Putin: la fine del consenso
Vse vsyo ponimaiut, tutti capiscono tutto: questa frase allusiva viene ormai ripetuta talmente spesso in varie circostanze e ambienti moscoviti, che il giornalista Alexey Pivovarov – uno dei più sottili commentatori indipendenti, esiliato dalla tv ufficiale nell’underground di YouTube – l’ha messa sulle felpe che pubblicizzano il suo canale Redakzija. Tutti capiscono tutto: una tacita intesa, una strizzatina d’occhio che allude a quello che non si può dire ad alta voce, un consenso sia su quella che viene vista come una discesa ineluttabile verso il baratro che sull’impossibilità di invertire la rotta.
IL DECLINO DEL CONSENSO. Un messaggio in codice molto simile a quelli che ci si scambiava intorno al 1984, prima dell’arrivo di Mikhail Gorbaciov. Il clima politico nella Russia di oggi assomiglia per tanti versi a quella stagione: un’ostilità contro il mondo circostante che rasenta l’isolamento, un presidente americano che lancia l’offensiva contro il Cremlino – al posto di Ronald Reagan con l’“impero del male” è la volta di Joe Biden con il suo “Putin is a killer” – e un grappolo di sanzioni ed espulsioni di diplomatici in seguito a scandali di spionaggio e omicidi di oppositori politici. Un periodo di relativo benessere economico che si sta esaurendo insieme al ciclo del petrolio al rialzo, generando tensioni e scontento cui non si può ovviare per carenza di mezzi finanziari. Una repressione politica che sta rapidamente trasformando l’“autoritarismo informativo” costruito da Vladimir Putin (brillante definizione dell’economista russo Sergey Guriev), basato su un consenso elettorale ottenuto con la manipolazione mediatica, in una dittatura senza aggettivi, che reprime brutalmente il dissenso e impone un’ideologia obbligatoria dalla quale i cittadini fanno sempre più fatica a discostarsi.
Infine, un’élite al potere da più di un ventennio che si sta attrezzando per rimanere al vertice per almeno altri 15 anni, concessi dalle riforme costituzionali del 2020 che hanno “azzerato” i quattro mandati presidenziali precedenti di Putin, permettendogli, almeno in teoria, di rimanere al Cremlino fino al 2036, quando avrebbe 84 anni.
La repressione che ha accompagnato l’avvelenamento di Alexey Navalny e le sue rivelazioni sulla corruzione al Cremlino hanno trasformato sia la natura del rapporto del governo con i russi che la sua percezione. Per quasi vent’anni – per la precisione, fino alla riforma delle pensioni del 2018 – il Cremlino ha contato su un consenso largamente maggioritario e si è potuto permettere di non schiacciare definitivamente un’opposizione troppo sparuta per rappresentare un vero pericolo. Nelle sue diverse fasi, Putin ha rappresentato prima il sollievo per il ripristino dell’ordine e di un almeno relativo benessere dopo lo shock del collasso del comunismo, poi anche il ritorno dell’orgoglio nazionale – declinato in termini molto “sovietici”, attraverso guerre e minacce a paesi limitrofi ex sovietici – e infine il recupero della grandezza imperiale perduta, con l’annessione della Crimea e lo scontro con la comunità internazionale.
PIÙ INSULTI CHE “LIKE”. Un patto sociale che si è incrinato negli ultimi cinque anni: i sondaggi registrano il passaggio dall’86% dei consensi all’epoca della guerra contro l’Ucraina a uno scarso 30%. Putin continua a mantenere il primo e per certi versi l’unico posto nei sondaggi stessi – tutti gli altri politici si assestano su numeri infinitesimali – grazie non tanto a un’autentica popolarità, quanto all’assenza di alternative presenti nello spazio mediatico autorizzato e alla paura dei russi di un cambiamento che rischierebbe di assomigliare a un terremoto.
Premesso che i dati dei sondaggi in Russia non sono esattamente attendibili, considerato anche il prezzo sempre più elevato di un dissenso dichiarato, esistono però numerosi altri indicatori indiretti della fine della lunghissima luna di miele di Putin con i suoi elettori. Basta osservare i membri del suo partito Russia Unita che alle elezioni a Mosca e in altri grandi centri ormai si presentano come “indipendenti”, occultando la propria affiliazione politica a una formazione che perfino nei sondaggi ufficiali raggiunge a fatica il 21%. Basta osservare la crescente prudenza con cui il Cremlino gestisce i discorsi pubblici del presidente, tenuto sempre più lontano da bagni di folla e occasioni interattive, a favore di videoconferenze (laddove le misure anti Covid appaiono più che altro un pretesto) e situazioni rigidamente controllate. Basta leggere i commenti nei social, per il momento ancora non soggetti a censura anche se già passibili di incriminazione per “offesa a esponente del potere”: il numero dei pollici versi per gli interventi di Putin sulle tv di Stato ormai supera stabilmente e di diverse volte i “like”, e gli insulti nei commenti superano di gran lunga le reazioni positive dei sostenitori del presidente. Basta vedere i numeri della vaccinazione con il tanto pubblicizzato Sputnik, che il 62% dei russi non vuole farsi iniettare: un referendum sulla fiducia nel governo che mostra, per l’ennesima volta, come tante mosse di Mosca ricevano più credito all’estero che in patria.
