Lo Stato dell’Unione: Ursula von der Leyen tra governi e Parlamento
“Il futuro è l’Europa”, recita il più famoso murales del quartier européen di Bruxelles. Il futuro è dell’Europa – se saprà restare unita, porsi obiettivi ambiziosi ma realizzabili e guidare sulla scena globale – secondo la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Lo ha detto il 16 settembre, in occasione del suo primo discorso sullo Stato dell’Unione (SOTEU), di fronte alla plenaria del Parlamento europeo riunita ancora una volta a Bruxelles, e non a Strasburgo, per evitare i rischi di contagio connessi alla trasferta.
Il discorso sullo Stato dell’Unione – ispirato al tradizionale appuntamento che vede il presidente degli Stati Uniti riferire di fronte al Congresso in adunanza plenaria – è da oltre dieci anni un must watch della politica europea; il primo a pronunciarlo fu José Manuel Barroso nel 2010 – è di quell’anno l’accordo-quadro tra Commissione e Parlamento che ha istituito la prassi. Da allora, tre presidenti si sono succeduti sul podio, per un totale di nove discorsi (uno per ogni anno del mandato, eccetto il primo).
Non un libro dei sogni né una lista della spesa (pubblica): a differenza dei precedenti interventi di von der Leyen, il SOTEU 2020 ha mantenuto l’equilibrio di un asciutto ma denso elenco di priorità politiche da tradurre in legislazione europea nell’anno a venire – e forse pure qualcosa in più. Priorità ispirate, da un lato, da una chiara visione e dalla fiducia nel potere trasformativo del progetto europeo – la stessa che von der Leyen aveva dimostrato già in occasione della presentazione della sua candidatura – e dall’altro dal pragmatismo dei mesi scorsi, quando si trattava di far quadrare il bilancio – un esercizio ad oggi tutt’altro che concluso, ma ormai nel campo di Consiglio e Parlamento.
Il valzer tra visione e pragmatismo, tra parlamento e Stati
La presidente della Commissione ha impiegato 79 minuti per descrivere l’idea di Europa che ha in mente – verde, digitale e geopolitica – e annunciare varie iniziative che non erano trapelate nei giorni precedenti: sembra essere ormai diffuso costume ai piani alti del Berlaymont quello di riservare i grandi annunci solo a una ristrettissima parte di staff.
Del resto, non è la prima volta che Ursula von der Leyen lo ricorda: il Parlamento è la casa della democrazia europea, ed è dai suoi banchi che vanno comunicate le intenzioni della Commissione. La deferenza nei confronti dell’Aula – che ne approvò l’investitura con una risicatissima ed eterogenea maggioranza, nel luglio di un anno fa – la presidente della Commissione l’ha imparata con i mesi, anche se non del tutto.
A torto o a ragione, von der Leyen è talvolta accusata di essere facile preda delle sirene provenienti dagli Stati membri: un segnale piuttosto recente è stato intravisto nella silente accondiscendenza rispetto alle dimissioni del Commissario irlandese al Commercio Phil Hogan, richieste a gran voce dal governo di Dublino dopo che lo stesso aveva violato le precauzioni anti-Covid nel paese natio. La carta del sostegno parlamentare è allora un asso importante nella manica della numero uno della Commissione che vuole dimostrarsi autonoma rispetto alle capitali che l’hanno scelta. Asso da giocare saggiamente anche nel fare squadra con gli europarlamentari contro le ritrosie o le riserve dei governi nazionali.
Lo ha ricordato, ad esempio, quando ha rilanciato le rimostranze dell’Assemblea, rimproverando ai leader del Consiglio europeo di aver soppresso dal bilancio pluriennale il nuovo programma “EU4Health”, asse portante della cosiddetta “Unione Europea della Sanità” con cui, con un tributo ai sanitari in prima linea contro la pandemia, von der Leyen ha esordito nel suo discorso.
C’è chi sale e chi scende, nel personale bilancino dell’agenda von der Leyen dopo il primo SOTEU. Salgono i diritti e lo stato di diritto, scendono la difesa e lo spazio.
Diritti dei lavoratori, trasformazione energetica, priorità industriali
La presidente della Commissione ha evocato la sua esperienza di ministra nei governi di Angela Merkel sì, ma per parlare della necessità della contrattazione collettiva come base per giungere a un salario minimo europeo – una proposta sul tavolo da tempo e ravvivata dal discorso di metà settembre. È mancato, d’altra parte, ogni accenno ai temi che ha seguito negli ultimi sei anni come titolare della Difesa in Germania: l’obiettivo di rafforzare la difesa comune nel corso del suo mandato, come aveva detto presentando le priorità chiave della sua Commissione un anno fa, è stato il grande assente della discussione.
Sale il Green Deal, con la fissazione di ambiziosi obiettivi da perseguire in direzione transizione ecologica; scende il digitale – nonostante i proclami parlino di “decennio digitale” dell’UE – con l’assenza di ogni sorta di riferimento alla regolamentazione della sfera online e dei suoi big player. Sull’ambiente von der Leyen ha impresso un’ulteriore accelerazione, ribadendo il focus del Recovery Fund “Next Generation EU” sugli obiettivi del Green Deal (per il 37% dei suoi 750 miliardi) e annunciando che il 30% dei titoli europei che finanzieranno la ripresa saranno green bond.
