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La geografia interna del Partito Repubblicano – oltre Trump

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È un Partito Repubblicano speranzoso quello che si accinge alla campagna elettorale per il voto di metà mandato, appuntamento decisivo per il futuro della presidenza Biden, che si terrà nel novembre del 2022.  La recente vittoria di inizio novembre in Virginia, legata all’inatteso buon risultato del New Jersey, sta infatti spingendo l’Elefantino a ritenere di poter riconquistare la maggioranza in almeno una delle due camere del Congresso. Notizie confortanti per il Grand Old Party arrivano del resto anche dai sondaggi: secondo una recente rilevazione Washington Post-ABC News, il 51% degli elettori registrati voterebbe per i Repubblicani al Congresso, contro un 41% che sosterrebbe invece i Democratici.

Il nuovo governatore repubblicano della Virginia Glenn Youngkin

 

È quindi in questo quadro generale che vale la pena di dare un’occhiata alla geografia interna al Partito Repubblicano: nonostante registri al momento meno spaccature intestine rispetto ai Democratici, i repubblicani si dividono in articolazioni che avranno prevedibilmente un peso sull’imminente campagna elettorale per il voto di midterm. Articolazioni che, in particolare, ruotano ancora e sempre attorno alla figura di Donald Trump. Solitamente si ritiene che la dialettica interna vada principalmente letta come uno scontro tra stretti alleati ed aperti avversari dell’ex presidente. In realtà, a ben vedere, la situazione risulta decisamente più complessa.

Cominciamo col sottolineare che vi siano senza dubbio alcuni esponenti repubblicani esplicitamente ostili a Trump. Sotto questo aspetto, la figura più importante è quella della deputata Liz Cheney, che ha ripetutamente criticato l’ex presidente e che fa attualmente parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’irruzione in Campidoglio del 6 gennaio 2021: un ruolo che ha assunto in polemica con lo stesso Trump e con la leadership dell’Elefantino. Non solo: Liz Cheney è infatti stata anche tra i deputati repubblicani che, lo scorso gennaio, votarono a favore del processo di impeachment contro l’allora inquilino della Casa Bianca. Fu soprattutto a causa di ciò che Trump, a maggio, ha fatto leva sul proprio peso politico in seno al partito per estrometterla dal ruolo di presidente della Conferenza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti.

Nonostante l’indubbia rilevanza di Liz Cheney, la corrente repubblicana apertamente anti-trumpista non risulta al momento troppo vigorosa. Adam Kinzinger, altro deputato storicamente avverso a Trump, ha di recente annunciato che non si ricandiderà per un nuovo mandato alla Camera. Inoltre, la stessa Cheney sta incontrando dei problemi. La sezione del Partito Repubblicano del Wyoming – Stato di cui è attualmente deputata – l’ha infatti formalmente espulsa a metà novembre. Certo, è pur vero che, in vista della sua campagna per la riconferma l’anno prossimo, Liz Cheney se la sta cavando egregiamente in termini di raccolta fondi. Ma è altrettanto vero che la deputata può contare su un potente network di finanziatori che gravitano attorno a suo padre Dick e all’ex presidente George W. Bush. Bisognerà quindi vedere se la sua potenza di fuoco finanziaria sarà effettivamente in grado di trasformarsi in consenso nelle urne. In tutto questo, le ultime elezioni governatoriali in Virginia hanno rappresentato un duro colpo per il Lincoln Project: notorio PAC di Repubblicani anti-trumpisti, che si era speso contro il candidato repubblicano Glenn Youngkin, poi risultato eletto.

Se la corrente espressamente anti-trumpista non gode (almeno al momento) di ottima salute, non bisogna credere che il resto del partito sia graniticamente compatto attorno all’ex presidente. Nonostante non si registrino rilevanti contestazioni alla sua leadership, anche la galassia dei sostenitori di Trump è a sua volta caratterizzata da una dialettica interna: una dialettica che vede protagonisti i più ferrei supporter della linea dell’ex presidente e coloro che, dall’altra parte, ritengono necessario non ridurre la politica del partito a un costante referendum su Trump. Simili posizioni sono emerse per esempio la scorsa estate in Senato, in occasione dei negoziati sulla riforma infrastrutturale (il cosiddetto Infrastructure Investment and Jobs Act).

