governo, i secondi), i rapporti con Israele si erano già incrinati da maggio 2010 a seguito dell’assalto alla nave di una ONG turca (Mavi Marmara) a largo della Striscia di Gaza e nel 2017 i Paesi del Golfo avevano interrotto bruscamente le relazioni con il Qatar, principale alleato militare di Ankara, imponendo all’Emirato sanzioni per il suo presupposto sostegno al terrorismo.

A ciò dovrebbe accompagnarsi la riapertura al turismo regionale, soprattutto israeliano e del Golfo, e, potenzialmente, la ripresa del negoziato sull’esportazione del gas del Mediterraneo orientale via Anatolia verso l’Unione Europea.

In questa prospettiva, negli ultimi due anni Ankara ha avviato un processo di riconciliazione con i Paesi del Golfo, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, con cui nel novembre 2021 sono stati siglati decine di accordi di cooperazione in materia di energia, commercio e ambiente, assicurando alla Turchia l’assegnazione di un fondo di 10 miliardi di dollari per investimenti strategici oltre a 5 miliardi di swap agreement per sostenere le riserve di valuta della sua Banca centrale, messe a dura prova dall’acuta crisi della lira. Sulla stessa falsariga va interpretato anche il lento ma costante riavvicinamento all’Arabia Saudita, dopo un periodo caratterizzato dalle pesanti accuse di Erdoğan al principe ereditario Mohammed Bin Salman per l’omicidio Kashoggi (2018), culminate nella visita di Stato dello stesso principe in Turchia lo scorso 22 giugno, simbolo del ripristino di relazioni diplomatiche ufficiali tra i due Paesi. Da questi passi, più pragmaticamente, le élites politiche turche vicine all’AKP si attendono lo sbocco di 3 miliardi di investimenti sauditi nel Paese, indirizzati soprattutto al settore delle start-up, nonché un’ulteriore linea di credito a destinazione della Banca centrale.

Parallelamente, Ankara ha rilanciato il dialogo con il traballante governo di coalizione israeliano e a questo scopo il ministro degli Esteri Çavuşoğlu ha visitato Israele lo scorso 25 maggio, chiedendo a Gerusalemme di mitigare l’isolamento di Ankara sul gas e la creazione di un nuovo forum trilaterale sull’energia, inclusivo dei due Paesi più l’Unione Europea. Si tratterebbe di un ulteriore passo verso l’istituzionalizzazione di una consultazione bilaterale periodica, dopo la decisione assunta nello scorso marzo (2022) – durante la precedente visita del Presidente israeliano Herzog in Turchia – di creare un “meccanismo bilaterale di risoluzione delle controversie”. Anche se il governo Bennet ha chiaramente espresso la sua volontà di non compromettere la cooperazione già rodata con Egitto e Cipro per lo sfruttamento del gas nel Mediterraneo orientale, Israele ha accolto positivamente la normalizzazione delle relazioni con la Turchia come un ulteriore progresso nel più complesso disgelo regionale introdotto dalla firma degli Accordi di Abramo.

Infine, ad inizio giugno, una delegazione ministeriale turca di alto livello guidata dal ministro delle Finanze turco, Nureddin Nebati, si è recata a Sharm El-Sheikh in Egitto, per la prima volta dal colpo di stato militare del giugno 2013, formalmente in occasione della riunione annuale della Banca di sviluppo islamica.

Le relazioni con il Cairo, tese oltre che per la vittoria della fazione anti-turca di cui è simbolo Al-Sisi, anche per le opposte posizioni assunte nel conflitto in Libia, stanno lentamente riprendendo, soprattutto dopo i molteplici segnali concilianti lanciati da Ankara, tra cui la chiusura di canali televisivi della Fratellanza Musulmana colpevoli di propaganda anti-regime in Turchia e l’apertura diplomatica a estradare verso il Cairo alcuni membri degli Ikhwan che l’Egitto ritiene colpevoli di terrorismo. Il commercio bilaterale tra i due Paesi, che è ammontato a 1,6 miliardi di dollari nel 2021, è in piena ripresa, ma l’interesse primario di Ankara verso l’Egitto rimane il gas e la possibilità di superare il proprio isolamento in materia energetica e reinserirsi in un consorzio multilaterale come EastMed Gas Forum (sorto nel 2019, con un forte ruolo italiano), che è andato assumendo crescente importanza proprio a seguito della guerra in Ucraina e la parallela cancellazione del progetto Southstream.