SE IL FRIGO VINCE SUL TELEVISORE. I motivi di questa delusione vanno ricercati innanzitutto nell’economia, nella “vittoria finale del frigo sul televisore”, come i commentatori russi hanno riassunto l’atteggiamento verso gli strumenti della propaganda. Dal 2014 – anno segnato dalla doppia crisi politica, con la rottura post-Crimea e le sanzioni internazionali, ed economica, con il crollo del prezzo del petrolio e contestualmente del cambio del rublo – i redditi reali dei russi non sono più cresciuti. L’aumento dell’iva, dell’età pensionabile e dell’Irpef per i “super redditi” sopra i 13.000 euro annui, insieme ai tagli delle spese sanitarie e del welfare, hanno incrinato la popolarità del presidente soprattutto tra i suoi elettori più fedeli: i pensionati, i dipendenti pubblici, gli operai, gli abitanti delle piccole città di provincia, in altre parole i ceti meno abbienti che richiedevano maggiormente uno Stato paternalista.
Le rivelazioni di Alexey Navalny sulla corruzione del regime non hanno aperto gli occhi agli elettori su una realtà verso la quale nutrivano poche illusioni, ma hanno spezzato la tacita intesa che la “libertà di tangente” si sarebbe tradotta in più ricchezza per tutti, e non solo per gli oligarchi, i ministri, i governatori e gli altri dignitari del regime che dalla loro carica ricavano una rendita di posizione.
LA PANDEMIA, UNA NUOVA CHERNOBYL? L’arrivo della pandemia di coronavirus non si è dimostrato per ora un fattore decisivo nel ribaltamento delle simpatie dell’opinione pubblica russa nei confronti del governo, ma potrebbe rivelarsi una bomba a scoppio ritardato. I numeri ufficiali dell’epidemia in Russia, infatti, sono messi in dubbio dalle statistiche dello stesso governo: la mortalità in eccesso censita finora dalla anagrafe russa porterebbe il paese al primo posto per vittime in Europa, e al primo nel mondo in base a un calcolo pro capite.
I dati reali sulla mortalità sono stati occultati sia all’origine – il famoso dilemma dei “morti per Covid o morti con il Covid”, per cui i deceduti con altre malattie venivano censiti come “morti per complicazioni dell’infezione da coronavirus” – sia a valle, con il divieto esplicito di registrarli impartito a molti funzionari locali. Alcuni medici e attivisti che avevano cercato di protestare sono stati tacitati grazie alla nuova legge che punisce la “diffusione di fake news sulla pandemia”, e l’assenza di un lockdown nazionale ha contribuito a spostare lo scontento per la gestione disastrosa dell’emergenza sanitaria verso i governatori e i sindaci. La propaganda ha utilizzato la pandemia per tornare a presentare l’Occidente, e l’Europa in particolare, come inefficienti rispetto alla Russia, e le informazioni sui “ristori” e gli aiuti a famiglie e imprese elargiti nell’UE e negli USA sono state accuratamente occultate dai media, anche perché il paragone non sarebbe stato a favore della Federazione russa, che ha preferito mantenere un livello di aperture altissimo invece che pagare sussidi.
La gestione dell’emergenza sanitaria è stata indicata da molti commentatori russi e occidentali come una possibile “nuova Chernobyl”, potenzialmente devastante nel momento in cui l’opinione pubblica dovesse scoprire le dimensioni reali dell’impatto epidemico e l’incapacità del sistema sanitario – fuori da Mosca e San Pietroburgo – di garantire assistenza ai malati.
SALITA DEI PREZZI E DISCESA DI PUTIN. Sembra comunque che le illusioni di una fetta cospicua di elettori siano già svanite da tempo. Perfino i sondaggi degli istituti demoscopici ufficiali registrano un numero altissimo e senza precedenti di russi propensi a protestare sulla base di motivazioni sociali e/o economiche: la preoccupazione principale rimane l’aumento dei prezzi, che ha suscitato di recente anche l’ira di Putin.
L’inflazione media è intorno all’8% annuo, ma ha segnato dei picchi su alcune categorie di prodotti alimentari base come lo zucchero e l’olio di girasole, arrivando anche all’85%. L’ordine del governo di fermare la crescita dei prezzi, insieme alle sovvenzioni statali ai produttori, ha prodotto per la prima volta dalla fine dell’Unione Sovietica carenze nei negozi, con molte imprese del settore agroalimentare che hanno preferito dirottare i loro prodotti verso l’estero per guadagnare di più. La quota ufficiale dei poveri ha raggiunto il 15% della popolazione, e negli ambienti degli esperti governativi si discute sempre più spesso dell’introduzione di una qualche forma di food stamps o altre forme di razionamento più o meno indiretto per garantire ai meno abbienti i generi alimentari base a prezzi accessibili.