 

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Ma mentre una parte consistente degli esponenti repubblicani ha chiuso le porte al dialogo con i Democratici (seguendo così le indicazioni dell’ex presidente), un gruppo di senatori si è mostrato invece disponibile alle negoziazioni e all’approvazione dell’Infrastructure Investment and Jobs Act, pur non rinunciando ad intervenire per modificarlo in profondità (ricordiamo, a tal proposito, che il provvedimento definitivo presenta un costo complessivo di circa la metà rispetto a quello originariamente proposto da Joe Biden e che alcuni elementi significativi – a partire dall’innalzamento della corporate tax – sono alla fine stati espunti dal testo). Un fattore interessante è che la divisione interna sulla riforma infrastrutturale si sia rivelata trasversale rispetto ai rapporti di alleanza con Trump. A sposare la linea aperturista non sono stati soltanto quei senatori che – come Mitt Romney e Lisa Murkowski – intrattengono da sempre una relazione particolarmente burrascosa con l’ex presidente, ma anche alcuni stretti sostenitori di quest’ultimo, quali per esempio Lindsey Graham e Chuck Grassley.

Chuck Grassley e Lindsey Graham alla Commissione Giustizia del Senato, nel 2019

 

Come accennato, questo tipo di dialettica presenta dei tratti sfumati, ma non per questo scarsamente rilevanti. La maggioranza del Partito Repubblicano ritiene più o meno compattamente che parte consistente dell’eredità politica trumpista vada mantenuta e salvaguardata: a cominciare dalla maggiore attenzione alla working class e dall’avanzamento nel consenso elettorale tra le minoranze etniche. La differenza risiede nel fatto che da una parte c’è chi punta ancora molto sul carisma personale di Trump, per riproporre una sua candidatura nel 2024 o per dichiararsene erede (è, per esempio, probabilmente il caso del senatore Josh Hawley). Dall’altra, c’è chi invece ritiene che non sia strettamente necessario incentrare l’intera strategia del partito individualmente sulla figura dell’ex presidente.

Del resto, si tratta di un dilemma significativo, emerso durante le ultime elezioni governatoriali in Virginia: non a caso, si è aperto un dibattito sulle ragioni della vittoria di Youngkin. Da una parte, Trump ha rivendicato il merito del successo alla luce di due considerazioni: non solo l’ex presidente aveva infatti dato il suo endorsement al candidato, ma le contee di fede trumpista hanno anche registrato una mobilitazione fondamentale per aiutare quest’ultimo a battere il democratico, Terry McAuliffe. Dall’altra parte, si è fatto tuttavia notare che Youngkin abbia scarsamente coinvolto l’ex presidente durante la campagna elettorale, anche perché la Virginia si è storicamente rivelato uno Stato ostico per lui: secondo questa interpretazione, il repubblicano avrebbe alla fine vinto proprio grazie al fatto di aver tenuto Trump a relativa distanza, riuscendo a concentrarsi maggiormente sulle questioni locali e a raccogliere così consensi più trasversali. È chiaro che questo tipo di dilemma avrà delle ripercussioni a livello nazionale e che si riproporrà soprattutto in vista delle presidenziali del 2024.

 

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Sotto questo aspetto, è evidente che le elezioni del novembre 2022 si riveleranno uno spartiacque per capire lo stato di salute del trumpismo e le probabilità di una ricandidatura dello stesso Trump. Un Trump che, non a caso, ha lasciato recentemente intendere di voler aspettare l’esito di questa tornata, per decidere come muoversi in futuro.

È tuttavia chiaro che, al di là dell’ex presidente, tali risultati siano particolarmente attesi anche dagli altri possibili candidati alla nomination repubblicana del 2024: i papabili – come l’ex ambasciatrice all’ONU Nikki Haley, l’ex segretario di Stato Mike Pompeo o il governatore della Florida Ron DeSantis – vogliono capire in che modo impostare le proprie eventuali strategie elettorali.