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La priorità assoluta della crescita economica nell’approccio di Trump

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Con la chiusura della Convention repubblicana il 27 agosto, la corsa presidenziale statunitense entra nei due mesi finali. I sondaggi sembrano segnalare un lieve recupero di Trump: dai quasi 10 punti di distacco a livello nazionale misurati a fine luglio, la media delle rilevazioni si è abbassata a 6-7 punti percentuali di differenza. Sebbene la popolarità complessiva del presidente continui a rimanere estremamente bassa (intorno al 40%), segni positivi arrivano dagli stati in bilico, cioè quelli che determineranno il risultato finale.

 

Trump è in recupero in tutti e tre gli stati che gli consegnarono la vittoria 2016: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania (territori che quattro anni fa i Democratici consideravano già vinti ma che il candidato repubblicano vinse a sorpresa di strettissima misura) e tendenze in miglioramento arrivano anche da Ohio e Florida. Se il trend può apparire positivo, le buone notizie al momento finiscono qui: Trump è indietro in tutti gli stati in bilico (e tra gli swing states ora sembrano annoverarsi anche Arizona, Georgia e South Carolina, stati fino a pochi anni fa saldamente repubblicani) e si trova in una posizione peggiore di quella in cui era quattro anni fa, quando inseguiva sì Clinton, ma con un margine percentuale inferiore ed era avanti nei sondaggi in almeno 5 stati (Arizona, Georgia, Florida, North Carolina, Ohio) che oggi sembrano vedere Biden in vantaggio.

Le due Convention, le proteste contro il razzismo e contro i soprusi della polizia, la retorica “legge e ordine”, la politica internazionale e la nuova “guerra fredda” con la Cina sono temi a cui i media hanno dato molta attenzione ma che stanno avendo un impatto limitato sulla sfida elettorale. La situazione in cui si trova Trump (e di conseguenza anche Biden) è dovuta in una parte importante alla disastrosa gestione dell’emergenza Coronavirus. Che è stata trattata dal presidente esattamente come ogni altra questione in questi quattro anni di amministrazione. Trump ha affrontato ogni problematica come se dovesse preliminarmente rispondere alla domanda: “cosa porta benefici all’economia USA?”. Il suo unico obiettivo era tutelare la crescita economica, il profitto delle aziende e gli indici di borsa.

A gennaio scorso, la rielezione sembrava vicinissima. Gli Stati Uniti erano in una specie di boom economico permanente, con una crescita annua del Pil del 3% e una disoccupazione ai minimi storici al 3,5%. Sebbene l’economia USA fosse in crescita dal 2010, i meriti di Trump erano riconoscibili e tutti riconducibili alla sua domanda chiave di cui sopra. La retorica anti-delocalizzazioni (e pro-reshoring) è servita a convincere molte aziende a riportare produzioni in patria e i dazi commerciali sulle merci provenienti dall’estero hanno favorito le imprese americane.

Quasi sempre a farne le spese è stato l’ambiente: Trump ha disconosciuto tutti gli accordi internazionali sul clima in modo da permettere alle industrie statunitensi di non avere limiti alle emissioni e quindi di non perdere in competitività con le imprese cinesi e indiane. Ha dato via libera a qualsiasi tecnica di estrazione di gas e petrolio, anche le più sporche e degradanti, portando gli Stati Uniti non solo alla piena autonomia energetica ma addirittura a essere leader mondiali nell’estrazione di petrolio. Ha riaperto miniere di carbone destinate alla chiusura e ha perfino consentito la caccia agli orsi in Alaska (qualche decina di famiglie del luogo ne avrà benefici economici).

Il Coronavirus è stato trattato allo stesso modo: il lockdown e la paura avrebbero fatto male all’economia? Ecco quindi la costante sottovalutazione, l’ostinazione a evitare chiusure, a mostrarsi con la mascherina, le mirabolanti promesse di cure e vaccini, le polemiche con scienziati e amministratori locali, il Chinese virus, i tentativi di minimizzare i numeri (“avremo 60-70mila morti”, “dobbiamo aspettarci 100mila decessi”, “non arriveremo a 150mila morti”). Una gestione dilettantesca, infantile e pericolosa. Incapace perfino di imitare le buone pratiche “europee”. Se l’idea era quella di preservare l’economia, il risultato è stato pessimo: ad aprile la disoccupazione è andata al 14,7% (massimo storico dal 1948) e il PIL è crollato del 30% circa nel secondo trimestre del 2020. Molti elettori hanno capito e la popolarità del presidente ne ha risentito. Trump ha fatto tutto da solo, Biden è stato “fermo” e ha beneficiato dei consensi in uscita.

Quello che il Coronavirus ha tolto ora potrebbe ridare. Adesso che i numeri dei contagi e dei decessi sembrano rallentare e l’occupazione riprendere quota, è probabile si vada verso un riallineamento dei consensi e al vero “inizio” della campagna elettorale. Si prospettano due mesi molto intensi, dove Trump farà di tutto per non lasciare la presidenza. Anche andando oltre le proprie prerogative e talora violando perfino le regole.

Dopo i tentativi di delegittimare il voto per posta, agendo sui finanziamenti al servizio postale e facendo pressioni sui vertici dell’ente pubblico, durante la Convention Trump ha più volte violato la prassi politica degli ultimi cento anni: in uno show senza precedenti ha graziato in diretta televisiva una persona condannata e ha conferito la cittadinanza statunitense a cinque persone (tra l’altro inconsapevoli di quello a cui stavano prendendo parte, come nei più classici reality show). E’ stato inoltre violato l’Hatch Act, una legge del 1939 che proibisce l’uso di fondi federali per ragioni elettorali e vieta ai dipendenti del governo di fare propaganda politica. Alla Convention repubblicana ha invece parlato il Segretario di Stato in carica, Mike Pompeo, e mai prima d’ora la Casa Bianca era stata utilizzata per organizzare e ospitare un comizio politico del presidente e della First Lady.

Se davvero l’emergenza Covid-19 andrà attenuandosi e l’economia statunitense saprà riprendersi, Trump farà tutto ciò che potrà per garantirsi la rielezione. Saprà Biden conservare il vantaggio?