Sull’impegno di aumentare dal 40% al 55% (il dato di riferimento è quello del 1990) il target di riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030 sulla strada verso il raggiungimento della neutralità climatica nel 2050 sconta lo scetticismo di qualche eurodeputato, in particolar modo della sua stessa CDU (“può comportare seri rischi per un Paese come la Germania”), e l’impazienza di altri, che appena una settimana fa avevano votato in commissione Ambiente per la fissazione dell’obiettivo al 60% – dopo una proposta iniziale del 65%. Se Volkswagen, il più grande produttore di auto al mondo, ha avanzato un’apertura di credito in linea con l’appoggio espresso alla vigilia del SOTEU da 170 fra piccole e medie imprese e multinazionali (da Apple a Ikea, da H&M a Unilever), ci hanno pensato i Paesi del Gruppo di Visegrád ad alzare le barricate in vista della battaglia politica, per bocca del Ministro dell’Industria ceco.
Sul fronte digitale, la presidente cita una strategia per l’intelligenza artificiale, un’identità digitale europea, una via europea allo stoccaggio dei dati industriali (attraverso dei cloud autonomi che li tengano al riparo da interferenze esterne, secondo il mantra del super-Commissario al Mercato interno Thierry Breton), la necessità di portare la banda larga al di fuori dei contesti urbani. Ma perde di vista Google, Facebook e gli altri big tech e ogni anticipazione sulle risposte che darà il Digital Services Act (DSA, previsto per fine anno) agli interrogativi relativi al ruolo e alle regole per le piattaforme online; sul DSA si è appena conclusa una consultazione pubblica che ha raccolto circa 3mila pareri: la proposta della Commissione è attesa entro fine anno.
In difesa dei diritti della persona
Ma von der Leyen – che ormai ha capito quali tasti toccare per vincere il favore del Parlamento – l’applauso più lungo e scrosciante l’ha ottenuto quando ha ribattezzato le LGBTQI-free zone della Polonia come humanity-free zone, prima di riferire che la Commissione adotterà una strategia sui diritti LGBTQI che includa anche il riconoscimento delle coppie omogenitoriali in tutta l’UE. Politicamente una sorta di bomba a mano, se vista dai governi nazional-conservatori di Polonia e Ungheria, al pari della conferma che tra pochi giorni sarà presentata il nuovo pacchetto sulla migrazione che promette di archiviare il regolamento di Dublino – come ha annunciato in risposta a un intervento in Aula – e comunitarizzare così l’accoglienza rispetto all’attuale sistema secondo cui è il Paese di primo arrivo automaticamente responsabile per il trattamento delle domande di asilo (ma i dettagli si fermano qui).
Le difficili vie di una Commissione geopolitica
La pandemia ha riformato l’agenda von der Leyen, ma non la necessità di dotare l’Europa di un’autonomia geopolitica di fronte a Russia, Turchia, Cina, ma anche Stati Uniti e Regno Unito – gli alleati inesorabili al di là dell’Atlantico e della Manica. Si tratta della capacità di guidare una riscossa del metodo multilaterale fra Nazioni Unite, Organizzazione mondiale della sanità e Organizzazione mondiale del commercio – l’azzoppato Wto che questo autunno dovrebbe dotarsi di un nuovo Direttore Generale mentre il funzionamento del suo organismo di risoluzione delle controversie è in stallo da un anno.
Sulla Brexit, nel discorso sono stati evocati, a pochi minuti di distanza, due personaggi che fanno appello a audience perlomeno molto diverse, ma toccano il nervo scoperto delle tensioni con Londra sull’Irlanda del Nord: John Hume (il socialdemocratico nordirlandese premio Nobel per la pace per il suo ruolo negli accordi di pace del Venerdì santo, scomparso un mese fa), e Margaret Thatcher, le cui parole prende in prestito per assestare una stilettata al premier britannico Boris Johnson (“Il Regno Unito non infrange i trattati”).
Cercando di apparire decisa e pragmatica, von der Leyen ha mantenuto l’attenzione sulle varie iniziative che ha snocciolato senza avventurarsi su sentieri setacciati di aspirazioni di riforma dell’assetto dell’UE che possono essere politicamente scivolosi. Peccato che fra le vittime eccellenti di questo equilibrismo istituzionale sia finita la Conferenza sul futuro dell’Europa, la piattaforma di dibattito e dialogo sul funzionamento dell’Unione che avrebbe dovuto prendere il via a maggio ma è stata rinviata all’autunno. La leader della Commissione si è anche affidata a un certo ermetismo quando ha alluso cripticamente al gasdotto Nord Stream 2 con la Russia – sullo stop alla cui costruzione in tanti fanno adesso pressione sulla Germania, che ne sarebbe la principale beneficiaria – e alla creazione di una nuova “Bauhaus europea” per dotare il Green Deal di un suo proprio design.
Non è passato inosservato, invece, il riferimento al passaggio dall’attuale unanimità al voto a maggioranza qualificata in Consiglio in materia di sanzioni internazionali, nei giorni dell’opposizione alle misure contro l’establishment bielorusso da parte di Cipro, che chiede pari trattamento anche contro Ankara. Per attuare questo passaggio basterebbe una decisione in tal senso di tutti i capi di Stato e di governo, senza necessità di metter mano a una revisione dei Trattati. Un assist involontario a chi, come l’ex leader liberale Guy Verhofstadt, l’ha invitata a riavvolgere il nastro e ripetere questo stesso discorso ai leader degli Stati membri.