La corsa alla decarbonizzazione: effetti sistemici delle politiche a ‘emissioni zero’
Sostenibilità e inclusività sono i mantra dell’età contemporanea, che si parli di industria, di sviluppo o di ambiente, chiamando in causa – nell’ultimo caso – la decarbonizzazione. Questo è il tema cruciale nelle politiche energetiche delle principali potenze.
Nella prima parte di questa analisi, il tema del passaggio dalle fonti fossili ad altre è stato trattato da una prospettiva interna. Anziché dare per scontato che lo scopo di Europa, Stati Uniti e Cina fosse competere tra loro e ottenere una posizione preminente in un tipico ‘gioco a somma zero’, vi sono importanti ragioni interne – di legittimità, consenso e sviluppo socioeconomico – che possono sottostare alla decisione di perseguire la decarbonizzazione.
Vediamo ora gli effetti sistemici associati al passaggio dalle fonti fossili alle rinnovabili. In particolare, è necessario andare oltre le conclusioni – ugualmente parziali e in certa misura contraddittorie – che dalla transizione deriveranno da un lato vantaggi ambientali assoluti, dall’altro un’inevitabile competizione tra questi i giganti della politica internazionale.
Affermare che nella società internazionale (ovvero in un sistema regolato dall’anarchia) gli Stati si confrontino in modo competitivo non costituisce certo una conclusione, piuttosto un dato da cui muovere. Enfatizzare questa componente delle loro interazioni, inoltre, rischia di oscurarne altre forse anche più rilevanti, soprattutto in un sistema globale come quello attuale nel quale prevalgono forme di interdipendenza complessa.
Sul fronte energetico è indubbio che le maggiori economie si stiano attivando sia per assicurarsi il controllo delle fonti dalle quali probabilmente dipenderà il loro futuro, sia per produrre norme che concorrano a definire la struttura e regolamentino il mercato delle rinnovabili. Ciò che sta accadendo tra Europa, Stati Uniti e Cina, tuttavia, è solo apparentemente analogo alla corsa al petrolio. I due casi, piuttosto, sono quasi agli antipodi. La competizione per la maggiore fonte fossile, descritta a suo tempo da Daniel Yergin, riguardava solo le grandi potenze. Oggi si tratta di una partita giocata su più livelli nella quale, oltre a esse, sono coinvolti Paesi produttori, potenze in ascesa e Stati “revisionisti” (intenzionati cioè ad alterare profondamente gli assetti globali). Inoltre, la corsa all’oro nero è avvenuta in un contesto definito e già dominato dalle fonti fossili. L’affermarsi del petrolio come risorsa chiave costituiva una sterzata nel mix – ridimensionava il peso del carbone – ma non modificava radicalmente il paradigma energetico.
Una prima considerazione di natura sistemica su ciò a cui stiamo assistendo è che siamo di fronte a una duplice transizione: qualitativa, perché stanno mutando il tipo di fonti utilizzate, e quantitativa, perché l’approccio al consumo di energia sta cambiando. Il tipo di fonte energetica preminente è mutato più volte nella storia. La tendenza a consumare volumi crescenti di energia, soprattutto da parte dei paesi più avanzati, invece, rappresentava una costante. Con la dismissione delle fonti fossili e il passaggio alle rinnovabili, oggi, si intende invece andare verso la riduzione dei consumi. Che un cambiamento del genere abbia un impatto strutturale è evidente. In cosa ciò tenderà a tradursi, però, non è altrettanto chiaro. A meno che non si sposi il precetto che ‘meno è meglio’ (una sorta di “decrescita felice”, o magari infelice), sempre e comunque, e che il passaggio alle rinnovabili sia privo per definizione di contraddizioni o effetti negativi.
Anzitutto, le principali potenze stanno deliberatamente decidendo di abbandonare una fonte ancora abbondante, distribuita in quasi tutte le aree del globo e commercializzata a prezzi ragionevoli, per ricorrere a fonti scarse, concentrate (le terre rare, necessarie ad oggi per molte rinnovabili, sono presenti in prevalenza in Africa e Cina) e costose da estrarre. Una mossa affatto intuitiva e in contraddizione con le principali definizioni di sicurezza energetica, che parlano di approvvigionamenti stabili a prezzi ragionevoli. In secondo luogo, da un paradigma la cui pietra angolare risiedeva nella simmetria potenza-consumo energetico, si sta passando a un modello basato sulla riduzione dei consumi. Anche in questo caso, una scelta di non immediata comprensione, soprattutto poiché le politiche delle maggiori potenze in materia di clima continuano a essere prive di coordinamento esplicito e la governance del cambiamento climatico, tuttora, è viziata dai tipici dilemmi dei “beni pubblici” (cioè dalle asimmetrie tra disponibilità, accesso effettivo, distribuzione dei benefici e dei costi).
