Emmanuel Macron ha due ragioni giuste e una sbagliata per tentare una mediazione con Mosca di fronte alla crisi ucraina. La prima ragione giusta è che Macron, nel dopo-Merkel, è il leader europeo che conosce meglio Vladimir Putin, con cui ha tenuto contatti frequenti e discusso negli anni le crisi di sicurezza: dalla Libia (Russia e Francia erano almeno inizialmente dalla stessa parte, che certo non era la nostra), alla guerra nel Nagorno Karabakh, al conflitto post-2014 nel Donbass. Se la Russia, per riprendere in breve la celebre definizione di Churchill, è un mistero avvolto in un enigma, e se Putin è uno Zar più che il capo di un politburo, i rapporti personali contano. Specie quando coincidono con la guida dell’unica potenza militare rimasta nell’UE dopo l’uscita della Gran Bretagna.
La seconda ragione giusta è che Parigi non sta giocando in questo caso una partita solitaria o ambigua sulla collocazione europea: Macron si è prima coordinato con Joe Biden, per dimostrare alla Casa Bianca che la Francia non punta a indebolire il doppio binario – deterrenza e dialogo, dissuasione militare e diplomazia – concordato in sede NATO. Resta la diffidenza dei paesi dell’Europa centro-orientale, da sempre scettici sulle aperture francesi verso Mosca.
Ma è anche vero che l’UE nel suo insieme, Italia inclusa, appare per ora marginale: la Francia, facendo leva sulla presidenza a rotazione dell’UE, tenta così di colmare un vuoto, accentuato dalle esitazioni interne al nuovo governo tedesco. Solo il 7 febbraio, il Cancelliere Olaf Scholz ha rotto gli indugi con la sua visita alla Casa Bianca e promettendo unità sulla risposta a una eventuale invasione russa dell’Ucraina (con un riferimento implicito, quindi, al nodo controverso di Nord Stream 2, il gasdotto fra Russia e Germania). In breve: Macron ci prova, anche per affermare la sua immagine internazionale ma con il rischio di perdere credibilità a due mesi dalle elezioni francesi. Il riflesso, quasi automatico, sarebbe di liquidare per definizione questa ennesima prova di pretesa grandeur; ma se l’Europa non ha una voce in questa drammatica partita, è meglio che il tentativo di Parigi ci sia.
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Poi viene la ragione sbagliata, quella che porta Macron a pensare (intervista a Le Journal du Dimanche) di essere il solo ad avere capito i “traumi contemporanei” della “grande nazione russa”. In realtà, i traumi sono abbastanza chiari: avere perso la guerra fredda e di conseguenza la vecchia sfera di influenza nello spazio ex-sovietico. Quella che non è chiara è la soluzione: se la Russia, come tutti i paesi, ha interessi legittimi di sicurezza, in che modo tali interessi possono essere riconosciuti senza cedere al ricatto dell’uso della forza e senza sacrificare principi essenziali come l’integrità e la sovranità degli Stati che separano la Russia dall’Europa?
L’Unione Europea, che dipende largamente dalle importazioni di gas russo e che si troverebbe a pagare la quota maggiore del costo di nuove sanzioni, avrebbe un evidente interesse a un rapporto cooperativo con Mosca. E così gli Stati Uniti: come ha dimostrato il vertice fra Xi e Putin all’apertura delle Olimpiadi invernali di Pechino, uno dei prezzi della crisi ucraina è il coordinamento fra Mosca e Pechino per contrastare Washington su due fronti, l’Atlantico e il Pacifico.
Per queste ragioni, economiche e geopolitiche, la posta in gioco attorno all’Ucraina è così alta; ma vista la contrapposizione di fondo su principi e regole della sicurezza europea, la ricerca di una soluzione resta ardua. Putin ritiene di avere in mano le carte migliori: per la debolezza politica di Joe Biden e perché l’Europa in ordine sparso lo preoccupa poco. In realtà, lo Zar del Cremlino ha tentato un azzardo da cui prima o poi dovrà uscire. Vista la coesione del sistema occidentale, che invece Mosca riteneva in crisi terminale, e dati gli aiuti all’Ucraina, i costi di una invasione militare su larga scala sarebbero davvero molto alti. Troppo alti per una Russia che ha rafforzato le sue riserve finanziarie ma non la solidità complessiva di un sistema economico comunque dipendente dall’export di gas al mercato europeo.
La pressione militare del Cremlino ha in effetti rivitalizzato anche la NATO, con una smentita della “morte celebrale” dell’Alleanza atlantica di cui Macron aveva parlato anni fa fra molte polemiche. Ma se questo è un calcolo razionale dei costi-benefici dell’opzione militare, esistono gli scenari intermedi (una guerra ibrida che continua nel tempo) ed esiste il problema di come Putin possa “vendere” una de-escalation, dopo mesi di dispiegamenti militari alle frontiere dell’Ucraina, senza perdere la faccia. Fattore sempre rilevante nelle dinamiche della politica internazionale.
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All’interno di un sistema occidentale che regge, è possibile una divisione dei compiti. Francia e Germania, come parte del “Formato Normandia” sugli accordi di Minsk, mai rispettati né da Mosca né da Kiev, dovrebbero concentrarsi sulle condizioni per l’autonomia del Donbass – l’accordo del 2014 parla di decentramento dei poteri e auto-governo. Questo, come dimostra l’incontro fra Macron e il presidente ucraino Zelenski, è il primo contributo diplomatico che gli europei provano a portare al tavolo. E non è irrilevante: sul futuro del Donbass si giocano gli scenari della crisi ucraina. Sul piano della dissuasione militare, sono anzitutto la Nato e gli Stati Uniti a potere parlare il linguaggio che la Russia capisce.
L’Europa ha scoperto, anche attraverso l’Ucraina, che il mondo kantiano in cui credeva di vivere non esiste più. Ma deve trarne le conseguenze, seppure in estremo ritardo. Sicurezza energetica e difesa comune devono diventare priorità reali: l’Europa deve riuscire a pensarsi come potenza non solo economica. Altrimenti resteremo nella situazione di sempre: il ruolo di un “payer” che non diventa mai “player”.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 7/02/2022