L’ombra di Martin Luther King e il duro risveglio dal sogno
“La vera tragedia dei poveri è non potersi permettere nulla se non il sacrificio di se stessi”. Non l’ha detto un leader della rivolta che scuote da settimane le città americane, ma il dandy Oscar Wilde. Aveva capito, l’irlandese imbevuto di cultura francese che è ancora oggi lo scrittore inglese più letto al mondo (quando si dice il multiculturalismo), che è troppo facile moraleggiare trovandosi dal “lato giusto” della storia.
Un altro grande “peccatore” controverso per il suo tempo come George W. Bush ha preso posizione dopo l’assassinio di George Floyd firmando, con la moglie Laura, una dichiarazione inequivocabile e ben argomentata: “how do we end systemic racism in our society?
Se lo chiede il rampollo di casa Bush perché dopo di lui non ha trovato la riposta nemmeno Obama. Occorre essere franchi: la miccia sarà anche nell’orrore di Minneapolis, e il mix esplosivo composto dai veleni del lockdown con l’aggiunta del trumpismo in modalità rielezione, ma la cornice sociale è pur sempre quella elegante disegnata nel doppio mandato presidenziale, e liberal, del fuoriclasse Barak.
D’altronde era tutto nelle premesse. Quando nel 2011 Obama inaugurò il monumento a Martin Luther King a Washington, nel granito commemorativo alto nove metri e intitolato The Stone of Hope non furono incise le due parole fondamentali utili a capire il perché del Memorial: razzismo e segregazione.
Sono le parole d’ordine della rivolta che scuote oggi l’America. E la scuote non solo perché è rivolta nobile, indignata e commovente, ma perché è sia questo che l’esatto contrario: teppista, saccheggiatrice e cieca. Non sarebbe guerriglia, d’altronde. E non scaturirebbe da un angoscioso we can’t breathe.
E’ il prezzo che l’America, sia quella bianca quanto l’élite nera, paga per aver banalizzato il pensiero di Martin Luther King, enfatizzando il mitico, ma tutto sommato vuoto, I have a dream. Una frase che, suonando come un claim pubblicitario, lascia intatto il divario tra classi sociali, ma anche tra etnie (i numerosi bianchi poveri sono anch’essi una realtà da non dimenticare), che fotografa impietosamente la struttura sociale della prima potenza al mondo.
Il sogno di MLK è del 1963, mentre i sermoni sull’ineguaglianza sociale sono del 1968, alla vigilia del suo assassinio. Non essere riuscito a togliere King dal mausoleo patinato dei diritti civili, per infondere contenuto e non solo rabbia alla comunità afroamericana di oggi, è stato il limite storico dell’era Obama sul piano interno.
Certo sarebbe ingiusto negare a Obama di averci provato, ma forse il limite della sua azione è stato affidarsi al repertorio, pescando cioè in un background culturale tipicamente anglosassone e caritatevole. Sul piano economico l’ha fatto sposando una ricetta keynesiana d’impulso pubblico all’economia (ma mal digerita dal settore privato) per distribuire ricchezza; sul piano della comunicazione ricorrendo invece a un generalizzato invito retorico ai buoni propositi, con l’accento sul sistema educativo. Su quest’ultimo punto, però, la sua azione si è concentrata principalmente sulle scuole materne, senza guardare con sufficiente attenzione alle statistiche, che indicano come il gap tra neri e bianchi cominci a diventare significativo soprattutto a partire dall’adolescenza e col percorso scolastico secondario, quando tende a cronicizzarsi.
Per King, più rivoluzionario in senso anche evangelico, era invece chiaro come il capitalismo americano si fondasse su una contraddizione in termini: aver cioè tratti socialisteggianti nella sua architettura lobbistica, basata su gruppi d’interesse certi di trovare sempre a Capitol Hill il paracadute politico per ogni situazione critica, e riservare invece la dura legge del libero mercato ai soli poveri, di ogni etnia e religione.
Alla vigilia della morte (Memphis, 4 aprile 1968, Lorraine Motel) il Reverendo aveva appena lanciato la sua “campagna per i poveri” (Poor People’s Campaign). Non uno slogan ma un’agenda precisa, capace di mettere a nudo il nudo capitalismo made in USA. Salario minimo garantito, diritto alla casa, redistribuzione della ricchezza. Poca poesia, molta piattaforma sindacale.
In questo King diede vero scandalo, sfidando l’America bianca e il proprio modello economico-sociale. La sua battaglia va quindi ben oltre quella dell’uguaglianza formale. L’uguaglianza cioè che si ottiene con il diritto di voto – diritto di cui, comunque, gli afro-americani continuano a essere privati in vari casi. Importantissima certo, ma non dirimente quando l’ineguaglianza sostanziale è solo un miraggio.
E’ in questo momento che King diviene intollerabile. Ecco perché lo si mitizzerà post mortem col suo volto più sognatore. Sarà infatti con Ronald Reagan che verrà istituito un giorno di commemorazione nazionale in suo nome (terzo lunedì di gennaio) mentre col Pastore vivo, nei giorni gloriosi della marcia su Washington del 1963, solo un americano su tre ne condivideva le idee.
Ieri come oggi la rivolta (ieri si diceva dei “ghetti” mentre oggi non esistono più, sostituiti da zone suburbane senza nemmeno più l’identità del ghetto) pone tutti, protagonisti e osservatori, di fronte al tema odioso della violenza. Chi l’ha insegnata a chi, sembrano chiedersi con onestà intellettuale i coniugi Bush dal loro ranch texano?
Ecco che l’attualità di King è tutta nella dicotomia violenza-non violenza, la stessa che oggi immobilizza gli Stati Uniti in una zona cuscinetto, o sarebbe meglio dire coprifuoco, dove il momento distruttivo non trova appigli per trasformarsi in fase costruttiva.
Uscendo dal suo bunker il presidente Trump, Bibbia in mano, ha fatto ricorso alla solita violenza verbale e digitale trash (gli ha risposto il capo della polizia di Houston, in stile reality tv, intimandogli senza mezzi termini di tacere). E’ tutta benzina sul fuoco della rivolta e allontana il momento di riflessione su un modello di sviluppo capitalistico creduto per decenni, dai suoi teorici, unico al mondo. Speciale in quanto privo di classi sociali, quando al contrario ne ha rivelate molteplici e tutte subalterne l’una all’altra giù sino agli invisibili.
Il narrow corner cercato da Martin Luther King, se possibile, si è fatto oggi più stretto ancora. Nel mondo colpito dal coronavirus e dalla risacca della globalizzazione, il monopolio della violenza e la cultura della non-violenza sono questioni rimaste irrisolte. E forse non è una campagna presidenziale con mediocri candidati (Trump vs Biden) nell’Impero dominato dai social media e dal loro linguaggio surrettizio il momento ideale per iniziare a mettere le cose a posto. O forse sì.