 

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Infine, l’attivismo diplomatico non si limita al Medio Oriente, estendendosi ben oltre i confini regionali, con l’apertura di ben 43 ambasciate nel continente africano nell’arco di vent’anni (2002-2022), ma in particolare dal 2008 – anno della designazione della Turchia a “partner strategico” dell’Unione Africana – e  con una forte accelerazione da inizio pandemia (2020), la ripresa di voli commerciali e il superamento dell’embargo di prodotti turchi in Armenia (nonostante il sostegno turco al governo azero nell’ultimo round militare di confronto tra i due Paesi in Nagorno-Karabakh nell’autunno 2020), fino ad arrivare all’appena concluso tour diplomatico di Çavuşoğlu in sei Paesi dell’America Latina, nell’aprile scorso.

Tuttavia, per Ankara riavvicinarsi all’epoca degli “zero problemi con i vicini” resta un obiettivo lontano se non impossibile, dal momento che dal 2004 ad oggi troppi elementi sono cambiati nel quadro regionale: lo stesso protagonismo turco oltre confine sembra aver indelebilmente compromesso alcuni equilibri. Lo scontro tra movimenti filo-islamisti e filo-nazionalisti, scoppiato all’interno del mondo arabo dopo le Primavere del 2011, sembra essere parzialmente rientrato, ma ha lasciato sul terreno almeno un conflitto aperto, quello a bassa intensità ancora in corso in Siria.

Se, infatti, tra il 1999 (data degli Accordi di Adana) e il 2012 (data del ritiro delle truppe del regime di Assad dalla parte settentrionale del Paese con la conseguente avanzata dello Stato islamico, ISIS, dal 2013 al 2017), la Turchia e la Siria godettero di eccellenti relazioni bilaterali e di un confine aperto che consentiva di viaggiare tra i due Paesi senza visto, dal 2016 ad oggi Ankara ha condotto su quello stesso confine ben quattro operazioni militari: Operazione Scudo d’Eufrate, agosto 2016-marzo 2017, Operazione Ramo d’Ulivo, gennaio-marzo 2018, Operazione Primavera di Pace, ottobre 2019, e Operazione Scudo di Primavera, febbraio-marzo 2020. Il governo turco ha recentemente annunciato la propria volontà di compierne una quinta, con l’obbiettivo di isolare definitivamente i curdi di Siria da quelli di Turchia.

In realtà, l’obiettivo primario di Ankara sarebbe evitare a tutti i costi la riconquista della provincia ribelle di Idlib da parte del regime siriano, dal momento che tale mossa provocherebbe una nuova massiccia ondata di profughi verso la Turchia in un momento in cui Ankara, per la crisi economica in cui imperversa ma anche per il sopraggiungere delle elezioni presidenziali nel 2023, vorrebbe invece alleggerire la pressione dei quasi 4 milioni di profughi siriani già presenti sul suo territorio, possibilmente ricollocandoli nelle aree da essa controllate nel nord della Siria. L’UNHCR calcola che a Idlib siano infatti concentrati circa 3.4 milioni di profughi, tra cui 2 milioni di sfollati interni siriani, di cui la maggior parte teme di fare ritorno nelle aree controllate dal regime, e che dunque fuggirebbero verso la Turchia in caso di nuovi attacchi. E’ per sventare questo drammatico scenario che la Turchia giustifica lo stazionamento di circa 15.000 soldati intorno all’enclave di Idlib e nel nord della Siria, nonostante le relazioni tra Ankara e il gruppo islamista di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), che controlla la provincia, si siano deteriorate. Come detto, inoltre, Ankara è presente nel nord della Siria anche con un obiettivo che esula dal contenimento dei rifugiati, ma che consiste – come ben evidenziato da Fabrice Balanche (Le Figaro, 6 giugno 2020) – nell’annientare il progetto di autonomia curda ai propri confini, anche attraverso pratiche come la sostituzione etnica dei curdi, in fuga di fronte all’avanzata turca, con siriani arabi sfollati da altre province.

In realtà, la politica di contenimento militare turca nel nord della Siria non ottiene più l’unanimità tra i partiti in Turchia, con il CHP, il partito repubblicano, che vorrebbe ristabilire buone relazioni con Bashar al-Assad proprio in prospettiva del rientro dei profughi e l’HDP, il partito democratico curdo, che sostiene cautamente il progetto di autonomia curda all’interno della Siria. E’ soprattutto l’Iran a guardare con apprensione all’espansionismo turco in Siria e il suo progetto di costruire una “zona cuscinetto” profonda 30 km oltre il confine, tale da inglobare i tre cantoni attualmente sotto il suo controllo, permettere il ricollocamento di parte dei rifugiati temporaneamente ospitati in Turchia e la costruzione intorno alla località di Sarmada di una zona economica industriale, potenzialmente capace di accogliere almeno parte dell’attività economica precedentemente ruotante intorno ad Aleppo.