Quali interessi potrebbero sottostare a una scelta onerosa e il cui ritorno in termini di competitività rispetto ai propri pari appare incerto? Non potrebbe darsi, invece, che Europa, Stati Uniti e Cina non intendano sfidarsi a vicenda, almeno non direttamente e prioritariamente? In quel caso, allora, quali sarebbero gli effetti combinati delle loro politiche di decarbonizzazione? Europa, Stati Uniti e Cina (oltre agli altri Paesi OCSE), inoltre, non solo sono le maggiori potenze economiche del pianeta, ma anche tra quelle più avanzate tecnologicamente. Nella cosiddetta età dell’abbondanza degli idrocarburi, dove l’offerta di energia eccede la domanda e molte economie emergenti stanno accorciando la distanza sfruttando il diritto a inquinare per produrre a costi bassi e conquistare mercati, la decarbonizzazione non potrebbe forse rappresentare una risposta per mezzo della quale le maggiori potenze economiche conserveranno il loro vantaggio competitivo?
Europa, Stati Uniti e Cina controllano i fattori (fonti, tecnologie e potere normativo) fondamentali per produrre energie rinnovabili e normare il nuovo mercato dell’energia, quindi l’equilibrio tra domanda e offerta in un ipotetico mondo a ‘emissioni zero’. La Cina controlla al momento la gran parte delle terre rare disponibili sul pianeta, ma si tratta di una fonte non idonea a tutti i sistemi industriali. Servono tecnologie avanzate affinché quei minerali possano sprigionare il loro potenziale e adeguati sistemi di stoccaggio delle scorie. In questo senso, stando alle dichiarazioni del Presidente Biden, gli Stati Uniti sembrano determinati a fissare la frontiera tecnologica nel settore. Infine, perché il ciclo economico possa dirsi compiuto, servono mercati sui quali vendere l’energia prodotta attraverso le tecnologie ‘green’. Su questo aspetto – stando anche alle dichiarazioni della Commissione Europea sul bando entro il 2035 delle auto con motore a combustione interna – l’Europa appare determinata a guidare la transizione come principale consumatore e ad assumere una posizione centrale in materia regolatoria.
Europa, Stati Uniti e Cina, insieme e solo insieme, sono gli unici aggregati economici al mondo in grado di attuare le condizioni necessarie a creare un sistema energetico alternativo a quello attuale, più esattamente un sistema energetico ad alti costi, elevata efficienza e carbon neutral. Al netto di questo dato, quanto può dirsi realistica l’ipotesi che questi tre giganti competano tra loro? Poco, direi. La competizione, assai meno esplicita e dai tratti affatto eroici tipici delle sfide tra titani, è piuttosto la nota lotta impari tra Nord e Sud del mondo: tra quelle società che possono scegliere quale tipo di energia utilizzare e quegli Stati che dovranno estrarre dal proprio sottosuolo sino all’ultima oncia di minerali perché a tal punto indebitati da non possedere di fatto nemmeno più il suolo sul quale formalmente sono sovrani – un ruolo ingrato che ancora una volta toccherà soprattutto all’Africa.
I combustibili fossili probabilmente non spariranno. A livello sistemico, tuttavia, non sorprenderebbe se negli anni a venire, anche in ambito energetico, si delineasse una distinzione tra mercati high cost e low cost. Europa, Stati Uniti e Cina, ovvero le tre economie più avanzate, si sposteranno verso le rinnovabili abbracciando, come detto, un paradigma energetico basato su costi elevati e consumi decrescenti, con il gas naturale come fattore chiave durante la transizione e l’idrogeno ad affiancare le rinnovabili nel mix.
Peraltro, questa gestione/competizione tripartita del cambiamento di paradigma energetico avrà delle ripercussioni sulle politiche di quei Paesi asiatici tecnologicamente avanzati e fortemente integrati sul piano globale come Giappone, Corea del Sud, Taiwan o Australia. In particolare, qualora le relazioni tra Stati Uniti e Cina evolvessero, una serie di schemi consolidati potrebbero venire meno, determinando conseguenze a livello regionale e subregionale.
Intanto, le altre economie e i Paesi di nuova industrializzazione andranno verso un tendenziale abbandono del carbone, ancora prevalente soprattutto in Asia (compresa l’India, che merita un discorso a parte, essendo tuttora in una posizione diversa in termini di modello di crescita economica, e dunque anche di possibile transizione energetica). Il carbone è in termini relativi la fonte maggiormente responsabile degli attuali livelli di inquinamento, ed è piuttosto probabile che queste economie si volgano verso il petrolio e il gas naturale i quali, anche grazie alla maggiore disponibilità dovuta al minor consumo da parte dei tre grandi, risulteranno ulteriormente economici e reperibili.
Se Europa, Stati Uniti e Cina daranno vita a una sorta di ‘cartello green’, la Russia, di contro, potrebbe essere il candidato principale a rifornire i Paesi dell’ex-Terzo mondo (o di nuova industrializzazione) e gli Stati Uniti, al netto della loro attuale capacità ad agire come esportatori netti di idrocarburi, gli sfidanti naturali. Lo scenario sarebbe uno di quelli tipici da nuova Guerra Fredda che appassionano analisti e lettori e, forse, anche quello più idoneo a spiegare in quali aree e tra quali attori la decarbonizzazione potrebbe dare origine nuove (o mai sopite) forme di antagonismo internazionale.
La prima parte di questa analisi
La terza parte di questa analisi