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Unione Europea e Ucraina: la logica geopolitica dell‘allargamento

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Per decenni il dibattito sulla costruzione europea si è imperniato sul dilemma fra allargamento e approfondimento. La retorica ufficiale sosteneva – poco convincentemente – che fra i due obiettivi non vi fosse contraddizione. Come negare che il primo allargamento (1973), con l’ammissione della Gran Bretagna insieme a un paese nordico e uno neutrale, ha messo un po’ di sabbia nell’ingranaggio dell’evoluzione verso una unione più sovranazionale?

 

Questa ha ricevuto un nuovo impulso nella seconda metà degli anni Ottanta (eravamo ancora una comunità a dodici), ma a seguito del crollo dell’impero sovietico l’interesse geopolitico ad impedirne la ricostituzione spinge verso una grande disponibilità ad accogliere le domande di ammissione dei Paesi dell’Europa centro-orientale, compresi i baltici (cui si aggiungono Slovenia, Croazia, Cipro e Malta). Fra i fautori più accesi di una loro piena membership senza troppe condizioni è proprio il Regno Unito, con il chiaro scopo di diluire l’integrazione europea e rendere più difficoltosa l’adozione di nuove norme comuni e di riforme costituzionali. Gli europeisti più ambiziosi avrebbero voluto alzare l’asticella, oppure articolare la struttura dell’Unione in cerchi concentrici.

Questa formula fu abbandonata perché prevalse la volontà di legare strettamente all’Occidente i Paesi di nuova democrazia, e questi non erano disposti ad accettare uno status di seconda categoria. Non solo per ragioni di prestigio ma perché essere relegati in una orbita esterna comportava il rischio di essere considerati una zona-cuscinetto fra Est e Ovest – e si potrebbe obiettare che a questo fine bastava l’appartenenza alla NATO.

 

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La piena ammissione al club delle democrazie europee più avanzate veniva così messa al servizio di una finalità geopolitica, relativizzando requisiti quali la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, lo Stato di diritto, l’adesione all’ideale di un’Europa sovranazionale (e nel caso dei baltici la non-discriminazione verso gli abitanti russofoni). Lo stesso dicasi per l’apertura di negoziati di ammissione con la Turchia, che si sono poi incagliati per ragioni obiettive ma sembrano ora riprendere quota (vedasi il sostegno italiano), sempre per finalità strettamente geopolitiche (evitare derive asiatiche o pro-russe) e non certo grazie a un avvicinamento agli standard democratici dell’UE. Non a caso chi ha più premuto per una pronta ammissione della Turchia senza troppe condizioni, scavalcando le riserve di vari Paesi europei, è l’America, guidata dall’interesse ad ampliare e consolidare lo spazio euro-atlantico.

Dopo le guerre balcaniche degli anni Novanta, l’offerta di di un percorso privilegiato per l’ingresso nell’UE ai paesi dell’ex-Jugoslavia e all’Albania fu vista come un potente incentivo al superamento delle animosità fra i vari popoli e delle vecchie strutture di potere, a costo di chiudere un occhio sui suddetti requisiti (si è poi visto che questa capacità trasformativa era stata sopravvalutata). La Commissione e alcuni stati membri non hanno permesso di chiuderli entrambi, ma altre voci si sono periodicamente levate per lamentare che la promessa del vertice di Salonicco (2003) non è stata onorata, o addirittura per attribuire a quelle speranze deluse la causa della stagnazione politica in Bosnia e Kossovo o del prevalere di forze nazionaliste in Serbia. Questo atteggiamento può avere spiegazioni non razionali (afflato ecumenico, solidarietà verso chi ha sofferto per i conflitti, perdurare dell’illusione circa l’effetto trasformativo), ma nel caso dei governi riflette la volontà di usare l’UE come strumento per far entrare stabilmente quella zona geografica nell’orbita occidentale e tenerne lontane la Russia e la Cina.