La preannunciata avanzata militare turca verso le località di Tal Rifaat and Manbij, ufficialmente rivolta a espellere dalle due città i gruppi terroristici curdi delle Unità di Protezione del Popolo (YPG) e delle Forze democratiche siriane (SDF) – peraltro sostenute dagli Stati Uniti – preoccupa Teheran, le cui milizie sciite sono stazionate nelle località limitrofe di Zahra e Nubl, nonché principalmente ad Aleppo. Per evitare uno scontro diretto tra Teheran ed Ankara nella Siria settentrionale, la Russia è intervenuta come mediatore, spingendo le parti a negoziare una soluzione di compromesso sfociata nel comunicato dello scorso 17 giugno (a seguito dell’ultimo round di colloqui di Astana) in cui si riconosce la legittimità delle preoccupazioni securitarie turche e ribadisce la volontà congiunta dei tre partner (Iran, Turchia e Russia) di non sostenere “progetti separatisti” in Siria. Ad oggi, l’intervento russo è stato capace di scongiurare  la quinta operazione militare turca in cambio della promessa informale che il regime non interverrà ad Idlib.

C’è poi il dossier libico. Qui la Turchia appoggia militarmente il governo di unione nazionale di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite: Ankara e Mosca cercano di perseguire autonomamente i rispettivi interessi senza ostacolarsi apertamente e affrontando bilateralmente i punti più sensibili che le vedono prossime allo scontro, come le rispettive operazioni militari in Siria. Non è un caso che la Turchia abbia ceduto con riluttanza alle pressioni americane e ucraine di chiudere lo stretto del Bosforo alle navi militari russe, senza peraltro aderire alle sanzioni di matrice USA, né chiudere la navigazione alle navi civili e il suo spazio aereo a Mosca, ma offrendosi piuttosto come mediatore nel conflitto che la oppone non solo all’Ucraina, ma alla NATO, di cui pure Ankara fa formalmente parte.

 

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I due Paesi collaborano, inoltre, su progetti di lungo termine di comune interesse – Mosca aiuta Ankara, ad esempio,  nella costruzione di un rettore nucleare a scopi civili a Akkuyu, vicino a Mersin, e istruisce in Russia i futuri ingegneri turchi chiamati a gestire l’impianto. Hanno inoltre dato prova di notevole flessibilità nel raggiungimento dell’accordo tra Armenia e Azerbaijan in Nagorno-Karabakh, come in conflitti minori avvenuti nei Paesi dell’Asia centrale, anche se gli accordi raggiunti restano di carattere contingente, fondandosi sulla capacità di negoziare interessi concreti e non di armonizzare le rispettive politiche estere e inserirle in un quadro più ampio di principi di condotta internazionale.

Nonostante l’ingente sforzo diplomatico turco di proporsi come un partner costruttivo ed affidabile nello scenario regionale ed internazionale, i tentativi della nuova Türkiye di costruirsi un’identità politica vergine del passato, più cooperativa e dialogante, urtano contro un’ondata di crescente animosità militare e popolare verso la Grecia e Cipro, principali vicini del Mediterraneo, nell’indisponibilità di siglare la Convenzione ONU sul diritto del mare (UNCLOS, 1982), che attribuisce anche alle piccole isole greche il diritto a proprie acque territoriali, fino a rigettare, al limite del revisionismo storico, alcuni principi di demarcazione territoriale con la Grecia contenuti nel Trattato di Losanna (1932).

Il partito AKP, in constante discesa nei sondaggi pre-elettorali in vista del voto del prossimo 18 giugno 2023(27% al giugno 2022) e, dunque, in disperata ricerca di consensi, è pronto a rinunciare alla componente più ideologica della sua politica estera, afferente all’ideologia dei Fratelli musulmani, ma non all’agenda nazionalista che la vede opporsi a Grecia e Cipro nello sfruttamento del gas e nella divisione del mare Egeo. Sembra inseguire su questo scivoloso terreno il sentimento diffuso nell’opinione pubblica turca, forse orientata a rimpiazzare alle prossime elezioni il Partito di Giustizia e Sviluppo con formazioni più laiche, ma non necessariamente meno scioviniste.