Una situazione di crisi, nella quale la figura da padre della patria di Vladimir Putin appare ormai incapace di infondere fiducia. Colpa sia dell’usura del personaggio dopo 22 anni in cui ha occupato praticamente tutta l’agenda mediatica russa, sia di un distacco sempre più evidente del presidente dalla realtà (la gaffe sulla classe media russa che rappresenterebbe il 70% della popolazione, calcolata con un trucco numerico che ha permesso a Putin di considerare ceto medio chiunque avesse un reddito di 17.000 rubli, circa 180 euro, è caratteristica di questo declino).
Il presidente russo è rimasto vittima proprio di quell’assetto che aveva costruito con tanta cura: l’assoluta centralizzazione e personalizzazione del suo potere fa sì che oggi non riesca a spostare la responsabilità del malessere sui suoi sottoposti. Inoltre, la “vittoria del frigo sul televisore” ha fatto inceppare il suo più collaudato meccanismo di conquista del consenso. Per quasi due decenni i russi avevano regalato il massimo dei consensi al loro presidente in momenti di guerra e/o scontro con il mondo esterno: la Cecenia nel 1999, la Georgia nel 2008, l’Ucraina nel 2014 hanno prodotto picchi di popolarità. Già la guerra in Siria ha invertito il trend nel 2015, e negli anni successivi di vacche sempre più magre l’atteggiamento dei russi ha subito un’inversione di 180 gradi. Oggi, le notizie di aiuti al Venezuela, di invio di vaccini Sputnik all’Argentina, di condono dei debiti alla Siria, come della produzione di nuove potentissime armi per l’arsenale russo, suscitano semmai fastidio.
La sindrome post-imperiale sta lentamente svanendo, complice anche un avvicendamento generazionale, e la richiesta più pressante degli elettori comincia a essere quella di concentrarsi sul benessere e lo sviluppo interno. Il richiamo alla Russia come “fortezza assediata” da un mondo ostile non sembra più in grado di giustificare il calo del tenore di vita e il divario sempre più evidente tra il benessere delle élite con beni e famiglie all’estero e il popolo, costretto a consumare prodotti alimentari e farmaci sempre più scadenti per colpa delle “contro sanzioni” russe che mandano sotto le ruspe formaggi e frutta importati illegalmente dall’Unione Europea.
IL DILEMMA RISCHIO/BENEFICIO. La propaganda del Cremlino sta faticando a proporre al suo pubblico un’agenda diversa. La recente decisione del governo di chiudere i collegamenti aerei con la Turchia per punire Recep Tayyip Erdogan, colpevole di aver dichiarato che la Crimea resta una penisola ucraina annessa dai russi, è stata una dimostrazione di come il Cremlino abbia intenzione di continuare a subordinare il benessere del popolo e il funzionamento dell’economia a considerazioni di “geopolitica”. La costa anatolica è infatti da sempre la destinazione prediletta dalle masse russe per le vacanze, e centinaia di migliaia di persone hanno perso le loro prenotazioni per il lungo ponte di inizio maggio per un capriccio di Putin.
L’esigenza di tornare a un’agenda meno conflittuale, e di lanciare riforme ormai inderogabili, è condivisa sia dagli elettori che da buona parte delle élite russe, che però si trovano a dover risolvere un dilemma in termini di rischio/beneficio: sia i primi che le seconde hanno paura che un indebolimento del regime possa produrre una destabilizzazione troppo radicale. Il cambiamento infatti non può che passare da un ripensamento dell’assetto al vertice, e il referendum sulla riforma costituzionale, insieme alla repressione dell’opposizione scesa in piazza con Navalny, mostra che Putin è pronto a governare ormai anche in assenza di un consenso diffuso. Anche perché in un regime quasi monarchico diventa praticamente impossibile garantire al sovrano uscente e alla sua corte la tutela della persona e dei beni: lo stesso Putin a suo tempo ha dimostrato che un autocrate invecchiato non può mai fidarsi del suo delfino.
L’élite putiniana – al cui interno si consuma ormai un conflitto generazionale tra i più ideologici settantenni e i più pragmatici cinquantenni – si trova così di fronte a un dilemma per ora irrisolvibile: cambiare significa correre il rischio di un collasso, non cambiare significa aumentare le probabilità di un declino irreversibile. Tutti capiscono tutto. Ma per ora da questa consapevolezza non deriva un programma d’azione.
*Questo articolo è stato pubblicato sul numero 93 di Aspenia