La stessa logica geopolitica ha spinto Mosca nel 2013 ad intimare l’alt al presidente Viktor Yanukovich il quale – benchè pro-russo – stava per firmare un accordo di associazione con l’UE. L’Ucraina era una componente essenziale non solo della Russia storica, ma anche del progetto di Unione Eurasiatica che nell’ottica di Putin doveva fare da contrappeso all’Unione Europea. Perciò, non solo non doveva essere accolta nella NATO, come G.W. Bush aveva tentato di fare nel 2008, ma neanche nell’orbita dell’UE. Come noto, Yanukovich si piegò, provocando l’insurrezione di Piazza (Maidan) Indipendenza e la propria caduta. L’avvento di un governo e parlamento filo-occidentali significò che Mosca aveva perso quella partita, ma si rifece in parte fomentando la secessione della Crimea e dei filo-russi del Donbass.

Questa opzione della acquisizione di territorii come compensazione per una sconfitta geopolitica (cioè nella ripartizione delle sfere di influenza) aveva dei precedenti che risalivano ai primi anni Novanta: Transnistria, Abkhazia, Sud-Ossezia. E la ritroviamo oggi nuovamente nel conflitto ucraino: fallito il tentativo di ridurre a stato vassallo l’intera repubblica sorella, Putin ripiega sulla amputazione dei suoi territorii orientali e meridionali.

La sua politica nel cosiddetto “estero vicino” è stata infatti guidata, nei due decenni scorsi, dalla volontà di recuperare una sfera di influenza ai fini di un riequilibrio del rapporto con gli Stati Uniti, e solo in subordine da appetiti di annessioni territoriali. Ma è anche plausibile che nel suo disegno revanscista rientrasse, oltre a quella della parità con gli USA, una autonoma componente di espansione territoriale: la restaurazione dell’impero russo almeno entro i suoi confini slavi. Una ambizione restata nell’ombra (a parte la sua famosa deplorazione della dissoluzione dell’URSS come “peggiore catastrofe geopolitica” del secolo scorso) fino al 2014. Prima di “Maidan” non aveva ancora deciso di passare il Rubicone, cioè di infrangere la legalità internazionale (la spedizione punitiva del 2008 contro la Georgia poteva essere considerata una risposta alla azione militare georgiana in Sud-Ossezia).

 

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Con l’aggressione all’Ucraina del febbraio 2022, il dittatore russo ha silurato tutti i suoi obiettivi attinenti alla geopolitica europea: ha rinvigorito la NATO e la ha obbligata ad incrementare la propria presenza militare in Polonia, Paesi baltici e Romania, ha spinto Svezia e Finlandia ad entrare nell’Alleanza, ha convinto la Germania a fare un balzo in avanti nella spesa militare. E ha rinunciato, evidentemente, a conquistare gli hearts and minds del popolo ucraino (anche della componente russofona), riducendosi a dominarne solo una parte con la forza.

Scompare così del tutto quella fascia di Paesi almeno formalmente neutrali o militarmente indifesi ed esposti a pressioni di Mosca che attenuavano il senso di accerchiamento. Resta solo il prudente rifiuto della NATO di accogliere l’Ucraina (o quanto ne resterà alla fine della guerra), e  probabilmente  anche la Moldova e la Georgia, fra i suoi membri: un elemento più formale che sostanziale, vista l’assistenza militare fornita.

La decisione dell’UE di offrire lo status di candidati ai primi due Paesi, e una vaga prospettiva al terzo, colma in parte questa “lacuna”: in senso geopolitico, pur se non militare, anche queste caselle vengono occupate dal blocco euro-atlantico. La Russia si è così privata di ogni via di uscita dall’isolamento in cui si è cacciata sullo scacchiere europeo (può solo contare sulle ambiguità dell’Ungheria e sulla complicità della Serbia, alla quale perciò Bruxelles rinnova la promessa di ammissione a condizione che rinunci al legame con Mosca).

Quali opzioni rimangono alla Russia? La stretta collaborazione con la Cina e con i satelliti centroasiatici, ma anche con l’Iran, l’India, il Brasile e altri paesi dell’Asia e America latina che si sono rifiutati di condannarla; e la penetrazione in Africa in concorrenza con la Cina e con noi. Gli storici dovranno cercare di capire se era evitabile che venisse scartata l’opzione più razionale, economicamente e in fondo anche politicamente, quella di un partenariato con l’Europa Occidentale nonostante il rigetto della democrazia liberale e le tentazioni egemoniche nei confronti dell'”estero vicino”.